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12/6/2017

La piazza è vuota

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di Lorenzo Alemanno
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Nello sciorinare ringraziamenti, alla fine del concerto, Andrea Appino e ‘Ufo’ Schiavelli non mancano di rivolgere un saluto ai normalisti affacciati alle finestre adiacenti il grande palco che insiste da un mese su Piazza dei Cavalieri, discretamente affollata alle 23.45 di un sabato sera nient’affatto qualunque. Se dovessimo scegliere un’immagine simbolica per raccontare cos’è stato il concerto degli Zen Circus a Pisa, sabato sera, non ne troveremmo una migliore. Ma per comprenderne a pieno la carica ironica e simbolica occorre un piccolo flashback musicale: nella canzone ‘Pisa merda’ si fa espresso richiamo agli studenti della Scuola Normale Superiore, sottolineando come i normali, in realtà, siamo noi, "Nati Per Subire" da una vita, forse per nostra natura, pensando vivamente che sia proprio una fortuna. L’introduzione della canzone è stata preceduta da canzonature degli stessi di cui sopra, che hanno salutato con ilarità la distesa di gestacci che la folla ha ironicamente dedicato loro. Sta forse qui il senso di una serata pisana, pisanissima, ma che racconta in realtà la realtà stessa della provincia italiana. Giocavano in casa questi ragazzotti non più tanto ragazzotti, che da oltre vent’anni consumano i palchi di mezza Italia per narrare senza filtri, ma senza nemmeno troppa seriosità, la fragilità delle idee di una generazione orfana di ideali, la transumanza dal collettivismo all’individualismo. Chi di noi non è, oggi, “un egoista”? Ma non basta. Scivolando dentro i testi, raramente banali, soprattutto negli ultimi dischi, non sfugge una consapevolezza matura di essere figli di genitori infelici. Eppure ritorna, anche nei temi più intimi e pericolosi, un’ironia di fondo che rende leggerissime certe frustate. La prova del nove di questa sensazione si ottiene facilmente guardando le facce del pubblico, composto per la maggior parte da giovani (a dispetto dei quasi 40 anni dei membri della band), che tra uno spintone e una birra, una foto e una canzone urlata a memoria, ridevano di gusto. L’atmosfera di allegria, più difficilmente l’aria di casa che fa salire solo nostalgia, ha contagiato inevitabilmente gli Zen che hanno dato vita ad uno spettacolo dinamico, senza pause, con continue gag tra un brano e l’altro che, per inciso, spogliano Appino da quell’idea di bello e maledetto che potrebbe facilmente indossare, calandolo a livello di un cazzone qualunque e rendendolo dunque umanissimo, e di contro rendono Qqru ben più di un batterista che assomiglia al fantasma di Frank Zappa (epico nell’entrare in scena direttamente a petto nudo e nel suonare un washboard a metà concerto) e Ufo Schiavelli una specie di conduttore/moderatore/presentatore della serata. Anche Francesco Pellegrini, chitarrista aggiunto, solitamente quieto e impassibile, tradiva un certo entusiasmo per l’ottimo mix di rock e ironia che strisciava in Piazza dei Cavalieri ieri sera e di cui dobbiamo ringraziare l’organizzazione dell’Aspettando Metarock, che al netto delle polemiche (in verità non troppo avventate) sul costo dei concerti di Bobo Rondelli e Levante, ha l’onore di aver portato nel pieno centro di Pisa un tris d’artisti di ottimo spessore, aspettando il main event di settembre, il vero e proprio Metarock.
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Piccola correzione: gli artisti che si sono succeduti in questi giorni non sono stati tre bensì quattro. Verso la fine del concerto degli Zen Circus ha fatto il suo ingresso sul palco Francesco Motta, pisano ed ex fonico del gruppo, che l’anno scorso ha tirato giù un album d’esordio notevolissimo, sponsorizzato dagli stessi membri della band con i quali fin dal sound-check e poi nel live traspariva un affiatamento amichevole, non semplicemente musicale. Nota dolente dell’esibizione di Motta, però, è stata la brevità della performance: una sola canzone, seppur la più emblematica del disco che non a caso prende il nome dal titolo del brano, “La fine dei vent’anni” e poi un paio di canzoni degli Zen cui ha prestato la sua chitarra e la cascata di boccoli impuzzoliti dal fumo di "American Spirit blu". Onestamente, visto il contesto perfetto e la sintonia con il resto dei musicisti, era lecito attendersi qualcosa in più, sebbene la sua presenza non fosse prevista dal borderò ma è stata incidentalmente inserita in scaletta.

Nel complesso, tuttavia, Pisa ha risposto benissimo a questo trittico di concerti che ha riempito Piazza dei Cavalieri di qualcosa che non fossero le solite bottiglie di birra che tanto odiano le autorità, vero simbolo del degrado di questa generazione spazzatura. Chi glielo spiega – alle autorità – che quei cocci per terra, quella puzza di piscio nei vicoli, il vomito sul sagrato della Chiesa di Santo Stefano e i marocchini che vendono il fumo agli angoli della Normale sono la concretizzazione di due ore di musica che nasce e muore esattamente lì, in quella Piazza, in quei vicoli, su quel sagrato, sotto la Normale, come un grande cerchio i cui angoli infiniti sono quegli stessi ragazzi normali, sì, normali, che non hanno niente di speciale? E che magari, ogni tanto, riescono a fare qualcosa di grandioso: essere felici.

Immagini tratte da Foto dell'autore (Marco D'adamo)

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