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13/12/2018

Dialogo tra sognatori con i piedi nel fango - Incontro con Giovanni Impastato e Don Armando Zappolini al Teatro Rossi Aperto

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di Enrico Esposito
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Mercoledì sera è andato in scena un appuntamento importante all'interno della sala grande del Teatro Rossi Aperto di Pisa, magnifica realtà culturale riportata alla luce nel 2012 grazie alla passione di volontari e cittadini e tenuta in vita grazie a una valente autogestione. Il timore del freddo dovuto alla mancanza di riscaldamenti della struttura, è stato "combattuto" con coperte, tè e tisane caldi, cioccolatini, ma fortunatamente ha creato meno disagio delle previsioni, facendo sì che la buona cornice di pubblico arrivata potesse seguire fino alla fine "il dialogo tra i sognatori con i piedi nel fango". No, non stiamo parlando di una pièce, nè di una lettura o un particolare esperimento di sonorizzazione. Si è trattato di un semplice incontro, fondato sui valori della civiltà e della condivisione, uno di quei "raduni" che dovrebbero avvenire quotidianamente e non soltanto in occasioni speciali. Plauso va al Teatro Rossi, che ogni martedì sera riserva i propri spazi a proposte di comunità e spettacolo, plauso va al Presidio cittadino di Libera Pisa "Giancarlo Siani", che ha organizzato e diretto la serata, insieme alla Casa Memoria Giuseppe e Felicia Impastato, il gruppo T.a.m. – Tutela Ambiente Montano del Cai – Sezione di Pisa e la Libreria Pellegrini. Sono stati giovani che non arrivano neanche ai venticinque anni a tirare su e reggere egregiamente un confronto cordiale e netto, che ha visto Giovanni Impastato, fratello minore del Peppino che conosciamo tutti, e Don Armando Zappolini, protagonista instancabile di battaglie nel nome della legalità e della giustizia, raccontarsi, osservare gli spettatori e denunciare le decadenze attuali senza rinunciare al carattere di un cambiamento.
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Giovanni Impastato tra anni '70 e 2020. Quest'anno sono trascorsi quarant'anni dalla scomparsa di Peppino, e quattordici da quando Felicia, la loro straordinaria madre, lo ha lasciato impartendo a lui e ai suoi figli un deciso messaggio: non smettere mai di perseguire la verità e non rimanere da soli. Giovanni dice di non sentirsi solo, confessa di emozionarsi in occasione come quella di ieri perché viene accolto dal desiderio di ascoltare i suoi ricordi, ma anche i pensieri, le preoccupazioni. Giovanni ha parole per tutto. E non tabù. Parte dal riconoscere che il periodo più meraviglioso della vita sua e di Peppino è coinciso con l'infanzia spensierata "tra mafia e natura". Un periodo in cui  per i fratelli Impastato la mafia era qualcosa di positivo perché dava l'impressione di regalare una vita perfetta, colma di gioie e serenità. Un'idea fatta a brandelli come l'auto dello zio Cesare Manzella, capomafia di Cinisi, nel giorno in cui Peppino in primis capì e affermò con sicurezza malgrado i soli quindici anni che doveva uscire dalla casa in cui la mafia affogava fino al pavimento. Il momento della miccia, dalla quale sarebbe partita la guerra di Peppino in nome dell'amore per la giustizia, l'ecologia e la cultura, e l'avrebbe condotto la notte del 9 maggio 1978 a saltare in aria con la dinamite, preceduto dal padre eliminato in un altro attentato. Peppino accusato da morto di essere morto perché terrorista comunista, per decenni non difeso dalle istituzioni ma anzi oltraggiato e lasciato senza un assassino. Giovanni passa in rassegna tempi differenti, si sofferma sulla forza sovrumana di una madre in grado di ricacciare la mafia in un angolo e umiliare in tribunale l'ipocrisia dello Stato, elenca coloro che hanno davvero contribuito nel tentativo di "risarcire" la tragica fine di Peppino, e gli altri invece che hanno fatto in modo da difendere il fango della malavita. In "Oltre i cento passi", il libro di entusiamo, fantasia e impegno da lui scritto con Vauro alle illustrazioni, Impastato riaffonda il dito nella ferita che riguarda la rassegnazione e la passività che aumentano esponenzialmente all'interno delle coscienze degli Italiani e rendono i momenti di confronto e fusione tra le persone difficili a monte.
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Don Armando Zappolini adopera forse al riguardo una parola ancora più indicativa: "rassegnazione". E ha ragione. Ci si rannicchia in una posizione di mediocre e instabile comodità, nella convinzione che sia inutile cercare di ribaltare con gli strumenti della laboriosità, dell'impegno civile, della gioia situazioni attuali che non funzionano, che non ci stanno bene ma "potrebbe andare molto peggio". Don Armando da trentasette anni svolge quella che definisce "la cosa più bella della sua esistenza", ossia l'attività sacerdotale, che gli ha permesso di compiere vite parallele, di spingersi a intervenire su latitudini che non si incontreranno mai. Ha conosciuto due svolte nella sua vita, del tutto estranee. Agli inizi degli anni '90, da una parte l'incontro con Madre Teresa di Calcutta, che l'ha portato a effettuare ben trentasette viaggi alla volta dell'India. Dall'altra l'inizio della sua attività nei centri di recupero dei tossicodipendenti, tra Pisa e Firenze, al quale si è aggiunta la veste no-global, che con il G-8 di Genova si è scontrata con il soffocamento dei diritti di un'intera generazioni. Don Armando individua nei devastanti giorni del luglio 2001 l'omicidio delle speranze di migliaia di persone accorse nel capoluogo ligure, ma anche scese in molte altre piazze del Paese, a chiedere ai grandi del Pianeta i motivi per cui esistessero degli squilibri siderali tra i pochi e le fiumane, costituite da disoccupati,nullatenenti, disperati. "L'importanza della rabbia" sostiene Zappolini, la necessità di esternare un sentimento che non tutti vorrebbero concepire ma al quale sono costretti dalla sordità e ingordigia altrui. Ma non bisogna correre il pericolo di farsi piegare, nemmeno per sogno. C'è da rimboccarsi le maniche fino alla fine, per battaglie disparate. Un pò come Francesco D'Assisi, un modello da cui trarre insegnamento in massa. Don Armando ha intitolato il suo ultimo libro "Un prete secondo Francesco" in tale direzione.


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