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27/7/2017

Superfood?! Cap. 4: Acque aromatizzate

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di Eva Dei
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Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta di nuovi superfood e, date le alte temperature di questi giorni, la scelta non poteva che ricadere sulle sempre più sponsorizzate acque aromatizzate.
Negli ultimi anni con l’arrivo dell’estate è facile trovare articoli e ricette per preparare queste bevande e magari vi sarà già capitato di sentirle proporre in qualche locale, specialmente se serve prodotti a base di frutta e verdura fresca.
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Ma di cosa si tratta? Molto banalmente si tratta di una bevanda a base di acqua fresca (può essere utilizzata sia quella naturale sia quella gassata) al cui interno vengono lasciati in infusione pezzetti di frutta, verdura, fiori eduli o erbe aromatiche, questo per un minimo di 3 ore fino a un massimo di 24 ore. In questo modo gli ingredienti lasciati in infusione hanno il tempo di rilasciare il loro aromi e profumi, insaporendo l’acqua. Quella che otterrete è certamente una bevanda dissetante come solo l’acqua può esserlo, ma con un gusto più accattivante.
Sicuramente le acque aromatizzate hanno numerosi pregi; prima di tutto limitano se non sostituiscono totalmente l’uso di bevande commerciali, ricche di coloranti e zuccheri. Sono facilmente realizzabili a casa e ciascuno può personalizzarle con gli ingredienti che preferisce; questi ultimi possono essere consumati insieme alla bevanda o eliminati filtrandola. Oltre alla facilità di preparazione, se conservata in frigo, l’acqua aromatizzata si mantiene bene per almeno 4 giorni.
Purtroppo sempre più spesso le acque aromatizzanti vengono chiamate anche “acque detox” come se avessero particolari proprietà in questo senso; in realtà trattandosi di una bevanda a base di acqua, senza dolcificanti né coloranti (quindi priva di calorie), è normale che abbia poteri drenanti e disintossicanti. La semplice acqua che consumiamo tutti i giorni ci offre già questi benefici senza nessuna necessità di doverla aromatizzare per farlo.
Per quanto riguarda la maggiore ricchezza di vitamine, qualità altrettanto decantata, questa è per così dire “scontata”, visto che l’acqua comune non ne possiede. Inoltre le acque aromatizzate non sono sicuramente l’unica possibilità che abbiamo per assumere vitamine, basta semplicemente consumare regolarmente frutta e verdura in varie forme (crude, insalate, centrifughe, spremute,…).
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Fatte queste precisazioni, le acque aromatizzate restano delle valide alternative per bere qualcosa di sfizioso senza l’aggiunta di coloranti e zuccheri. Sempre per questo motivo, un’altra buona abitudine sarebbe quella di realizzare in casa anche il tè freddo, bevanda molto apprezzata da grandi e piccini, soprattutto nelle stagioni più calde.
Il procedimento anche in questo caso è molto semplice: si pone sul fuoco in una pentola 2 litri di acqua. Poco prima dell’ebollizione si aggiungono 3 cucchiai di zucchero (meglio di canna). Una volta che l’acqua bolle si lasciano in infusione due bustine di tè (il tempo in questo caso varia a seconda della tipologia del tè che scegliete; per qualche indicazione a riguardo consultate questo articolo). Una volta eliminate le bustine si può aromatizzare il tè mettendo in infusione quello che si preferisce: foglie di menta, succo o buccia di limone, zenzero, fettine di pesca. Una volta raffreddato ed eliminati gli ingredienti prima citati si conserva in frigo per vari giorni. La bevanda che si ottiene è molto diversa da quella che siamo abituati ad acquistare in bottiglia al supermercato: il sapore di tè è più definito, non coperto dal gusto dolce e quindi anche più dissetante.


Foto tratte da:
http://wiki.cucchiaio.it/wiki/superfood/
http://www.modaacolazione.com/acque-aromatizzate-10-ricette-a-base-di-frutta-verdura-ed-erbe/
http://www.agrodolce.it/2015/04/21/te-freddi-aromatizzati/


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20/7/2017

“L’Artilafo”: 32 anni di ristorazione a Pisa

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di Eva Dei
Non è facile riuscire a tenere i battenti aperti per 32 anni, specie in un campo in continua evoluzione, quello della ristorazione, tantomeno in Italia, dove la cucina è un orgoglio nazionale. A Pisa c’è chi è riuscito in questa impresa, crescendo e trasformandosi nel tempo, facendo i conti con la crisi, senza però perdere la propria identità. Stiamo parlando dell’osteria “L’Artilafo”, condotta con impegno e dedizione da Bruno Cavallini e Antonella Breschi. 
Ripercorriamo alcune tappe dell’osteria che oggi trovate al numero 33 di via San Martino. “L’Artilafo” nasce in via Volturno nel 1985 come circolo AICS, allora una delle poche tipologie a cui era consentito la somministrazione di cibo e bevande. Inizialmente è una sorta di enoteca con un’ottima selezione di etichette e qualche piatto freddo, preparato però con ingredienti ricercati e mai banali, dall’autentico lardo di Colonnata a una buona scelta di formaggi francesi e italiani. Vista la richiesta da parte dei clienti, Bruno e Antonella inseriscono nel tempo anche qualche piatto caldo, una piccola scelta di piatti espressi da scegliere su una lavagnetta. Nel 1990 da circolo il locale si trasforma in ristorante e, nel 2003, si trasferisce nella sede odierna in via San Martino. Qui, inizialmente, i proprietari decidono di suddividere la ristorazione in due offerte: un menù e un servizio ristorante e un’altra osteria. Quali le differenze? Volendo garantire sempre una buona qualità dei piatti, la prima cosa che li differenzia è l’apparecchiatura: doppia e in stoffa per il ristorante, con tovagliette di carta per l’osteria. I piatti sono come già detto di buona qualità da entrambe le parti ma se per esempio al ristorante per la carne si usa filetto e polpa, l’osteria serve anche carne con l’osso; stesso discorso per il pesce: all’osteria si predilige quello che banalmente viene considerato pesce povero (la ricciola, il tonnetto alletterato…), pesce in realtà saporito ma di dimensioni più grandi, dove quindi si rende necessaria tutta l’abilità del cuoco per lavorarlo e sfilettarlo. Se inizialmente questa doppia formula funziona, nel tempo, anche a causa di una crisi economica che affligge sia i clienti che il settore, Bruno e Antonella decidono di portare avanti soltanto la formula osteria. Un’ ultima curiosità la riserviamo al nome: quando abbiamo chiesto a Bruno l’origine di questo ci ha spiegato che Artilafo era il nome di un signore pisano, pescatore di cee.
L’attuale locale è un’osteria a gestione familiare, con una buona selezione di etichette, con piatti curati e saporiti, sempre attenti alla stagionalità degli ingredienti. Talvolta potrete anche gustare qualche piatto tipico della zona, come la renaiola, la minestra d’orzo, la trippa o la tagliata servita con una salsina a base di acciughe e capperi. L’ambiente è molto accogliente e nasconde al suo interno un piccolo giardino pronto a ospitarvi nelle sere d’estate.
Il ristorante è aperto tutti i giorni da lunedì al sabato per cena (chiuso la domenica); i proprietari sono però molto disponibili e su prenotazione sono aperti anche per pranzo o pronti a esporvi le loro offerte per occasioni speciali, come lauree e compleanni. Da settembre ripartiranno poi le cene a tema, già collaudate in passato, quindi vi invito a controllare tutte le novità sul sito dell’osteria: www.lartilafo.it.
Non è sicuramente il tipico ristorante da turisti e non aspettatevi vassoi colmi di cibo, ma se amate la buona cucina vi consiglio di fermarvi qui (costo medio di una cena: 25 euro). Se non avete sentito parlare di questo locale un po’ defilato in via San Martino, adesso sapete che è un pilastro della storia della ristorazione pisana e non scordate che ai suoi tavoli hanno mangiato persone come Andrea Camilleri, Dario Fo e Dario Argento, solo per citarne alcuni.
 
Foto tratte da:
Foto gentilmente fornite dall’osteria “L’Artilafo” e foto dell’autore.

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13/7/2017

Evoluzione del gusto

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di Giuliano Sandroni

L’organo del gusto non è la lingua ma il cervello, un organo attraverso il quale impariamo e trasmettiamo criteri di valutazione culturalmente variabili nello spazio e nel tempo.
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La definizione di gusto varia a seconda delle popolazioni e dei periodi storici in cui viene determinato e si può definire come il prodotto culturale della persona che si trova a determinarlo.


Dare una definizione di “buono” o ”cattivo” gusto implica fare una sintesi del proprio passato, delle proprie abitudini socio culturali e storiche.

Il gusto è sapere e ha una valenza soggettiva, ma è anche una esperienza culturale che ci viene trasmessa fin dalla nascita, che si trasforma e si evolve attraverso viaggi o nuove esperienze culinarie.

Appare chiaro come la nostra idea di cucina e di sapori attualmente accettati e naturalmente preferibili sia variata nei secoli e appaia mutevole ai cambiamenti socio culturali futuri.

La cucina odierna tende a distinguere i sapori in modo netto e deciso, riservando a essi uno spazio autonomo e l’idea dominante è quella che essa stessa debba rispettare il sapore naturale di ciascun alimento.

In passato, invece, l’idea di cucina era quella di artificio, sovente si mescolavano sapori: un tipico esempio è il gusto dolce-salato, caratteristico di innumerevoli preparazioni medioevali e rinascimentali, oppure l’agrodolce che mescolava lo zucchero agli agrumi. Gusti non del tutto scomparsi, che si ritrovano nelle cucine europee più conservative come quella germanica o quella dei paesi dell’est europeo.

Anche in Italia troviamo molti esempi di questo tipo, prodotti come la mostarda cremonese, dove si unisce il sapore piccante delle spezie a quello dello zucchero o del mosto che le dà il nome.

Anche il piccione in crosta di miele della tradizione marocchina, l’agrodolce della cucina cinese, sono esempi di cucine di contrasto, tese a una ricerca di equilibrio.

Anche i tipi di condimento nei secoli hanno subito variazioni notevoli: prima c’era meno uso di grassi, si ricorreva maggiormente a salse con ingredienti acidi come aceto, vino, succo di agrumi e succo agresto, tenuti insieme da mollica di pane, fegato, latte, latte di mandorla, uova. Con il passare del tempo, invece, sono nate e diffuse salse e condimenti più grassi come la besciamella, la maionese, e tutti gli intingoli tipici della cucina borghese dell’ottocento e del novecento.

Anche nelle tecniche di cottura abbiamo avuto sviluppi notevoli e mutazioni. Spesso i tipi di cottura si sovrapponevano, anche per esigenze pratiche di conservazione e perché, incrociando tecniche diverse di cottura, si ottenevano particolari sapori e utili consistenze del cibo che ne facilitavano la fruizione prevalentemente manuale.

Dopo la cucina alla brace o alla piastra, dopo i primi rudimentali forni a buca o a giara, arrivarono le cotture con acqua e con grassi. La frittura, a differenza della bollitura, non può essere fatta con sostanze naturali, come le pelli di animali, in seguito serviranno vasi ignifughi e impermeabili, come quelli di argilla.

I primi contenitori adatti alla frittura comparvero circa 10.000 anni fa in Africa e in Medio Oriente. 
Dopo la terracotta, bisognerà attendere molto per un'altra vera innovazione nel modo di cucinare: il forno a microonde arriverà dopo 12.000 anni, ma non sarà assolutamente un miglioramento, vista la bassa qualità dei cibi che talvolta ne escono.


Immagine tratta da:
  • http://www.castellopietrafitta.it/VitaMedioevale.htm

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