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27/1/2018

I Promessi Sposi, un romanzo verbalmente imperfetto o imitazione dello spagnolo?

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Di Lorenzo Vannucci
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​Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi si pone il problema dell'inadeguatezza della lingua letteraria italiana. Nella Prefazione al Fermo e Lucia Manzoni rivela di essere insoddisfatto delle scelte fino a quel momento da lui compiute, consistente nel mescolare francesismi, latinismi, espressioni toscane e lombarde. Inizia così quella che è stata definita da numerosi studiosi “la questione linguistica manzoniana” in cui lo scrittore milanese passa da una lingua “ibrida” all'utilizzo del toscano colto. Dopo aver tradotto in toscano i lombardismi presenti nel suo romanzo (1827), per avvicinarsi a una lingua che gli consentisse di essere compreso da tutti e di assurgere al piano della letteratura, Manzoni, insoddisfatto, decide di apportare un ulteriore cambiamento nell'edizione del 1840 adottando la lingua parlata dal ceto medio colto della città.
Una delle questioni più controverse è la scelta, da parte del Manzoni, di usare il condizionale presente al posto della forma composta. Nel capitolo IV al posto del condizionale composto “sarebbe partito” compare la forma base del verbo “partirebbe”: «Finalmente richiese, impose come una condizione, che l'uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città» [cap. IV]. Nel capitolo XII la comparsa di questa “inversione” «se i fornai strillassero, non lo domandate» e «anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti» ci permette di comprendere come questo non sia un fenomeno isolato nel testo manzoniano (si veda anche il capitolo III, X).
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Il condizionale semplice, nato dalla fusione del verbo all'infinito con le forme coniugate dell'ausiliare avere, cantare habet > cantar ha > canterà (futuro) cantare habuit > cantar ebbe > canterebbe (condizionale), fa la sua comparsa come futuro in relazione al passato nel '200. Il condizionale passato invece, di cui si trovano le prime tracce nel '300, entra in auge nel '400 fino ad affermarsi, a scapito del condizionale semplice, nel '500 (Bandello, Caro, Vasari). Se nei Promessi Sposi prevale il condizionale semplice alla forma passata, perché allora nel' 600 il processo di sostituzione del condizionale semplice con quello composto raggiunge i suoi massi livelli?
Le ragioni vanno ricercate da una parte nella dominazione spagnola ai danni dei Lombardi avvenuta nel 1630, dall'altra nella scelta di Manzoni di ambientare il romanzo nel Seicento.  A partire dal 1498 lo stato di Milano fu conteso dal regno di Francia e da quello di Spagna fino al 1525, anno in cui gli Asburgo ottennero l'importante vittoria nella battaglia di Pavia che sancì il predominio spagnolo sul ducato Lombardo. Il dominio asburgico lasciò un’impronta indelebile non solo nella politica e nell'economia, ma anche nella lingua. I governatori di Milano amarono circondarsi di una corte di spagnoli e finirono per usare lo spagnolo in tutte le sfere pubbliche (il cancelliere Ferrer dei Promessi Sposi parla in buona parte spagnolo «por mi vida’ que de gente, Animo; estamos ya quasi fuera», riproducendo assai fedelmente la realtà storica). Il Manzoni, infatti, mira a rappresentare la verità della realtà umana cercando di descrivere i fatti in maniera dettagliata ed esaustiva. L'influenza dello spagnolo non è limitata solo al ducato di Milano, ma si estende grazie ad alcuni matrimoni di interesse tra la nobiltà aragonese e quella italiana in tutta Italia (Napoli, Ferrara, Mantova…). La “contaminazione” linguistica, resa evidente dall'ampio uso di alcuni spagnolismi, si può apprezzare anche nella scelta del Manzoni di utilizzare il condizionale presente al posto della forma composta. Nella lingua spagnola di fronte a una frase del tipo «Finalmente richiese, impose come una condizione, che l'uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città» viene usato il condizionale semplice “se marcharìa” e non quello composto “se habrìa marchado”.
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Foto tratte da: 
Wikibooks

Bibliografia:
Manzoni, I promessi sposi, capitolo III ,X, XII.
Beccaria, Spagnolo e spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinque e del Seicento, Torino, Giappichelli.

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27/1/2018

Canti del Caos (2001)

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Di Lorenzo Vanni
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​La storia editoriale di Antonio Moresco è lunga e travagliata. Scrive continuamente numerose opere finché un giorno, negli anni ’90, non viene pubblicata il suo primo scritto, una raccolta di racconti intitolata Clandestinità. Da allora la sua carriera sarà in costante ascesa e culminerà con il progetto di fare una letteratura totale attraverso una serie di tre romanzi che messi insieme dovranno fornire le coordinate orientative della letteratura del XXI secolo. Un’ambizione che può rivelarsi distruttiva se lo scrittore non è in grado di destreggiarsi all’interno della materia narrativa e, in un caso simile, sbagliare è facilissimo. Intendiamoci, non che Moresco non sia pienamente consapevole del rischio nel tentare un’impresa simile; sa anche che quella che all’esterno può apparire incoscienza potrebbe facilmente fornire materia per fare dell’ironia e quindi corre ai ripari.
Quando esce il primo volume dei Canti del Caos nel 2001, pubblicato da Feltrinelli, l’approccio che adotta Moresco è quello di chi sa di voler tentare un’impresa impossibile e proprio per questo si schermisce: sfrutta l’ironia sbeffeggiando il proprio stesso tentativo di voler scrivere un capolavoro, esattamente quel che farebbe un autore postmoderno; solo per poi negare il valore della letteratura come strumento totale di analisi della realtà. Moresco decide di fare qualcosa di diverso: questo primo volume della sua trilogia è una centrifuga dei generi letterari in voga, uniti e fatti esplodere attraverso il ricorso al tono grottesco e ridicolizzando la letteratura che affolla le classifiche di vendita. 
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Il suo bersaglio preferito sono gli scrittori da certa critica definiti intellettuali che affermano, come tutti, di avere una musa ispiratrice al proprio fianco e di essere da lei guidati. La Musa assume fattezze umane nella critica di Moresco che la vede come una prostituta, quasi pornostar, a cui si rivolgono gli scrittori mediocri o in crisi per riuscire a risollevarsi dopo essere stati a letto con lei.
Ma c’è dell’altro. C’è l’intrecciarsi apparentemente indissolubile tra realtà e finzione: il romanzo di cui si legge è il capolavoro che l’io narrante (che si sospetta coincidente con lo stesso Moresco, in piena auto-fiction) elabora insieme al suo editore, il Gatto, e allo stesso tempo coincide con i fatti veri, ossia il rapimento della Meringa, la segretaria del Gatto, da parte di alcuni criminali che promettono di liberarla solo a patto che l’autore riesca a scrivere il suo capolavoro.
Ogni personaggio coinvolto all’interno del rapimento racconta la propria parte di storia, contribuendo alla scrittura di questo romanzo inedito, che si fa coincidere con quello che ci ritroviamo tra le mani. All’interno di questa trama, che in realtà è un puro pretesto, si sentono le voci di personaggi minori a cui sono dedicate parti definite Canti, appunto, e costituiscono la materia principale di quello che sarebbe un progetto di romanzo con una trama esplosa in frammenti tutti da ricostruire. Alcune parti, pornografiche e grottesche insieme, sembreranno gratuite, altre semplicemente comiche. L’ideale sarebbe di leggere i tre romanzi uno di seguito all’altro. L’impressione finale è di trovarsi davanti a un’opera che per dimensioni, ambizione e densità può benissimo stare alla pari di tanti altri capolavori riconosciuti del passato. È anche la conferma di due dati che ormai possiamo considerare ovvi: 1) Antonio Moresco non è uno scrittore di massa 2) Antonio Moresco è, insieme al solo Walter Siti, un vero e proprio gigante della letteratura italiana di questo secolo.    
 
Foto tratte da:
http://www.criticaletteraria.org/2016/03/Antonio-Moresco-intervista.html
http://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/canti-del-caos

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20/1/2018

Un delitto a Bocca d’Arno per il commissario Palmas

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di Eva Dei 
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​Niente vacanze per il commissario Palmas è uno dei titoli di punta nella collana gialli di Istos Edizioni. Ornella Spada e Silvia Rigutini hanno confezionato un giallo in stile classico: il ritrovamento di un cadavere, un commissario a capo dell’indagine, una serie di sospetti e di lati nascosti nella vita della vittima, la scoperta del colpevole e lo scioglimento della vicenda. Se questi sono gli elementi di base su cui si costruisce un classico giallo inglese, alla Agatha Christie per intenderci, cosa c’è di nuovo e particolare nelle vicende di Lorenzo Palmas?
Prima di tutto, sebbene il cognome del nostro protagonista non possa non farci venire in mente la Sardegna, la vicenda si svolge interamente nella zona di Pisa. Per chiunque conosca un minimo la città della Torre, leggendo questo libro vi sembrerà di accompagnare letteralmente Palmas per le strade pisane: dal Ponte di Mezzo fino a Piazza S. Caterina, per un caffè al bar Salvini alle Piagge fino all’alberato viale D’Annunzio che vi condurrà fino a Marina di Pisa. La città è presente lungo tutta la narrazione, non solo sfondo, ma quasi attore nella vicenda. Proprio a Marina, lì dove il fiume si immette nel mare, a Bocca D’Arno, viene ritrovato un corpo senza vita. “Impigliato, come un pesce nella rete di un pescatore”, così in mezzo a muggini e altri pesci, il cadavere di una donna compare una mattina d’estate a sconvolgere la tranquillità della cittadina di mare. Palmas sarà costretto a rinviare le sue ferie estive e a rivolgere tutta la sua attenzione a questo caso: a chi appartiene il corpo? Come è morta? Ma soprattutto: chi l’ha uccisa?
Questo l’inizio del libro; non vogliamo svelarvi molto altro per non farvi perdere il gusto della lettura, ma sicuramente possiamo dirvi che un altro elemento che collabora a tenere sempre viva la lettura è l’aspetto polifonico del testo. I 48 capitoli non ci riportano solo i pensieri e le parole di Palmas, ma si salta da un punto di vista all’altro, dai colleghi del commissario agli altri numerosi protagonisti della vicenda, come se le autrici ci dessero via via un pezzo di un puzzle da completare. E proprio a loro, Silvia Rigutini e Ornella Spada, abbiamo avuto la possibilità di rivolgere alcune domande:
 
So che siete entrambe insegnanti. Da dove nasce l'idea di scrivere un libro a quattro mani? Quali sfide e difficoltà avete incontrato durante la stesura?
Tutte e due abbiamo avuto sempre una passione per la scrittura ed essendo amiche da molto tempo spesso ci siamo scambiate i nostri lavori, fino al giorno in cui Ornella mi ha fatto leggere alcuni appunti relativi all'dea di ambientare un racconto a bocca d'Arno.  Io mi sono appassionata e così ho cominciato ad immaginare la storia ed è stato naturale proseguire insieme. Durante una vacanza, avendo parecchio tempo libero a disposizione, abbiamo messo a punto la trama e i personaggi principali, poi è stato facile andare avanti, arricchendo con spunti personali le vicende. Non è stato difficile, anzi si può dire che ci siamo proprio divertite a intrecciare le storie: naturalmente ognuna ha avuto i "suoi” personaggi. Nel complesso non abbiamo avuto difficoltà a procedere a quattro mani e amalgamare il tutto.
 
Avete scelto il giallo. Come mai proprio questo genere? Avete avuto dei punti riferimento ai quali vi siete ispirate? Io leggendo il titolo del libro ho pensato immediatamente a Colin Dexter, ma non so se mi sbaglio...
Fra i vari generi letterari, ultimamente ci siamo appassionate al giallo e spesso ci ritroviamo a confrontarci sui nostri autori preferiti che sono dopo Simenon, soprattutto Vichi e De Giovanni, due autori ai quali ci sentiamo molto vicine, di cui apprezziamo moltissimo la scrittura e la caratterizzazione dei personaggi. Di conseguenza la nostra è stata una scelta naturale, anzi quasi obbligata soprattutto se pensiamo che tutto comincia a Bocca d’Arno (un luogo secondo noi molto suggestivo per ambientare vicende di vario tipo, tra cui crimini inquietanti che purtroppo sono avvenuti non solo nella fantasia). E poi volevamo ricordare una Bocca d’Arno come è stata fino a qualche anno fa, con la stessa emozione che ha fatto scrivere a D'annunzio i versi che abbiamo citato in apertura del romanzo. Quel che ci interessava maggiormente non era tanto scrivere un giallo basato sulla suspense, ma un romanzo in cui si muovono dei personaggi le cui storie sono tenute insieme da un’inchiesta.
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Una delle caratteristiche che ho più apprezzato, essendo anche io ormai pisana d'adozione, è la ricostruzione dell'ambientazione cittadina. Leggendo il libro mi sembrava di accompagnare Palmas per le strade della città. Scegliere Pisa e renderla protagonista del vostro libro è stata una scelta naturale?
Entrambe abitiamo a Pisa da molti anni precisamente dagli anni ‘70. Si può dire che la conosciamo bene e ne abbiamo seguito le vicende sia in veste di studentesse che di insegnanti e di donne, per questo è stato facile ritrarne i luoghi e le caratteristiche. Inoltre essendo originarie una di Roma e l’altra della Sardegna dovevamo trovare un luogo che ci accomunasse…E Pisa in qualche modo con le sue molteplici sfaccettature fa un po’ da collante, contribuendo a rendere i personaggi del romanzo verosimili e ben radicati nella realtà della città, o almeno questo era l’intento.
 
Quale è stata la risposta che avete avuto da parte dei vostri lettori? Oggi il genere giallo è molto apprezzato e letto, ma sempre più spesso i lettori sono attenti e critici verso la verosimiglianza dei fatti e la correttezza giudiziaria delle azioni dei commissari o poliziotti protagonisti dei romanzi.
In realtà quel che maggiormente ci interessava non era tanto scrivere un giallo basato esclusivamente sulla suspense o sull’aspetto giudiziario, ma un romanzo in cui le storie dei personaggi avessero una vita autonoma al di là dell’inchiesta. A questo proposito riportiamo le parole di un nostro lettore: "Più di un giallo, una storia di grandissima vivacità… Emozioni, pensieri, curiosità, dubbi, familiarità e sorpresa allo stesso tempo".
Sono in tanti a dirci che il nostro romanzo è gradevole che si legge tutto d’un fiato, anche se non si vorrebbe vederne mai la fine; un altro aspetto che è stato molto apprezzato è la caratterizzazione dei personaggi in cui è facile identificarsi, l’intreccio e anche la delicatezza con cui sono trattati alcuni temi.
 
A questo proposito devo ammettere di avere anche io un dubbio; mi riferisco alla "difficoltà di comunicazione" tra Pisa e la Grecia. Secondo voi è così credibile, al giorno d'oggi, dove siamo tutti interconnessi, che Irene e Lucia riescano a restare per tutta la vacanza completamente scollegate con gli eventi che accadono a Pisa?
Intanto chiariamo subito che il romanzo in realtà è ambientato intorno al 2003/2004 e come ben sai in quegli anni le comunicazioni con l’estero non erano poi così scontate. Per esperienza personale, quando siamo state in vacanza a Creta (come le amiche Irene e Lucia nel romanzo), proprio in quegli anni, spesso abbiamo avuto delle difficoltà a ricaricare il telefonino, ad avere campo e quindi a comunicare con parenti e amici, abbastanza preoccupati del nostro silenzio! Come vedi… 
 
Il libro si conclude con la soluzione del delitto a Bocca D'Arno. Sentiremo ancora parlare del commissario Palmas?
Ovviamente! Palmas ci ha preso per mano e dopo una breve vacanza in Sardegna ci ha condotto in un grigio e uggioso novembre nei dintorni di Pisa... E noi ci siamo fatte trascinare, affascinate, dove vuole lui! Cosicché stiamo scrivendo il seguito, o meglio un’altra avventura che vede il commissario Palmas e la sua squadra impegnati a risolvere un nuovo caso.
 
Foto tratte da:
http://www.istosedizioni.com/?product=niente-vacanze-per-il-commissario-palmas
I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure
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20/1/2018

Un labirinto di Piacere- Recensione di un grande thriller

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di ​Alberto di Pede
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È stato il mio regalo di Natale da parte di mio suocero, uomo colto e appassionato lettore.
Sinceramente non sono mai riuscito a capire come faccia a scegliere libri che mi appassionano ingoiandomi in un sol boccone, ma questa volta è persino riuscito ad andare oltre, donandomi "L'uomo del labirinto", ultima fatica dello scrittore Donato Carrisi.
È difficile recensirlo, perché è un unicum in positivo.
Lo stile letterario è semplice e raffinato, non inutilmente altisonante, eppure ricco di particolari descrittivi.
L'autore dimostra un'assoluta padronanza della materia, descrivendo in più occasioni singole situazioni attinenti alle realtà oggettive trattate con perizia e attenzione ai dettagli.
Ne è un esempio lampante la scena in cui, durante un appostamento del protagonista Genko, sfata il mito del poliziotto che beve molto caffè per rimanere sveglio, spiegando che la caffeina - essendo uno stimolante della diuresi - costringerebbe il povero detective a continue "fughe forzate" che potrebbero mettere a rischio l'occultamento della sua postazione, vanificando di fatto tutto il lavoro.
Ma vi sono molti altri esempi che non sto qui a citare e che rendono il libro piacevolmente realistico.
Eppure, la trama oltrepassa in più occasioni il sottile confine immaginario dello squisitamente concreto.
E forse la bellezza del romanzo sta proprio in questo, nella genialità del saper correre tra il reale e il surreale.
Solitamente, quando scrivo, immagino di prendere per mano una persona sussurrandogli: "Vieni, seguimi, ti porto via con me. Ti farò vivere un'avventura che non avresti mai immaginato."
Carrisi riesce proprio a fare questo.
La vita nel labirinto, le sensazioni della protagonista, le sue ansie, le sue angosce, le torture subite, il grottesco mascheramento scelto dal criminale, la sua storia, il male che avanza, sono tutti ingredienti sapientemente mischiati in un crescendo di tensione che trascina il lettore fin nei meandri della storia, ai margini delle pagine.
Il conflitto dei personaggi che, in un carosello di rivalse personali, sembra così ben marcato, viene sapientemente gestito dall'autore che crea gustosi colpi di scena alieni perfino alle più allenate menti del genere letterario.
É il classico libro che si fa attendere, quello che, non appena entri in camera, seduce il tuo sguardo e attrae ogni tuo senso.
Ti avvolge in spire che si stringono intorno alla tua mente e non allenta la presa neppure per un attimo, finché non hai raggiunto il punto in cui lui stesso decide che quello è il momento in cui puoi interrompere la lettura.
D'altra parte l'autore non è un novellino e sa bene come usare le proprie armi.
Ed è così che ti porta a pensare "...ho capito..." per poi, solo poche pagine dopo, presentarti il conto e dimostrarti quanto tu sia fuori strada.
Il duello detective-delinquente? Roba da bambini!
C'è un altro personaggio in azione? Guarda meglio.
Le sfumature sono il segreto di questo romanzo...
E, se credi di aver intuito come andrà a finire a poche pagine dall'epilogo, beh, torna con i piedi per terra ragazzo, perché dovrai leggere fino all'ultima riga.
Complimenti, Donato, un gran bel libro!

Immagine tratta da:
 
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13/1/2018

La natura della grazia: prima traduzione italiana per William Kent Krueger

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di Eva Dei
Neri Pozza ha recentemente portato sugli scaffali delle librerie italiane un nuovo scrittore: William Kent Krueger. Nuovo per il belpaese, in realtà Krueger, classe 1950, è un affermato e pluripremiato scrittore americano. Ordinary grace, in italiano tradotto con La natura della grazia, è un suo romanzo del 2013, vincitore già nel 2014 dell’Edgar Award come miglior romanzo.
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In un breve prologo la voce narrante, Frank Drum, uomo sulla quarantina, si prepara a raccontarci l’estate che ha cambiato per sempre la sua vita. Minnesota, estate del 1961: ci troviamo a New Bremen e Frank, Frankie, ha tredici anni; è il figlio di Nathan, pastore metodista, e Ruth. Fanno parte della famiglia anche Ariel, sua sorella maggiore, considerata da tutta la famiglia una sorta di angelo, e Jack, più piccolo di qualche anno del nostro protagonista, suo inseparabile compagno e migliore amico. Quell’estate così torrida si apre con una disgrazia: Bobby Cole, coetaneo di Frank, muore in un incidente, travolto da un treno lungo la ferrovia che si trova nei pressi di New Bremen. Quella è solo la prima morte che quell’estate sconvolgerà la cittadina e i suoi abitanti.
“Quell’estate la morte venne a visitarci assumendo molte forme: incidente, malattia, suicidio, omicidio…Si può pensare che la ricordi come un’estate funesta, ed è proprio così, ma non del tutto. Mio padre citava Eschilo: colui che apprende deve soffrire, e persino nel sonno il dolore, che non può dimenticare, cade goccia a goccia sul cuore, finché nella nostra stessa disperazione, contro la nostra volontà giunge la saggezza attraverso la terribile grazia di Dio.”
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In definitiva l’estate del 1961 porterà Frank Drum a valicare quel confine che separa l’infanzia dal mondo degli adulti. Frank fronteggerà, in un lasso di tempo abbastanza breve, un’onda di emozioni mai provate: incertezza, dolore, dubbio, colpa, sofferenza, rancore. Sarà costretto più di una volta a guardare in faccia la morte e non solo quella che si poserà sul volto di uno sconosciuto, di un vagabondo, ma anche quella che gli porterà via qualcuno di molto caro. A causa di questo sarà inevitabilmente costretto a crescere, ma non sarà l’unico motivo. Frankie si troverà in più di un’occasione a muoversi e quindi a cercare di capire il complicato reticolo di relazioni e sentimenti che legano gli adulti: dall’infelicità e insoddisfazione della madre Ruth fino ai preconcetti e i pregiudizi della provincia americana, capace di additare chiunque sia diverso. Proprio Jack, il fratello minore e “diverso”, schernito perché balbuziente da adulti e bambini, si rivelerà però l’osservatore più attento e saggio, colui che aiuterà Frankie a capire molte dinamiche insite nell’animo umano.
Altro grande tema del romanzo è sicuramente la fede. Le atrocità della guerra e in particolare un certo episodio il cui ricordo aleggia per tutto il romanzo, ma che comunque non ci viene mai svelato, hanno segnato il futuro del padre di Frankie, Nathan, spingendolo verso Dio. Allo stesso modo gli eventi di dell’estate segneranno Frankie, tanto da indirizzare i suoi pensieri verso grandi interrogativi, quelle che potremmo definire delle vere e proprie domande esistenziali riguardo la natura dell’uomo, l’esistenza di Dio e il modo in cui questi opera nel nostro mondo.
La natura della grazia è un quello che potremmo definire un bel romanzo di formazione, ma forse ancora di più, di crescita. L’autore riporta i pensieri di tredicenne con una scrittura piana ma significativa in ogni sua frase, mentre le atmosfere ci ricordano un po’ sia lo Stephen King dei racconti raccolti nel volume Stagioni diverse, sia il famoso romanzo di Harper Lee Il buio oltre la siepe.
 
Foto tratte da:
https://www.ibs.it/natura-della-grazia-libro-generic-contributors/e/9788854515239
I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure
https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/
 
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13/1/2018

La Grande Cecità (2016)

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di Lorenzo Vanni
Di questi tempi, il clima è un tema al centro del dibattito pubblico. Si evidenzia spesso come nel corso degli anni ci sia stato un progressivo incremento nella quantità di emissioni, fenomeno legato allo sviluppo di un capitalismo globale di cui solo oggi possiamo valutare a pieno gli effetti. La politica sta prendendo provvedimenti al riguardo, trattando il problema come una vera e propria emergenza; dall’altro lato, però, quello della letteratura, tutto tace.
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Tutto, se escludiamo ovviamente il saggio pubblicato nel 2016 da Amitav Ghosh e uscito in Italia per i tipi di Neri Pozza l’anno successivo. L’autore indiano, che ha all’attivo molti romanzi tra cui la Trilogia della Ibis (2008-2015), affronta il tema del cambiamento climatico in un libro intitolato La Grande Cecità mettendo in luce le responsabilità che ha la letteratura di fronte a questo nuovo scenario. La sua riflessione consiste nel notare che il tema del clima viene respinto dal dibattito degli intellettuali, forse perché non ha abbastanza attrattiva ai loro occhi, con il risultato che una parte rilevante della società di oggi viene messa da parte.
Quel che nota Ghosh è che, con l’evoluzione del capitalismo e l’emergere di paesi che fino a poco tempo fa venivano considerati minori da un punto di vista economico (o non rilevanti per l’Occidente), si è verificato uno sconvolgimento nel clima tale da alterare l’equilibrio dell’ecosistema provocando così l’intensificarsi di fenomeni naturali come maremoti e uragani. È come se con il risveglio della Natura si sia presentato un nuovo personaggio sulla scena pubblica, con la caratteristica dell’ineffabilità.
Ghosh afferma che è proprio questo ruolo di protagonista rivestito dalla Natura, unito al mistero che avvolge la sua imprevedibilità, a mettere l’uomo di fronte all’apparente casualità delle disgrazie umane. Sapere che un qualunque fenomeno naturale può colpire in ogni momento senza preavviso espone l’uomo a una sfera di irrazionalità che pensava di aver tenuto sotto controllo per secoli a partire dall’Illuminismo. 
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Il romanzo, secondo l’autore, dovrebbe avere il coraggio di affrontare questa ineffabilità e cercare, se non di definirla, almeno rappresentarla con l’effetto di spostare il baricentro della narrazione dall’aspetto strettamente capitalistico a quello più umano in senso stretto. La tesi sostenuta dall’autore afferma che, nel corso delle sue narrazioni, lo scrittore occidentale ha sempre veicolato un’idea del mondo che in qualche modo ha sempre favorito il sistema economico capitalista, inserendo elementi all’interno delle opere che rimandano a quel tipo di economia e di relativo sistema culturale. Affrontare il tema del cambiamento climatico in questa prospettiva implica affrontare apertamente il tema dell’incomunicabilità dell’abisso in cui è precipitata ogni vita; implica anche mettere la vita umana tra parentesi e osservare il piano più grande.
Queste le linee principali del pensiero di Ghosh, considerato tra i maggiori scrittori indiani. È questo uno dei primi tentativi di sistematizzazione di una filosofia biologica che attualmente ha pochi seguaci; gli unici studiosi che sembrano interessarsene sono i sociologi (in minima parte) e i climatologi (ovviamente). Questa opera è fondamentale, un punto di partenza che non si potrà non prendere in considerazione per chi vorrà fare letteratura o filosofia nei prossimi anni.     
 
Immagini tratte da:
http://www.meteoweb.eu/2012/05/come-si-genera-uno-tsunami/136071/
https://www.ibs.it/grande-cecita-cambiamento-climatico-impensabile-libro-generic-contributors/e/9788854513372

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12/1/2018

La scomparsa del dono

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di Lorenzo Vannucci
Cosa spinge gli esseri umani a scambiarsi beni? Nella società primitiva un dono senza un controdono era inconcepibile, così come nella società contemporanea è difficile comprare qualcosa da qualcuno senza ottenere in cambio qualcosa. Due principi apparentemente antitetici, eppure legati da un sottile filo conduttore. In entrambi i casi, infatti, si rileverebbe immoralità. La logica del dono, nella società primitiva, non era legata a logiche di mercato, ma semplicemente a un dare, ricevere e ricambiare.
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Bronislaw Malinowski, un celebre antropologo polacco del XX secolo, racconta di essere stato colpito da un'antica usanza di un popolo dell'arcipelago delle Trobriand. Questi abitanti, infatti, sostenevano traversate oceaniche, rischiando la loro vita, pur di portare doni agli abitanti di isole lontane. Alla base di questo gesto apparentemente illogico c'erano i Kula, braccialetti che venivano regalati per la costruzione di legami sociali. Doni, sostiene l'antropologo Marcel Mauss, che sono spesso dotati di un hau, ossia di un'essenza spirituale che obbliga colui che ha ricevuto il dono a ricambiare (lo spirito della cosa donata vuole tornare da dove è partito). Alla base di questo semplice principio l'antropologo francese coglie l'essenza delle relazioni sociali; dare qualcosa a qualcuno significa non solo donare una parte della propria anima, ma obbliga al controdono, al principio della reciprocità. Nel dono non esiste la logica del valore, dell'equivalenza, ma solo la libertà nel compiere l'atto. Scrive Khalil Gibran a proposito del dono: «si dà poca cosa quando si dona ciò che si possiede. È quando si dona se stessi che si dona veramente. Infatti ciò che si possiede, è solo qualcosa che temiamo di perdere e dunque proteggiamo, temendone la mancanza. E tutto ciò che vogliamo accumulare e trattenere, comunque, un giorno sarà dato ad altri, e dunque è più saggio darlo subito, così che la stagione dei doni sia nostra e non dei nostri eredi ». Donare unisce, rinsalda le amicizie, crea legami, relazioni sociali che possono tradursi in scambi commerciali.
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Gli uomini, oggi, sembrano aver disappreso l’arte del dono. Quel principio arcaico basato sul dare, ricevere e ricambiare, praticato sin dall'antichissima Grecia (ne è un esempio lo scambio di doni tra Glauco e Diomede, guerrieri che militano in due schieramenti opposti che, prima di affrontarsi sul campo di battaglia, scoprono di essere legati da un vincolo di ospitalità, in quanto il padre di Diomede aveva ospitato un antenato di Glauco «Diomede sono per te in Argo ospite caro, tu in Licia, se mai io giunga tra quel popolo»), sembra improvvisamente cessato.
Spesso addirittura i bambini squadrano diffidenti il donatore. Si chiedono: “Cosa c'è alla base del dono? Devo ridare qualcosa, devo forse pagare una somma, o forse è un atto di spontaneità?”. La risposta a tale diffidenza sta in un cambio radicale della società negli ultimi anni. La società capitalista, con la sua mentalità utilitarista, ha soffocato il dono introducendo il concetto di equivalenza di valore. Se alla base del valore c'era lo hau, quell'antico legame nel dare all'altro una parte di sé con quell'inscindibile principio di reciprocità, oggi la logica del mercato pone un valore astratto, calcolabile in termini monetari, senza che vi sia un rapporto sociale tra le persone. L’età moderna è caratterizzata dall' homo oeconomicus, vale a dire che il legame sociale non è altro che il prodotto di rapporti contrattuali e di scelte razionali in cui ciascuno diviene il mezzo per il conseguimento dei fini di altri individui. L’utilitarismo, sostiene Henry Bataille, riduce l’esistenza umana alla logica quantitativa della produzione, acquisizione e consumo di beni causando un radicale impoverimento negli individui. 
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Nella società contemporanea il dono, tuttavia, sopravvive, anche se con una logica diversa da quella proposta da Mauss. I regali di Natale, ad esempio, è vero che sono prodotti della società capitalista, ma sono sottratti a quella logica del valore e dell'equivalenza che contrassegna il mondo contemporaneo. Quando andiamo a fare un regalo togliamo istintivamente il prezzo, come se inconsciamente il prodotto dovesse per qualche ragione essere privo di una logica commerciale. Lo stesso principio vale per la donazione e il volontariato. Indubbiamente le persone sono mosse da una logica di solidarietà e altruismo, ma il sangue donato è preso a carico da istituzioni sanitarie statali e da imprese private. I beni, di fatto, entrano in queste sfere come merci, in una logica, ancora una volta, dove emerge il concetto di valore.

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6/1/2018

L'origine del nulla

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Tentativo di recensione di un romanzo senza peso.
di Alberto di Pede
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​Ogniqualvolta leggo un libro e scatta quella magia che mi impedisce di distaccarmi dalle pagine, costringendomi a proseguire, a bere le parole, perché la sete non si placa mai, o quando gli impegni quotidiani mi costringono a separarmi da quell'oggetto magnetico e fremo nell'attesa di poter tornare a casa per riaprirlo e proseguirne la lettura, scoprendo così cosa si celi nelle pagine seguenti, ecco, in questi casi capisco di essermi imbattuto in un grande autore.
"Un bel libro è quello da cui non riesci a staccarti!" mi disse una volta uno scrittore che non è più tra noi.
E devo ammettere che, da scrittore, un po' di invidia l'ho sempre provata, perché questo è proprio il genere di risultato che ognuno di noi vorrebbe raggiungere: catturare a tal punto il lettore da non fargli mai alzare gli occhi, farlo diventare spettatore attivo della storia, quasi fosse un personaggio non pensato che si muove all'interno di essa.
Da fanatico divoratore di libri ho letto molto, anche "romanzi"' certamente non definibili tali, quelli che la gente comunemente definisce "libercoli".
Ma, a mio parere, chiunque può insegnarci qualcosa, anche il peggiore nel proprio campo.
Non ho mai considerato Dan Brown un grande scrittore, ma sarebbe iniquo giudicare Il Codice Da Vinci come mal scritto o poco coinvolgente ed è innegabile che in quel lavoro Brown abbia dato tutto sé stesso.
Sospendo il mio giudizio su Angeli e demoni, peraltro non oggetto di discussione in questo momento, ma mi soffermo su Origin, suo ultimo lavoro.
​Lavoro?!
Fin dalle prime pagine si ha netta la percezione che a scrivere non sia lui, ma un esercito di ghost writers ai quali siano stati affidati specifici capitoli, più simili a "pensierini" di alunni poco dotati, incollati tra di loro ed editati con un controllo superficiale, tanto da costringere il lettore a tornare indietro per riallacciare le fila in più occasioni.
Si notano chiare differenze di "stile" e ripetizioni continue che, oltre ad essere fastidiose, interrompono il ritmo, invitando il lettore a porsi più volte la fatidica domanda: "Forse avrei fatto meglio a non comprarlo?"
I tecnicismi sono del tutto assenti e non si è assolutamente tenuto conto né del fatto che il libro possa essere letto da addetti ai lavori, né della cultura media delle persone, né dell'esistenza della rete che concede controlli e verifiche.
L'autore cade inoltre spesso in contraddizioni a dir poco ridicole descrivendo, ad esempio, in modo minuzioso il modello dell'aereo con il quale l'ormai stantio prof. Langdon e la futura regina di Spagna Ambra Vidal tentano la fuga e, contemporaneamente, facendo sfondare allo stesso una rete, per poi fargli effettuare una retromarcia e farlo decollare tranquillamente.
Il tutto all'interno di un aeroporto gestito da una torre di controllo con la quale i piloti dialogano in modo a dir poco infantile.
Scene alla 007 abbastanza improbabili che sviliscono la trama, rendendola simile ad un action movie da pochi soldi che denotano il menefreghismo dell'autore nel voler approfondire gli aspetti più realistici del testo, menefreghismo che si riscontra anche in altre situazioni "estreme".
Ed è solo un esempio.
Uno scrittore che liberi la propria fantasia - ed ha tutto il diritto di farlo - non può e non deve mai perdere di vista la realtà delle cose, neppure se scrive di fantascienza, pena la mancanza di rispetto verso i propri lettori.
Proprio per questo si fa una fatica immensa a leggere più di due o tre pagine alla volta e non vi è alcun desiderio di riprendere in mano il libro per proseguire.
Il continuo girare intorno ad un mistero che viene forzatamente acuito, il perpetrasi di azioni quasi inumane, il costante contatto con un'intelligenza artificiale talmente progredita da poter comprendere l'animo umano, alienano il lettore, quasi si trattasse di impalpabile polvere cosmica.
La descrizione dei luoghi, infine, sembra estrapolata da wikipedia, con l'aggiunta di qualche nota di colore.
L'unico stimolo che si ha è quello di voler terminare quanto prima per conoscere il deludente, quanto improbabile finale, il che dimostra quanto l'autore abbia non scritto un libro, ma portato avanti un progetto editoriale al solo scopo di vendere il maggior numero di copie possibili.

Immagini tratte da www.ibs.it


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6/1/2018

Livelli di vita (2013)

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Di Lorenzo Vanni
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Julian Barnes è uno degli scrittori inglesi più importanti di oggi, ma il suo nome era sconosciuto ai più fino a pochi anni fa. È stato nel 2012 che il suo romanzo Il Senso di una Fine venne premiato al Man Booker Prize e questo portò la casa editrice che aveva pubblicato il suo romanzo in Italia, ossia Einaudi, a ripubblicare in edizione economica le opere precedenti dell’autore inglese, operazione che prosegue tutt’ora. Parallelamente Einaudi pubblica anche i nuovi romanzi che Barnes scrive frequentemente e di cui l’ultimo è Il Rumore del Tempo basato sulla biografia del compositore sovietico Shostakovich; il romanzo che consigliamo è quello immediatamente precedente, Livelli di Vita del 2013. 
In realtà questo suo libro non è un romanzo in senso stretto, ma piuttosto si può dire composto di due racconti più una parte di memoir. Il libro infatti è stato scritto come parte dell’elaborazione del lutto legato alla scomparsa della moglie di Barnes, la Pat a cui Barnes nel corso della sua carriera ha sempre dedicato i propri libri. Dopo essere stata uccisa da un tumore, Barnes scrive questa opera molto breve, ma che condensa in poche pagine il senso della perdita e la transitorietà della vita. 
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Le prime due parti sono legate dalla fotografia e dal cinema. Sono segnate anche dal volo con i palloni aerostatici che rappresentano in termini metaforici l’impegno di due persone nel compiere un’impresa che agli altri appare folle per poi scoprire che, come dice Barnes, unendo due cose che non sono mai state insieme il mondo cambia. Racconta la storia di Fred Burnaby, esploratore in giro per il mondo, e Sarah Bernhardt, attrice di teatro allora molto popolare e di come i due possano essersi innamorati. È qui che l’immaginazione dello scrittore interviene e ci fa sapere che cosa provavano i due, pur così diversi.
A questi due elementi si aggiunge ovviamente la fotografia. La fotografia cristallizza un momento nel tempo e, per quel breve momento conservato in eterno, anche il suo soggetto diventa immortale. L’arte teatrale e la fotografia si uniscono riflettendo sul tempo che passa e che però è in grado di annullarsi; Sarah, che riesce a essere veramente se stessa solo su un palco imitando vite diverse, mentre altrove è stretta nel suo ruolo di celebrità ante litteram, Fred, che nel suo girare il mondo troverà finalmente un punto fermo con Sarah, e Nadar, che è in grado di fermare la vita nel suo momento di massimo fulgore e proprio per questo renderla eterna. Come l’artista, appunto.
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Segue poi un’ultima parte di meditazione sul significato del lutto che risulterà immediatamente condivisibile da parte di chi ha affrontato un’esperienza simile e, leggendo dei ricordi di una vita passata insieme a Pat (circa trent’anni), ritroverà molti sentimenti legati alla perdita. Questo è forse il romanzo meno cerebrale e più veramente sentito di Barnes, e per questo a molti potrà piacere; la sua vera cifra è però altrove, quindi questo può essere un buon punto di partenza per conoscere l’autore e poi proseguire, a ritroso. 
 
Foto tratte da:
http://m.dagospia.com/vita-opere-e-boheme-del-grande-nadar-fotografo-che-immortalo-baudelaire-e-invento-le-foto-aeree-153004
https://it.wikipedia.org/wiki/Sarah_Bernhardt
http://www.meloleggo.it/recensione-livelli-di-vita-di-julian-barnes_737/
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