di Matelda Giachi
“Senza amare se stessi non è possibile amare neanche il prossimo, l’odio di sé è identico al gretto egoismo e produce alla fine lo stesso orribile isolamento, la stessa disperazione” Hermann Hesse
The Boys in the Band nasce come dramma teatrale. Scritto da Mart Crowley, debutta a New York nel 1968, supera le mille repliche e diventa per la prima volta un film nel 1970, con il titolo di Festa di Compleanno del caro Amico Harold, per la regia di William Friedkin; è uno dei primi film a parlare apertamente di omosessualità. La versione 2020 prodotta da Ryan Murphy e distribuita da Netflix, si basa sul revival della pièce andata in scena a Broadway nel 2018, che ne celebra il cinquantesimo anniversario e vince il Tony Award come miglior revival di un’opera teatrale. Siamo a New York, nel 1968, e un gruppo di amici omosessuali si ritrova insieme per festeggiare il compleanno di uno di loro. La festa sembra decollare con leggerezza finché il sopraggiungere inatteso dell’ex compagno di college del padrone di casa non inizia a sconvolgere una serie di equilibri. Il gruppo finisce imbrigliato in un gioco sadico: telefonare all’unica persona che pensano di avere mai amato per dirglielo. Struttura prettamente teatrale, che ricorda un po’ il nostro Perfetti Sconosciuti, o Carnage diretto da Polanski, ma soprattutto Chi ha Paura di Virginia Wolf? di Edward Albee. Un ambiente ristretto ospita un apparentemente gioioso ritrovo di persone che però finisce in una sorta di gioco al massacro, in cui riemergono emozioni represse e non affrontate. E’ l’accettazione il tema centrale; non solo da parte della società ma anche e soprattutto da parte di sé. Questo gruppo di amici cerca insieme di fuggire il senso di solitudine che li attanaglia ma ciascuno vive completamente a modo suo il proprio dramma interiore, prigioniero in un doloroso autoisolamento. La trasposizione cinematografica conserva la regia e il cast della versione teatrale e mantiene immutata l’ambientazione originale, da cui il testo non può prescindere. Ci sono temi che sicuramente restano attuali, che trascendono perfino limiti di genere o di orientamento e che accomunano chiunque viva quel dissidio dato dal bisogno di appartenere ad un gruppo in contrasto con la necessità di affermare il proprio io individuale. Ma The Boys in the Band è soprattutto la fotografia di un determinato momento storico e della cultura e dello spirito di quel periodo, la fine degli anni ’60. Il cast è ovviamente ciò che regge un’opera di questo tipo: Zachary Quinto, col suo imperturbabile Harold, si impossessa della scena ogni volta che viene inquadrato. Ma è Jim Parson, lo Sheldon di The Big Bang Theory, il protagonista assoluto, nel suo riuscire a rappresentare perfettamente l’ambiguità di Michael, il suo essere diviso. A lui l’autore ha affidato la battuta che racchiude in sé tutta la sceneggiatura: "Se riuscissimo a imparare a non odiare noi stessi in modo così implacabile" Voto: 7,5
0 Commenti
Lascia una Risposta. |
Details
Archivi
Marzo 2023
Categorie |