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14/6/2019

Poco più che persone – il marito

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di Olga Caetani
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Tutto esaurito per lo spettacolo d’apertura dell’attesissima seconda edizione del Festivaldera, accompagnato quest’anno da un vertiginoso volo di rondini, i cui garriti sembrano risuonare tra i palazzi di Piazza Rodolfo Valli a Ponsacco, mentre il giorno cede lentamente il passo al tramonto, in una tiepida serata d’estate. Il pubblico freme impaziente per l’inizio del reading “Il marito”, che inaugura il ciclo – in Prima Nazionale - “Poco più che persone”, ancora una volta firmato dal grande drammaturgo Michele Santeramo. Applausi insistenti chiamano finalmente sul palco Pippo Matino al basso elettrico e Marco Zurzolo, compositore delle musiche originali, con il suo sax, gli unici strumenti accanto alla voce inconfondibile e all’interpretazione magistrale di Sergio Rubini, che arriva sulla scena con ancora il testo in mano, subito sistemato sul leggio. L’emozione è letteralmente tangibile. 
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​“Siamo tutte brave persone”, esordisce il marito, “con i nostri bei vestiti, barba e capelli fatti, ben truccate”, ma starà al pubblico giudicare dopo aver ascoltato il racconto della sua storia, rispetto alla quale i propri problemi quotidiani, i fastidi, le lamentele sembreranno inezie e faranno sentire, tutto sommato, grati e fortunati: “la gente preferisce pensare che basta comportarsi bene per non partecipare alle tragedie”. Il marito è innanzitutto un maestro, insegna Leopardi e Camus ai bambini, che non possono ancora definirsi persone, ma lo diventeranno quando, verso i dieci anni, si guarderanno allo specchio e diranno: “io”. Prima, “nessuno fa male perché nessuno ha ancora imparato a fare male”.  Una poco più che persona invece non ha bisogno di guardarsi allo specchio, come suo padre, un contadino, simbolo di quella semplice e schietta saggezza popolare, vissuto in un reverenziale rispetto per la Natura ormai perduto. Il ricordo dell’obbligo imposto dal padre di togliersi le scarpe prima di salire sugli alberi, per non calpestarli ma accarezzarli, instaurando con loro un rapporto intimo e profondo, riesce a  creare negli occhi degli spettatori un’immagine indelebile e bellissima, densa di significati. Perché un albero è una cosa preziosa, come la donna di cui si innamora il marito. “Non posso stare senza di te”, dichiara un giorno in un locale alla sconosciuta. Viene preso per pazzo e lei si allontana, così la segue, l’attende di fronte a un porta chiusa, dalla quale escono i fratelli della donna, che lo pestano fino a farlo cadere a terra. Allora lei decide di raggiungerlo, tamponando il sangue che sgorga con un lembo della sua maglietta imbevuto di saliva: “capii che era il suo modo di chiedere scusa”. Fra i due inizia una storia d’amore apparentemente convenzionale, fatta di attese e sacrifici, per cui vale la pena di pagare una tangente (“giudicate voi…”) per poter ottenere un posto di lavoro vicino casa – in un non precisato paese del Sud, che è sempre nostalgico sinonimo di caldo, sole e mare, contrapposto a un nevoso e nebbioso Nord altrettanto indefinito nello spazio reale - e iniziare la propria vita insieme. “Voglio sposarti”, dice il marito. “È normale”, risponde lei, lapidaria e in pedissequa obbedienza al credo imposto dalla società. E così, comprano un’auto, prendono un mutuo, acquistano un modesto appartamento in un quartiere popolare, dove i bambini giocano per strada e le pareti trasudano lasciando intravedere l’esile scheletro di cui sono fatte le case. 

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​Un giorno - un giorno qualunque - il marito è in macchina in attesa della donna, che arriva di fretta. Sono in ritardo, devono andare a comprare i fiori per le nozze. Ingrana la retromarcia, inizia a fare manovra. Un sobbalzo e poi un dubbio agghiacciante lo assale. Scende dall’auto, vede la ruota posteriore. Poco più in là il minuscolo corpo di un bambino di tre anni, esangue. È il corpo di Marcello, figlio dell’inquilina del piano di sopra, che come tutti i giorni qualunque giocava per strada, nel quartiere popolare. Al processo, il marito non viene dichiarato colpevole: un bambino di tre anni dallo specchietto retrovisore non lo avrebbe potuto vedere. Ma è una libertà pesante da sopportare, con le grida e le lacrime della madre di Marcello al piano di sopra. La giustizia, in fondo, è la maschera della vendetta, che qui non c’è stata. “Marcello era prezioso”, e quasi come un’oscura presenza gli rimarrà accanto tutta la vita, segnando inevitabilmente il suo destino. 

Il matrimonio si fa, comunque, e il marito sente di essere in debito, di dover rimettere “le cose in pari”. Così si insinua nella sua mente l’idea di fare un figlio, avendone sottratto uno al mondo. Quando un pomeriggio rientra a casa da scuola e scopre che sua moglie, incinta, non c’è, e a lavoro gli dicono che si è sentita male, corre in ospedale ma non la trova. Fa ritorno nell’appartamento, e, più tardi, anche sua moglie: aborto spontaneo. In questo modo il mondo aveva pensato di rimettere le cose in pari. La donna affronta il vuoto incolmabile sprofondando in una depressione, curabile, secondo il marito e anche suo padre, soltanto con il concepimento di un altro figlio. Una sera, disteso vicino alla moglie nel letto, dove la donna ormai trascorre gran parte delle sue giornate, inizia a toglierle i pantaloni, poi le mutande. Lei rimane inerme, con gli occhi vacui, tanto che al marito sembra di violentarla, anche se per il suo bene, tutte le sere, fin quando lei non gli intima di farla finita, provata anche dal dolore fisico. Distrutto, con il rimorso di aver violentato sua moglie, il marito decide di comprarlo un figlio, e neanche sapeva che alle persone si potesse dare un valore, un costo. “Erano casting. Un talent show. Noi eravamo i giudici. Si decideva il destino delle persone”. In un lugubre appartamento vuoto di periferia, portando con sé tutti i suoi risparmi, il marito prende parte ad un’asta clandestina, in cui esseri umani sono ridotti a nient’altro che merce, venduta alla migliore offerta. “Donna, sulla trentina, violentata in Libia”… a fare la carta d’identità di una persona sono le proprie disgrazie. 
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“Ecco tuo figlio”, un ragazzo di quindici anni, difficile da poter considerare figlio. La moglie discosta le lenzuola che sembrano seppellirla, e chiede: “Come si chiama?”. E subito si alza dal letto, va in cucina e prepara la cena. Gli scambi di battute tra la coppia e il figlio sembrano gettare le basi per l’instaurarsi di un rapporto familiare, che ha in realtà durata effimera. Con il passare del tempo infatti, il marito, mentre si trova a scuola, non può fare a meno di pensare alla maliziosa complicità che si è creata tra la moglie il figlio, fatta di occhiate, sorrisi e risate da cui il marito è palesemente tagliato fuori, ma non ha il coraggio né la forza di sapere se il bambino che la moglie porta nuovamente in grembo è suo o del figlio. Una notte, accecato dalla rabbia, si alza, prende un coltello e si dirige verso la camera dove dorme il figlio, sforzandosi di capire dove si trova la famosa giugulare dei film. Nel corridoio, vede il suo riflesso in uno specchio e si scopre ridicolo, con addosso il pigiama e quel coltello in mano, pronto a un gesto inconsulto. “Se tutti gli assassini si guardassero allo specchio prima di uccidere, non lo farebbero”. Mentre il reading procede verso il finale, il marito sceglie di non uccidere proprio grazie a uno specchio, quello specchio che trasforma i bambini in persone, ma lui è qualcosa in più che una persona. 

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​“Non avete il diritto di lamentarvi. Non avete il diritto di lamentarvi” è il monito finale, che risuona come un’eco potentissima e va dritto al cuore, con un sussulto, tra le note del sax e del basso di Marco Zurzolo e Pippo Matino. Il marito si rivolge direttamente al pubblico, come in altri momenti dal sapore metateatrale del reading, spingendolo a confrontare la propria vita con la sua, e con il racconto che della stessa vicenda farà la moglie, da un punto di vista radicalmente diverso. Santeramo è inconfondibilmente presente in ogni riga del testo, nelle sue pieghe metateatrali, nell’indefinitezza in cui lascia sospesi tempo, spazio e personaggi, così che chiunque vi si possa identificare, e nei sottili ma continui riferimenti alla contemporaneità, vista con sguardo critico e giudicante (le tangenti, il degrado della periferia, la tratta di esseri umani spacciata come immigrazione…), ma senza mai scadere nell’esplicito o nella volgarità. La sua è una fine e implacabile analisi della psicologia umana, che diventa “commedia umana”, con tutti i dogmi e le convenzioni imposte da una società alla quale sembra di essere costretti ad appartenere, senza via d’uscita se non il baratro. “Dalla bruttezza può nascere la bellezza”, ripete spesso il marito, che ci dice che è vero però anche il contrario, come ha dolorosamente imparato sulla sua pelle. Rispetto alla scorsa edizione del Festivaldera, l’atmosfera, resa perfettamente dagli intermezzi delle musiche di Zurzolo, che ricalcano e amplificano la disperazione del personaggio nella voce di Rubini, si fa molto più lugubre, bassa e squallida, come quando si guarda fino in fondo dentro la gente, dove si trovano “solo buio e sangue”. Ma siamo tutte brave persone.  
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Immagini tratte dalla pagina Facebook del Festivaldera 2019: 
https://www.facebook.com/Festivaldera

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