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31/1/2018

L'Odin Teatret racconta l'Olocausto attraverso la lucida sacralità di "Memoria"

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di Enrico Esposito
Foto

​Teatro Tascabile di Bergamo - Nordisk Teaterlaboratorium

Odin Teatret
MEMORIA
​

con Else Marie Laukvik e Frans Winther
testo Else Marie Laukvik, Eugenio Barba e Frans Winther
musica Frans Winther e canzoni popolari jiddish
drammaturgia e regia Eugenio Barba
Il 27 gennaio è stato celebrato il Giorno della Memoria, la ricorrenza istituita dall'Onu nel 2005 per rendere un adeguato omaggio alle vittime dell'Olocausto. Una ricorrenza molto sentita e accorata, manifestata attraverso celebrazioni pubbliche di differente forma, tra cui proiezioni di pellicole incentrate sulla tragedia e spettacoli teatrali a tema. Uno di questi è "Memoria", un recital musicale dalla grande intensità ideato e rappresentato dall'Odin Teatret, la storica compagnia fondata a Oslo nel 1964 dall'autore e regista Eugenio Barba, che tuttora dirige questo progetto. L'Odin Teatret introduceva una visione innovativa della performance in scena e della concezione medesima della macchina teatrale, ricercando interpreti pressocché esordienti e approfondendo lo studio sulla partecipazione interiore da parte degli attori alla storia raccontata. I metodi dell'Odin iniziarono a riscontrare sempre più successo a livello mondiale, al punto da essere diventati presto uno dei punti di riferimento più importanti su scala internazionale nell'ambito dell'attività di laboratorio e scambio teatrale, con oltre 77 spettacoli esportati in 65 paesi diversi e uno staff attualmente composto da 33 persone provenienti da 11 nazioni e quattro continenti. L'Odin arrivò a Pontedera per la prima volta nel 1975 e fu la prima compagnia ospitata dal novello Centro per la Ricerca e la Sperimentazione Teatrale costituito da Roberto Bacci. Un legame dalle radici profonde dunque tra il Teatro Era e l'Odin  che anche quest'anno è stato messo in luce attraverso "Memoria".
Per la regia di Eugenio Barba, "Memoria" cattura lo sguardo e stordisce le consapevolezze per merito dell'impegno minuzioso e sapiente di due soli protagonisti, Else Marie Laukvik e Frans Winther. L'una è la voce narrante del genocidio giudeo e delle sue protuberanze successive, la depositaria delle liriche popolari yiddish e di gestualità dal simbolismo risoluto che rafforzano la drammaticità delle terribili tragedie descritte e inducono lo spettatore ad ampliare il suo momento di riflessione su tale argomento. L'altro è l'esecutore musicale che si serve della fisarmonica come arco e dei violino come frecce, il fautore di macabre marce al cospetto della morte e di reminiscenze crudeli, il custode quadrato della fermezza e della speranza (anche per Else). Nel corso dei 65 minuti in cui si esibiscono, i due artisti non osservano mai delle pause neanche quando Frans Winther rimane immobile con il corpo e la bocca per ascoltare insieme al pubblico le parole di Else Laukvik e reagire attraverso la mimica o la musica. Ispirandosi alle novelle raccolte dalla scrittrice ebrea Yaffa Eliach, che sopravvisse alle persecuzioni in Lituania, all'interno del volume "Hasidic Tales of the Holocaust", sul palco prendono vita le storie di due fanciulli, Moshe e Stella, confinati nei campi di concentramento di Mauthausen e Majdanek, e sopravvissuti nel corpo ma non nell'animo all'estrema prova che la vita gli ha destinato in tenerissima età. Moshe e Stella, un ragazzino e una ragazzina, che erano nati e stavano crescendo felici, travolti freneticamente in un vortice totale di violenza, morte e umiliazione. Dapprima le loro odissee rivivono in terza persona "filtrate" da una prospettiva storica e oggettiva che in seconda battuta annulla la netta separazione tra le storie presentate (si aggiungono infatti successivamente gli omaggi a due grandi intellettuali giudei, Hans Mayer e Primo Levi) per mescolare le voci dei personaggi l'una con l'altra con un'enfasi che cresce a dismisura. Gradualmente i ricordi incancellabili, che dopo più di cinquant'anni ancora tormentano i loro sonni e sollevano l'ossessiva questione dell'essere ebrei, smarriscono l'ordine e la precisione con cui erano stati rivelati, vanno in tilt perché gli esseri umani non possono sempre essere in grado di reggere il controllo.
Arrivano dunque quegli attimi infernali in cui la calma e la resistenza sono ingoiate dalla rabbia, dal dolore lancinante, dalla mostruosità di una parte della vita che è rimasta sulle spalle e non dietro di esse. Seppur abbiano conosciuto l'orrore precocemente e siano stati costretti a saltare completamente una tappa cruciale della crescita come l'adolescenza per la necessità di passare subito alla fase adulta, Moshe e Stella avvertono con pesantezza il trauma di un percorso così innaturale e sono destinati a convivere con scorie del loro passato incancellabili. Il loro supplizio consiste nell'eterna infanzia che li caratterizzerà per tutta la vita, mentre Mayer e Levi, che all'esplosione della crudeltà razzista avevano affrontato la fase di passaggio detta, hanno dovuto fare i conti dopo il dramma della prigionia con il senso della ricostruzione, la logicità o meno di proseguire a vivere. "Chi è stato torturato rimane torturato. [...] Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l'abominio dell'annullamento non si estingue mai. La fiducia nell'umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più" aveva detto Mayer e citato Levi all'inizio de "I sommersi e i salvati", l'opera testamento, l'ultima prima di suicidarsi, come Mayer. Un peso interiore, personale e collettivo, vissuto dagli uomini di cultura sopravvissuti in forma esponenziale perché gravati di un compito immane: indicare la strada per un futuro, ritrovare una dimensione storica, sociale, culturale. 
In "Memoria", l'Odin Teatret si approccia all'Olocausto in una veste sacrale e mistica. Non c'entra Dio, né pullulano preghiere o pianti disperati. Lo sgomento e la sofferenza da parte delle vittime ritratte al passato e al presente si distinguono dall'inizio alla fine all'interno degli occhi spalancati, delle nenie e delle ripetizioni continue da parte della Sibilla Else Laukvik, e dell'incapacità di Frans Winther di accennare a un solo sorriso. Il suo sguardo è teso, sia mentre è intento a dare voce ai suoi strumenti sia quando si dedica a elenchi regolari di numeri e di proverbi. Non cambia di una virgola, ma d'altra parte lenti movimenti della testa in direzione di Else e soprattutto il gesto rassicurante di offrirle la mano in un momento di enorme disagio trasmettono una carica emotiva solenne e potente. Linguaggio della musica, delle parole, del corpo e infine il ricorso agli oggetti, ai simboli della tragedia che conquistano l'attenzione dello spettatore senza poter incontrare ostacoli. Si tratta di immagini dirette, crude come i pannelli su cui sono rappresentati i volti di Mayer e Levi, e l'orsacchiotto con una banda fascista al braccio destro, che Else affoga con veemenza in una bacinella all'apice di una riflessione colma di tensione. In un gioco di luci inatteso, che sprofonda l'intera scena in un buio pesto, creando un'esperienza onirica, di sfogo selvaggio. Il desiderio di vendetta viene soddisfatto, ma è flebile, momentaneo. La necessità del ricordo dettagliato invece domina la quotidianità e insegue il desiderio esemplare di non far dimenticare a coloro che hanno dimenticato.

Immagini tratte da: Foto dell'autore

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