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22/6/2019

Poco più che persone – la moglie

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di Olga Caetani
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La moglie è una donna che sovverte ogni convenzione imposta dalla società, ogni regola non scritta, dettando leggi nuove e più potenti. È un personaggio che dissemina sconcerto e ripugnanza nelle menti perbeniste, toccate nel loro ipocrita moralismo. È la protagonista di un reading che scuote il pubblico dell’Anfiteatro Julian Beck di Pontedera e lo lascia tornare a casa, dopo la profusione di applausi che si riversa sulla cavea, con l’augurio di dormire bene, ripetuto due volte, che ha il sapore amaro di un monito, difficile da rispettare quella notte. 
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Valeria Solarino, radiosa nella sobria eleganza che la contraddistingue, rompe l’attesa e il silenzio del palco spogliato di ogni ornamento scenografico. La voce della moglie inizia a raccontare la sua storia di getto, soltanto in seguito accompagnata dalle note vigorose del sax di Marco Zurzolo e della batteria di Agostino Mennella. Da bambina suo padre le diceva sempre: “Tu sei una principessa di cristallo”, preziosa ma al contempo fragile, facile da scalfire e incrinare, fino a rompersi, se messa a nudo e privata della corazza che gelosamente la protegge. 
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Quando vide suo marito per la prima volta, che, dopo essere stato pestato a sangue dai suoi fratelli fino a farlo cadere a terra, si sollevò pian piano e si sedette, pensò che quell’uomo non si era “rotto”, e, provando tenerezza, scese in strada a soccorrerlo. Da allora, la moglie entra in una scia di eventi, dalla convenzionalità disarmante, che sembra fluire incontrastata e del tutto al di fuori del suo controllo: il lavoro, la casa, il fidanzamento… “Mi fa ridere che tutte le giornate nascono come giornate qualunque, e poi alcune si prendono i contorni di qualcosa di speciale”. Anche quel giorno era nato come uno dei tanti, fin quando una retromarcia non si prese la vita di Marcello. Quella morte sconvolge la moglie forse ancor più del marito, che dopo la macabra scoperta delega al racconto della moglie il ricordo della sua stessa reazione. Ogni cosa da quel giorno non sarà più la stessa, con le grida e le lacrime della madre di Marcello che si sentono provenire dal piano di sopra. “Quella donna aveva gli occhi rotti anche lei, pieni di lacrime che specchiavano il mondo e non lo facevano più entrare”. 
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La volontà del marito di rimettere le cose in pari, ridando al mondo il figlio che ha sottratto, costringe la moglie a confrontarsi con l’idea mai avuta prima di essere madre. Le sembra che la parola “mamma” suoni piuttosto strana se accostata al suo nome. Decide di accettare, seppur passivamente, il desiderio del marito: in fondo a lei “bastava aprire le gambe e accoglierlo”, trovandolo ridicolo, lui, il maestro che di giorno insegna Leopardi e Camus ai bambini, e che di notte si sforza dando sfogo ai suoi più bassi istinti animali nel tentativo di avere un figlio e rimettere le cose in pari, soprattutto, quando la moglie scopre di essere già incinta, ma vuole tenersi questo intimo segreto tutto per sé ancora per un po’. Ridicolo il marito lo è anche quando parla e racconta favole – edulcorate illusioni di realtà e quindi inutili per i bambini - a una pancia, che la moglie si vede crescere davanti come un corpo estraneo, come qualcosa che sente al di fuori di sé. Poi, un mattino, le dimensioni del feto aumentano a tal punto da toccarla fin troppo profondamente, dove nessun altro sarebbe mai potuto arrivare, oltre la corazza, scalfendo il suo cristallo. E qui Santeramo tratta il tema ancora troppo spinoso dell’aborto con la delicatezza con cui si maneggia proprio un cristallo. La moglie dice di non sentirsi bene, corre in ospedale, ma nessun medico è disposto a operare senza un’adeguata preparazione psicologica della donna. Lo sguardo muto di due occhi dietro a un bancone, che allungano un eloquente biglietto da visita, l’indirizzo di un anonimo palazzo di prima periferia, poi una stanza quasi sterile ed è fatta. Alla notizia di un aborto spontaneo il marito, che aveva accolto la gravidanza con lo spirito di  quando ci si è tolti un peso, è disperato e preoccupato per la salute della moglie. Così lei, in obbedienza a quel copione di finzione e invenzione che è diventata la sua vita, sceglie di fare ciò che tutti si sarebbero aspettati, iniziando a recitare la parte di una madre che lentamente scivola nella depressione più profonda. Questo nuovo status comporta dei vantaggi: in ufficio, i colleghi – anche uomini - si offrono di sbrigare il suo lavoro, perché assurdamente sostengono di capire il dolore dovuto alla perdita, mentre a casa si moltiplicano le attenzioni dei fratelli, del marito e del suocero. Per il suo bene, per darle cioè un altro figlio, il marito la violenta, tutte le sere, dopo cena, chiedendo, impacciato, “ti ho fatto male?”, fin quando il dolore fisico diventa insopportabile. 
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Un pensiero attraversa la mente, lucida quanto diabolica, della moglie: provare almeno a essere madre, per capire se ne è o meno all’altezza. Quel giorno ha a disposizione molte ore, il marito è fuori per una gita. Così, esce di casa, da quella prigione di “letto e dieta”, indebolita fino alle ossa, per recarsi al supermercato e fingere di fare la spesa. Rapisce un neonato, in una scena grottesca e calcolata al millimetro. Trascorre la giornata appena fuori città, abbandonando il bosco selvaggio di palazzi e case, per trovare rifugio ai piedi di un grande albero. Essere madre non fa per lei, non sa cosa farci con quel bambino, dopo averlo nutrito da un seno vuoto, cambiato e addormentato. Tornata in città, abbandona il bambino sul ciglio di una strada e attende finché un passante lo trova e incredulo e felice, dopo lo scompiglio creatosi per il rapimento, “posterà una foto con il bambino sul suo profilo”, come se fosse un eroe, quando in realtà è lei l’architetto di tutta quella messa in scena. “Dio è la menzogna, il diavolo è la verità”, ed è maledettamente vero.    

“Sai che non potrò mai essere tua madre?”

“Lo so”, risponde il figlio, poco dopo essere stato comprato dal marito. Tra la moglie e il figlio si crea da subito una spensierata complicità. Con l’arrivo del figlio, la donna può di nuovo vivere con spontaneità, senza finzioni, ritrovando se stessa e riassaporando i suoi quindici anni, l’età dell’innocenza, con un bacio che sa di mare, di corse, di grida di bambini. Quando comunica al marito di essere di nuovo incinta, e costui non ha il coraggio di pronunciare la domanda alla quale, dentro di sé, sa già dare una risposta, la moglie ne resta profondamente delusa, scoprendo che anche il marito in realtà è fatto di cristallo. “Se togli di dosso alla gente la corazza che serve per vivere, sotto sotto vai a vedere che c’è cristallo o vetro o roba così fragile che è un miracolo tenere insieme i pezzi”. Dopo il parto, ride osservando il marito e il figlio che cercano di capire a chi dei due assomigli il bambino, e suggerisce una frase bellissima, densa di significati: “i neonati assomigliano a tutti i neonati del mondo”, prefigurando i grandi temi dello spettacolo di chiusura del Festival. 
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Sulla porta di casa, il figlio di quindici anni, radunate le sue cose in un borsone, mentre il marito non gli riserva neppure un ultimo sguardo, chiede se il bambino è suo. “Tu vuoi essere padre?”. Con gli occhi bassi e  dopo qualche secondo di silenzio, il figlio risponde di no, e la moglie lo lascia andare: una verità, finalmente.

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​La moglie è senza dubbio un personaggio controverso, dalla psicologia imperscrutabile, che ripudia qualsiasi possibilità di identificazione con lo spettatore. Sceglie di vivere nella finzione e nell’inganno per difendere strenuamente la sua fragilità, ed è onesta e sincera con se stessa, conosce e accetta le sue debolezze. Le musiche di Marco Zurzolo l’accompagnano in un crescendo di variazioni sul motivo principale - costante negli spettacoli dell’intero ciclo - che, con la batteria di Agostino Mennella, assumono dei tratti rock, della stessa tonalità superba e accattivante della moglie. 
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Immagini tratte dalla pagina Facebook del Festivaldera 2019: 

https://www.facebook.com/Festivaldera

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