Di Federica Gaspari Genere: drammatico Anno: 2019 Regia: Hlynur Palmason Attori: Ingvar Sigurdsson, Ida Mekkin Hlynsdottir, Hilmir Snaer Gudnason, Bjorn Ingi Hilmarsson, Elma Stefania Agustsdottir Sceneggiatura: Hlynur Palmson Fotografia: Maria Von Hauswollf Montaggio: Julius Krebs Damsbo Produzione: Join Motion Pictures Paese: Islanda, Danimarca, Svezia Durata: 109 min Il cinema scandinavo, spesso intrappolato nell’immaginario comune della freddezza dei suoi colori e paesaggi, ha un modo piuttosto peculiare di portare in scena emozioni e sentimenti. A White, White Day (Hvitur, hvitur dagur) è il perfetto esempio di questo rappresentazione della sfera emotiva umana. Seguendo un approccio e un ritmo lontanissimo da ogni schema consolidato, il secondo lungometraggio del regista e sceneggiatore islandese Hlynur Palmson ha conquistato critica e pubblico dalla Semaine de la Critique di Cannes fino al concorso principale della 37esima edizione del Torino Film Festival. Il film, infatti, è stato premiato con il riconoscimento al miglior film, sorprendendo soprattutto i pronostici della vigilia che vedevano un’ottima accoglienza di pubblico e critica per l’horror distopico El Hoyo. A un primo sguardo, l’ultima pellicola di Palmason potrebbe sembrare la più classica frequentatrice di eleganti concorsi cinematografici. La storia di Ingimundur (Ingvar Sigurdsson) si avventura tra le pieghe del lutto della perdita della moglie, morta tragicamente in un incidente stradale dai contorni misteriosi. Questo punto di partenza piuttosto tradizionale, tuttavia, viene sviluppato in modo inaspettato, stimolando il pubblico con continui interrogativi e cambi di marcia distanti dalle canoniche variazioni sul tema. Un uomo, un padre, un nonno, un poliziotto, un vedovo. La vita di Ingimundur sembra essere perfettamente descritta da queste etichette. Anche la sua sofferenza, silenziosa e quasi invisibile, si consuma in modo rigoroso, secondo una (forse) stereotipata concezione scandinava. Non piange e difficilmente ha sfoghi emotivi: tutta la sua attenzione è concentrata nel lavoro per la costruzione di una nuova abitazione dove trascorrere la giornata insieme alla nipotina dal momento della scomparsa della moglie. Proprio come le sequenze stagionali del paesaggio da camera fissa che si alternano nei primi minuti del film, Ingimundur sembra quasi indifferente a tutto quello che gli accade intorno, con un comportamento che si riflette perfettamente nell’estetica fredda e algida della fotografia di Maria Von Hauswollf. Un’introduzione insolita che a tratti lavora a sottrazione esplode nella seconda parte della narrazione rivelando tutti i colori più accesi delle emozioni provate da Ingimundur: l’amore per la nipotina, la sofferenza per il sospetto del tradimento della sua amata e la rabbia per una realtà in cui non riesce più a trovare saldi riferimenti sono ormai incontenibili. L’attore protagonista, Ingvar Sigurdsson, è davvero viscerale nel dare forma al travolgente turbinio di emozioni che prende il controllo della scena. L’esplosione potrebbe sembrare improvvisa e dettata da un vero raptus ma Palmason già nella prima parte dissemina piccoli dettagli, all’apparenza accessori, che lasciano intuire l’inevitabile sviluppo. Insinuandosi nell’animo e nell’identità del suo protagonista come nella solitudine dei fiordi e delle insenature islandesi, il regista porta così in scena una storia difficile da inserire in un genere, creando forse una strana condizione tutt’altro che accomodante. Il passo verso l’ignoto e avvolgente bianco della foschia dei paesaggi islandesi e dell’anima di Ingimundur, tuttavia, verrà ampiamente ripagato da una prospettiva fuori dall’ordinario nonostante la superficie tradizionale. Immagini tratte da: https://www.torinofilmfest.org
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Marzo 2023
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