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19/2/2018

Ne "l'odore assordante del bianco" rivivono i tormenti più profondi di Vincent Van Gogh

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di Enrico Esposito e Matelda Giachi
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​Firenze, Teatro della Pergola, 8 febbraio 2018. Sul palcoscenico siamo nel 1889, in una stanza del manicomio di Saint Paul de Manson, in Provenza. Intrappolato in questa stanza spoglia, in un luogo in cui l’arte è una forma di eccitamento da mettere al bando, stretto da “L’odore assordante del bianco”, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, un uomo alla costante ricerca del colore: il pittore Vincent Van Gogh.
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Ha il volto di Alessandro Preziosi, noto ai più per i ruoli ricoperti in televisione ma che, negli ultimi anni, ha scelto di mettersi in gioco sul ring più difficile per un attore, quello teatrale, che mette a nudo il talento senza pietà. Preziosi supera la prova, regalando allo spettatore un Van Gogh tormentato dal bisogno di espressione, dall’incomprensione della gente e da un perenne conflitto tra realtà e immaginazione che non trova mai soluzione e che è il fulcro dell’opera del drammaturgo fiorentino Stefano Massini.

E’ reale la visita del fratello Theo (Massimo Nicolini)? O quel lungo monologo che Vincent ascolta muto e con sguardo perso come in un mondo lontano è soltanto una voce nella sua testa? Così sostiene il Dott. Vernon Lazàre, che ha in cura Vincent e che, narcisista esagitato, si diverte a mortificarlo con fare sadico, contrapponendosi a lui anche come artista.

​Theo compare in scena sin da subito. Entra in una stanza completamente bianca. Bianco è il soffitto, bianco è il pavimento, come i muri, il letto. La vestaglia di Vincent. Vincent che resta fermo nel suo sguardo perso o forse fisso nel vuoto, e non fiata. Ascolta l'intero antefatto rovesciato dal fratello con una rapidità iniziale galoppante, eccessiva. Theo appare nervoso, da l'impressione di una certa fretta almeno dapprincipio, perchè proseguendo nei suoi discorsi si scioglie, si rilassa, sorride. Invoca un Vincent presente nel corpo ma muto, privo di parola e reazioni, in apparenza lontano. Theo recita a tutti gli effetti un monologo, ma nel momento in cui sta per andar via deluso dal silenzio del fratello, assiste (insieme al pubblico) alla vera entrata in scena di Vincent Van Gogh. Il protagonista dalla doppia personalità.
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Incompreso e arrogante, disperato e sprezzante. Lucidissimo in un momento, atterrito in quello successivo. Nella malattia che gli trapassa la vita da molto tempo ma non è in grado di ostacolare la creazione di capolavori inimitabili, Vincent diventa la vittima di un gioco perverso e ben riuscito in cui trionfano la contrapposizione centrale tra realtà e finzione, e le sue varianti multiformi come individualità vs collettività, vuoto vs pieno, bianco vs colore. Vincent è imprigionato in un "castello di granito bianco", dentro il quale è vietatissimo scrivere, leggere e ancor di più per lui dipingere. Ma sotto lauto compenso, l'infermiere Gustave gli ha fatto avere dei colori, delle tele, sopra le quali l'artista ha realizzato delle opere dal valore altissimo, tra cui un ritratto del Dottor Vernon-Lazàre, il suo nemico giurato. Un narcisista esagitato, che, supportato da Gustave e dall'altro infermiere Roland, è in grado di attirare un disprezzo viscerale da parte di Vincent perchè lo tratta con sadico compiacimento, gli nega la possibilità di abbandonare l'ìstituto in compagnia del fratello, e soprattutto dipinge anch'egli. Ma delle opere dal valore rivoltante.

Alla scenografia essenziale in cui si svolge la parabola della sua prigionia, Vincent impone il desiderio prorompente di viaggiare a ritroso nel tempo e nello spazio, in una ricchezza di ricordi, di paesaggi e sfumature. Davanti a Theo riassapora le scorribande dell'infanzia, per alcuni attimi parla con la voce che gli apparteneva da bambino, e tra le braccia dei medici – aguzzini vola col pensiero al verde dell'erba al di là dei muri bianchi, alle distese di fiori e cereali di Arles, al blu del mare di Anversa e ai voli affumicati di Parigi. Degas, Gauguin, Toulouse-Lautrec e i loro fantasmi scorrono in fila dinanzi agli occhi mentre viene lasciato per due ore a mollo nell'acqua gelida della vasca del manicomio. Vincent ripensa e nomina in continuazione le vasche, e vuole fuggire al pù presto da Sant Paul, perchè sta soffocando. Ma fino a che punto è mai possibile credere alle sue parole e ai suoi racconti? Vincent ha davvero ricevuto la visita del fratello, e ha davvero dipinto il ritratto del Dottor Vernon? La risposta a queste domande fastidiose per lo spettatore, viene fornita dal sopraggiungere inaspettato di un personaggio chiave, il Direttore del manicomio, il Dottor Peyron (intepretato da un magistrale Francesco Biscione), che si materializza all'improvviso, e per questa ragione potrebbe non essere reale.

Il Direttore assume un atteggiamento radicalmente opposto a quello insolente di Vernon. Si dimostra affabile e interessato in modo particolare al benessere di Vincent. Si siede ad ascoltare le sue variegate riflessioni: la genesi del suo essere artista, l'idea di libertà individuale, il rapporto complicatissimo con gli altri uomini. La gentilezza di Peyron conquista Vincent e lo persuade a confessare i suoi pensieri più accesi, le sensazioni che l'hanno consegnato alla sua arte. Peyron asseconda, conforta, ha il merito di scatenare gli sfoghi repressi di Vincent, e nel convulso finale in cui si ripalesa il fratello Theo, la supremazia incontrastata del bianco si scioglie al cospetto di un giallo inedito e vittorioso. Giallo che richiama gli storici girasoli e gli astri della notte stellata, giallo solare perchè icona della scoperta della verità della propria natura e stimolo decisivo per affrontare la scelta più dolorosa.

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Immagini tratte da http://www.teatrodellapergola.com/

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