Molti anni dopo la fine della guerra, i sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti raccontavano di un incubo ricorrente. Sognavano di parlare della prigionia ad un amico o un parente: ma questi, all'improvviso, voltava loro le spalle e andava via. Quel sogno era l'espressione del bisogno di rivelare le sofferenze subite, di raccontarsi, di fare in modo che l'orrore vissuto da milioni di persone non venisse dimenticato o, peggio ancora, ignorato. A quel bisogno Primo Levi aveva risposto con Se questo è un uomo, narrando la propria esperienza – tremenda, assurda, commovente – di prigioniero ad Auschwitz.
I sommersi e i salvati, pubblicato 40 anni dopo, assolve ad un compito diverso. Se all'indomani della liberazione l'imperativo che si imponeva ai sopravvissuti era quello di "rendere testimonianza" di quanto successo, era adesso giunto il momento della riflessione. Ormai "decantata" (e non è casuale la scelta di un termine preso a presto dalla chimica) attraverso il filtro dei decenni l'esperienza e la sofferenza dei campi di sterminio, bisognava avere la lucidità e il coraggio di analizzare i modi in cui la Shoah aveva potuto attuarsi: riconoscerne i meccanismi, le circostanze che avevano permesso un tale orrore, attribuire responsabilità. I sommersi e i salvati non è più una storia personale, né è il racconto di una delle pagine più nere della storia dell'umanità: è una riflessione sulla capacità (o la compulsione) dell'uomo di perpetrare il male in maniera deliberata, meccanica, e sulle ferite che quel male ha potuto infliggere nell'animo di chi ne é stato vittima ed è sopravvissuto.
Trovatasi all'improvviso di fronte allo spettacolo di milioni di esseri umani ridotti a gusci scheletrici dietro le barriere di filo spinato dei lager, la coscienza occidentale aveva preferito voltarsi e non guardare. I racconti di chi era sopravvissuto all'inferno nazista erano stati ignorati, o accolti con un'educata ma disinteressata accondiscendenza: pensare che fosse stato possibile arrivare a tanto era impossibile, grottesco, spaventoso. Erano serviti anni per riuscire finalmente a fare i conti a viso aperto con la verità della Shoah (solo nel 1958 Einaudi deciderà di pubblicare Se questo è un uomo).
Per quale motivo? Perché era stato così difficile riconoscere le atrocità del regime nazista, persino da parte di chi da quelle atrocità non era stato toccato neanche indirettamente? Perché ciò comportava implicitamente la necessità di un'assunzione di responsabilità, il dovere di puntare il dito contro le colpe non solo dei carnefici, ma anche degli spettatori e, persino, delle vittime. Bisognava scandagliare quella che Levi aveva chiamato "la linea grigia": quel territorio ancora inesplorato in cui bene e male, innocenza e colpa si mescolano e rischiano pericolosamente di confondersi. I lager sono stati un microcosmo in cui i normali valori etici sono stati frantumati e riassemblati in forme nuove e terribili. La colpa dei carnefici è indubbia: ma quanto quella "banalità del male" di cui ha parlato Hannah Harendt (la percezione che gli aguzzini avevano di sé come semplici funzionari impegnati a seguire ordini piovuti dall'alto) costituisce, se non una giustificazione (cosa che sarebbe impossibile e vergognosa), almeno una spiegazione di come la "soluzione finale" nazista abbia potuto attuarsi?
Ma la linea grigia dell'esperienza dei lager ingloba persino le vittime. Ne I sommersi e i salvati Levi scandaglia a lungo quel sentimento di colpa – come un misto di vergogna e rimorso – che ha attanagliato per anni i sopravvissuti. Era la sensazione di aver in qualche modo accondisceso ai piani dei propri carcerieri, la colpa di aver toccato il fondo, di essersi macchiati essi stessi in nome della sopravvivenza di colpe più o meno gravi (è il caso dei Kapos, o dei membri dei Sonderkommando – prigionieri ebrei con il compito di seppellire o cremare i cadaveri delle vittime). O, ancora peggio, il rimorso per non aver avuto il coraggio di ribellarsi e di lottare per la propria vita, e la consapevolezza che dai campi di sterminio non erano certo scampati i migliori o i più meritevoli, ma semplicemente i più fortunati. Un'affermazione forse giustificata: ma nell'inferno nazista le colpe delle vittime sono state ben poca cosa rispetto alle atrocità degli aguzzini.
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Febbraio 2023
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