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19/1/2019

Un milione di preoccupazioni (in meno o in più)

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L’intramontabile Mark Twain e il valore del denaro

Cristiana Ceccarelli

Samuel Langhorne Clemens, famoso in tutto il mondo con il “nom de plume” Mark Twain, è considerato il padre, nonché primo scrittore, della narrativa moderna americana, e raggiunse la popolarità con il romanzo “Le avventure di Huckleberry Finn” del 1885.
Lo stesso Hemingway, altro scrittore degno di nota, disse di lui: “Tutta la letteratura americana moderna deriva da un libro di Mark Twain che si chiama Huckleberry Finn. E’ il migliore libro che possediamo. Tutta la narrativa americana viene di qui. Non c’era niente prima. E non c’è stato niente di altrettanto buono, dopo.”
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​A distinguere lo scrittore del Missouri è stato il suo umorismo, che rende i suoi scritti accessibili e vicini a coloro per cui sono pensati, ovvero tutti.
Twain non è semplicemente uno scrittore che si limita ad osservare placidamente ciò che lo circonda, al contrario vi interagisce. Da apprendista tipografo a giornalista, da pilota sul Mississippi all’arruolamento come sottotenente nell’esercito del Sud durante la guerra civile, da ricercatore d’oro a instancabile viaggiatore, tutte queste esperienze lo portarono ad immergersi in realtà che sarebbero poi diventate basi per molti suoi romanzi e racconti.

L’apparente semplicità della rielaborazione della realtà veicola però bisogni e spunti di riflessione su temi tuttora contemporanei; tra questi il denaro, che con il suo valore simbolico è protagonista del racconto “Il biglietto da un milione di sterline” pubblicato nel 1879.
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​Il racconto è un connubio tra la situazione paradossale che si presenta al protagonista, un impiegato d’ufficio di San Francisco, e le veridicità delle implicazioni che questa storia comporta; e la prima persona con cui è raccontato non fa che esaltarne l’immediatezza narrativa.

Un incidente durante la solita escursione in battello a vela del giorno libero, e il salvataggio di un brigantino diretto a Londra è l’inizio di una situazione che in un climax di ascendente paradossalità, ci porta, in compagnia del non tanto poi sfortunato impiegato, nella capitale inglese.
Senza niente di più che un dollaro in tasca, il povero protagonista si ritrova persino a bramare una pera caduta in una pozzanghera, fino a quando, con la mente annebbiata dalla mordace fame, non viene convocato da due gentiluomini che lo hanno scelto come espediente esecutorio di una scommessa a lui sconosciuta.
Oggetto della scommessa: un assegno da un milione di dollari e la sua sopravvivenza.

Ecco allora che lo squattrinato impiegato riesce a diventare in un mese l’uomo più famoso dell’intera città, non per l’utilizzo di quel denaro, che non è spendibile, ma solo per il fatto di possederlo; in questo caso infatti, i soldi hanno valore solo dell’effetto che producono negli altri, nelle conseguenze sociali: dalla deferenza al credito.

Qual è allora il potere dei soldi, quali sono le conseguenze?
Sono i soldi a decidere la direzione della nostra attenzione, e non solo in termini di acquisto. Coloro che non possono dirsi ricchi, avranno come principale occupazione mentale la mancanza del denaro, non potendo così coltivare nessun’altra passione che esuli dal guadagno di quest’ultimo. Coloro che invece vivono in un’agiata consapevolezza di stabilità economica, si perdono nelle possibilità della vita; leggeri le provano per rimanere o passare oltre, un lusso che in molti non si possono concedere. E’ esemplificativo il passaggio del protagonista: la pera e il digiuno cedono il posto ai pensieri d’amore destati da una giovane e attraente donna e a congetture sul futuro.

Ma tutto è condizionato dai soldi, anche la nostra interiorità, e spesso, purtroppo, non ci accorgiamo di quanto questo affetti e infetti non solo ciò che possiamo comprare ma soprattutto ciò che siamo.
Perché ciò che compriamo rispecchia non solo le nostre accessibilità ma anche le nostre predilezioni, i nostri interessi, e quando questi sono negati dal monopolio del soldo, si ripercuote su ciò che non possiamo diventare. Il solo fatto di possederli, ci apre, negli altri e nel mondo, uno spazio che solo il denaro può riempire: quello della possibilità.
Per quanto il suo valore sia un mero costrutto mentale, come i soldi un’invenzione umana, non manca di infondere nell’individuo possidente la convinzione di vedersi le possibilità del mondo sempre aperte e le godurie di passioni coltivate mai precluse.

Come fa chi deve preoccuparsi del denaro, a pensare a qualcosa che non sia quest’ultimo? Come non pensarci, in ogni occasione, se tutto ciò che di diverso c’è è inesorabilmente collegato ad esso?
Il denaro non è questione di felicità, ma di spensierata serenità e deviante leggerezza appunto; e Twain lo esplica egregiamente con questo racconto dal carattere parabolico, dalla morale velata della sua disincantata ironia; attraverso la spensierata condotta che il protagonista acquista: già, acquista con il denaro che ha in tasca e non può spendere.

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12/1/2019

Resoconto (2014)

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di Lorenzo Vanni
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La riflessione di questo decennio sulle forme del romanzo e sul rapporto tra realtà e finzione, attraversa molte opere letterarie di questi anni. Si tratta di una riflessione che nasce dalla volontà di ritornare in qualche modo ad una forma di reale che, si sa, non potrà più essere quella che conoscevamo in passato. Non che in questo secolo il rapporto con la verità si sia del tutto rinnovato; negli anni Duemila, infatti, sono state numerose le opere in ambito anglosassone che studiavano le possibili vie per tornare ad un Assoluto del Reale, pur sapendo che il percorso sarebbe stato in salita. All’inizio del secolo attuale si era infatti conclusa una stagione di negazione della realtà (in gradi diversi) sviluppatasi in tutta la seconda metà del Novecento, e gli strumenti di cui si disponeva, a inizio Duemila, erano quelli dell’epoca postmoderna, in cui ciò che contava non erano i fatti, ma i modi in cui questi potevano essere interpretati. La tendenza, quindi, era quella di tornare alla realtà cercando, per quanto possibile, di mettere in crisi una visione del mondo che era stata dominante per circa quarant’anni.
    Quel genere di ricerca ha segnato in modo ancora più netto il 2010: in questa fase il romanzo, lasciatosi alle spalle il postmodernismo, ha cominciato a riflettere sul proprio statuto, ricorrendo alla metaletteratura e ponendosi quesiti molto seri. Uno su tutti: come fare letteratura e tornare alla realtà dopo che l’esperienza postmoderna aveva dimostrato come la verità stessa potesse essere relativizzata? E come farlo in un’epoca in cui le fake news sono all’ordine del giorno e in cui il discorso politico/filosofico si frammenta in una massa indistinta di commenti? Questi sono tutti segnali dello spostamento del postmodernismo dalla filosofia e dalla letteratura alla vita reale.
   Un romanzo come quello di Rachel Cusk, Resoconto (2014), diventa molto importante oggi in Italia perché propone esattamente questo tipo di riflessione. Il testo si compone di più voci, più personaggi parlano descrivendo la loro esperienza di vita che non ha nessuna pretesa di essere assoluta. L’effetto è quello di un lungo parlare che non dice niente, ma che nel farlo afferma qual è il ruolo della letteratura e la posizione che in essa occupa la verità: non esistendo più la Verità come assoluto, ciò che ci rimane sono tante verità relative che di per sé, prese singolarmente, non descrivono il mondo ma si limitano a mostrarcene una piccola parte. Ogni personaggio osserva la realtà dal proprio punto di vista e ne intuisce qualcosa di diverso; che cos’è quindi la verità secondo Rachel Cusk? L’autrice non sembra voler dare una soluzione a questo dilemma, ma piuttosto è come se ci volesse indicare che la realtà è un compromesso: ognuno fornisce la propria versione di una medesima realtà che esiste al di fuori di sé in termini oggettivi.
   Il riferimento letterario più esplicito è quello a Cime Tempestose (1847) di Emily Brontë, in cui la Cusk spiega quale sia il proprio rapporto con la realtà: Catherine e Heathcliff osservano da fuori una scena di vita familiare nell’abitazione dei Linton, e ognuno dei due la filtra attraverso sensibilità e umori diversi, dandone letture completamente diverse. È questa la teoria letteraria della Cusk: l’alternanza di voci rimanda a echi modernisti, a cui peraltro l’autrice non è estranea. Il suo modello più evidente è Virginia Woolf e il suo Le Onde (1931) in cui sei personaggi alternano di volta in volta i loro monologhi e la vicenda si svolge e si intuisce attraverso le loro parole.
   È interessante che questo espediente venga sfruttato in chiave postmodernista. Mentre l’intento della Woolf era più vicino al teatro sperimentale, che tuttavia si stava già avviando in direzioni che anticipavano quello che sarebbe stato chiamato postmodernismo, la prova della Cusk può essere letta come un tentativo di desacralizzare un testo che oggi ha la levatura di un classico, mostrando come il concetto di verità, ritenuto fisso nella storia della letteratura e appartenente a un passato cristallizzato, possa essere relativizzato e rimesso in discussione.
   Precedentemente avevamo suggerito che la soluzione alla rappresentazione della realtà in un contesto frammentario potesse essere un compromesso che tenesse conto delle interpretazioni dei soggetti coinvolti. Era chiaramente solo un’ipotesi, perché Rachel Cusk non offre soluzioni, ma sembra piuttosto constatare il fenomeno di relativizzazione dominante sopra descritto, e dopo essersi domandata che cosa sia la verità e aver elaborato teorie di spessore, risolvere tutto in un prosaico: “…ma poi della verità, chi se ne importa?”.
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Immagini tratte da:
https://www.newstatesman.com/culture/books/2016/10/stuck-formula-rachel-cusks-transit-hits-new-dead-end
https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-straniera/narrativa-di-lingua-inglese/resoconto-rachel-cusk-9788806236564/

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12/1/2019

La potenza della semplicità

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Jacques Prévert e un inno al rischio
di Cristiana Ceccarelli
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Jacques Prévert è stato un poeta e sceneggiatore francese del ‘900 e quello che lo caratterizza, nonostante l’avvicinamento dal 1925 al 1929 al Surrealismo, è la semplicità del registro linguistico.
Questa familiarità linguistica e tematica, non è che uno dei miglior metodi per spingere tutti a riflettere su questioni esistenziali comuni e sperimentabili; portando il lettore a incanalare le energie, non alla decrittazione di un ermetismo a volte deviante, ma alla quasi inconscia comprensione e analisi di situazioni e sentimenti, che dall’universale della loro portata accendono in ognuno di noi un dialogo particolare.
Questa combinazione di intenti è una peculiarità, quasi paradossale, della letteratura: essere contenitore di esistenzialismi e temi comuni ma declinati al caso singolo, che risultano nella loro totalità spunti per un lavoro personale.  
“Tanto peggio” è una poesia contenuta in Fatras, una raccolta pubblicata nel 1966 che contiene anche 57 collages, tecnica a cui il poeta francese si affiancò durante il suo ritorno a Parigi nel 1955.
I collages, con la riconoscibilità delle immagini, possono essere considerati – così come le parole che si uniscono in poesia- metafora dei pezzetti di esistenza che ci colpiscono in modo particolare e che per questo raccogliamo dalla memoria per salvarli dall’oblio, dalla tristezza che la vita sovente porta, per poi infine crearne una collezione a cui guardare per ricordare a noi stessi, non l’inesistenza delle difficoltà, ma la loro presenza che unita ad attimi di felice benessere riesce a rendere la vita degna di prova.
​E “Tanto peggio” di Jacques Prévert è un inno alle possibilità, allo scommettere se stessi contro l’avversario delle casualità e vicende della vita. Fate entrare la vita come viene, tenete la porta aperta agli imprevisti e lasciate che vi investano, per poi raccogliere il guanto, che magari servirà anche per lavar via il fango.
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​Le incertezze degli eventi, la loro imprevedibilità possono comportare la sconfitta ma chi non accetta la possibilità di sporcarsi non vedrà mai l’acqua pulita, il futuro in modo più chiaro; rimarrà sempre in un presente offuscato dal precario senso di presunta sicurezza, un presente senza cani, senza fango, senza possibilità da lavare e ricordare. Una vita a patto che non si sporchi non sarà stata vissuta veramente.

Per quanto quelli che non rischiano mai, inseguendo sempre le apparenti comode certezze, possano risultare perenni vincitori, stanno in realtà perdendo l’essenza della vita, stanno perdendo se stessi nella paura di sporcarsi; perché i vincitori sono coloro che sfidano la paura del diverso, la paura di fallire.
Il fango ci aiuta a realizzare l’importanza dello sperimentare, dell’aprirsi all’altro e al nuovo; a tenere, anche se con un po’ di paura, la porta aperta.
Il fango ci aiuta a comprendere la perseveranza, la concessione, a capire quanto siano importanti il perdono e l’indulgenza, verso gli altri e noi stessi, a quanto il riaccogliere ciò che resta serva ad andare avanti ammettendo che gli errori ci rendono umani e vivi; e infine ci aiuta ad apprezzare l’acqua pulita, la felicità che ripaga gli sforzi e i tentativi.

Gli errori si lavano via a patto che siano stati commessi e servono per costruire la combinazione di noi stessi; la vita è una bacheca di sbagli e di felicità colorita: è un collage.


  Immagini tratte da:
- Immagine 1 da
https://www.google.com/search?q=jacques+prevert&tbm=isch&source=lnt&tbs=isz:l&sa=X&ved=0ahUKEwiZzNz7qObfAhX4BGMBHfDtDJYQpwUIIA&biw=1366&bih=626&dpr=1#imgrc=ta1HjBH8KzvJ5M:
- Immagini 2-3-4 da foto dell'autore

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7/1/2019

Pierfrancesco Favino  ne “La notte poco prima delle foreste”

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Dopo la pausa natalizia, la Stagione del Teatro Era riprende in grande stile lunedì 7 gennaio alle 21 con la presenza dell'attore Pierfrancesco Favino diretto da Lorenzo Gioielli in La notte poco prima delle foreste. Il brano che ha conquistato Sanremo lo scorso anno era un estratto del testo di Bernard-Marie Koltès che l'attore romano porta in scena nella sua integrità ed estrema bellezza. È lo stesso Favino a spiegarne il fascino profondo: “Mi sono imbattuto in questo testo un giorno lontano, mi sono fermato ad ascoltarlo senza poter andar via e da quel momento vive con me ed io con lui. Mi appartiene, anche se ancora non so bene il perché. È uno straniero che parla in queste pagine. Non sono io, la sua vita non è la mia eppure mi perdo nelle sue parole e mi ci ritrovo come se lo fosse. Il suo racconto mi porta in strade che non ho camminato, in luoghi che non ho visitato. Come un prestigiatore fa comparire storie di donne, di angeli incontrati per caso, di violenze e di paura di ciò che non conosciamo. Forse è anche a questo che serve il Teatro e mi auguro di riuscire a portarvi dove lui porta me”.
​

Bernard-Marie Koltès, autore francese tra i più importanti del ventesimo secolo, scomparso a soli 40 anni, ha creato con questo testo un poema per voce sola sui problemi dell’identità, della moralità, dell’isolamento, dell’amore non facile. Poco prima del punto di non ritorno della nostra umanità. Essere stranieri. Abbordare un nuovo e giovane amico sotto la pioggia. Avere in cuore una ragazza notturna, un ectoplasma da lungofiume. Odiare gli specchi. Amare le puttane matte. Distinguere il ‘nervosismo’ dei macrò usciti dritti dritti dalle gonne di mamma. Farsi un’idea di qualcuno solo se te lo scopi. E però poi filarsela, senza discorsi. Denunciare la divisione in zone di lavoro settimanale, in zone per le moto, o per rimorchiare, o per le donne, o per gli uomini, o per i froci, e avvilirsi per zone della tristezza, della chiacchiera, dei venerdì sera. L’intelaiatura di quest’opera è un paradigma straordinario, un testo fluentissimo e irto nella sua prosa vertiginosa, aliena da punteggiatura ferma, tutta pervasa di anacoluti e biasimi come un romanzo-pamphlet di Céline. I temi assoluti di questo autore prematuramente scomparso a quarant’anni affiorano in una comunicazione per voce solista, un poema teatralissimo che sconta i problemi dell’identità, della moralità, dell’isolamento, dell’amore non facile.
​
  1. Biglietti: Intero € 20 - Ridotto € 18 - Studenti € 12.
  2. Per tutte le ulteriori informazioni 0587.55720, www.teatroera.it - www.teatrodellatoscana.it​

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5/1/2019

Proposte teatro:  "A testa in giù"

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di Matelda Giachi
Emilio Solfrizzi, Paola Minaccioni
di Florian Zeller
con Bruno Armando, Viviana Altieri
regia Gioele Dix
2 atti, 120 min

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Il Teatro della Pergola di Firenze ha pensato di chiudere l’anno vecchio ed entrare in quello nuovo nel migliore dei modi: con allegria.
In scena dal 27 dicembre al 2 gennaio A Testa in Giù, una commedia di Florian Zeller diretta da Gioele Dix, con protagonisti Emilio Solfrizzi e Paola Minaccioni.
La sceneggiatura è semplice: Daniel e Isabelle (Solfrizzi e Minaccioni) si trovano in una difficile posizione, nel bel mezzo della separazione della coppia di amici storici, quelli con cui hanno condiviso cene, vacanze e vita. Patrick (Bruno Armando) ha infatti lasciato la moglie e non vede l’ora di presentare a Daniel e Isabelle la nuova compagna, la ventottenne aspirante attrice Emma (Viviana Altieri), e la sua cosiddetta rinascita, con tutti i disagi e gli imbarazzi che ne conseguono.
La chiave comica della sceneggiatura sta nel fatto che ciascun personaggio rivolga al pubblico, e solo al pubblico, i propri pensieri ad alta voce, portando così sul palco la discrepanza tra realtà e immaginato, e tutti quei divertenti incidenti che da essa si generano.

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Uno spettacolo piacevole, una commedia brillante e ironica che desta grandi risate, tipico delle opere francesi, e che perde un po’ di smalto solo nel finale, in cui vengono riproposte cose ormai dette e ridette.
I quattro artisti in scena sono bravi interpreti, nonostante risalti su tutti la naturale vis comica di Emilio Solfrizzi, che spazia da una grande espressività vocale e facciale ad una rilevante presenza scenica. Una comicità semplice, dolce, quasi goffa che ormai conosciamo bene ma che difficilmente stanca poiché mai eccessiva o volgare.
 
Le prossime date dello spettacolo:
5 e 6 gennaio Figline Valdarno, Teatro Garibaldi
8 gennaio Recanati (MC), Teatro Giuseppe Persiani
11 gennaio Savigliano (PC), Teatro Milanollo
12 e 13 gennaio Novara, Teatro Coccia
16 gennaio Grottaglie (TA), Teatro Monticello
19 e 20 gennaio Altamura (BA), teatro Mercadante
22 gennaio Piombino, Teatro Metropolitan
dal 25 al 27 gennaio Lucca, Teatro del Giglio
30 gennaio Russi (RA), Teatro Comunale
Dal 31 gennaio al 3 febbraio Pesaro, Teatro Rossini
Dal 5 all’8 febbraio Verona, Teatro Nuovo
Immagini tratte da:
www.foggiareporter.it
www.controradio.it
www.lastampa.it

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4/1/2019

I 100 anni di Salinger

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Nasceva il 1° Gennaio del 1919 lo scrittore de “Il giovane Holden”

di Cristiana Ceccarelli ​
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Lo scrittore J.D. Salinger

​Cento anni fa, il 1° Gennaio 1919, nasceva a New York Jerome David Salinger e con lui, 32 anni dopo, un romanzo che lo avrebbe reso un famoso scrittore rivoluzionario in tutto il mondo: “Il giovane Holden” – “The catcher in the rye”. 
Il libro portò lo scrittore alla fama internazionale, aumentata dal mistero dalla sua scomparsa dalla scena pubblica all’apice del suo successo: dal 1951, infatti, J.D. Salinger si relegò in un paesino al confine con il Vermont.

Questo libro nasce dopo la seconda guerra mondiale, quando le atrocità cui forse Salinger fu costretto a partecipare come soldato, portarono contraddizioni talmente inspiegabili ma impellenti di uno sfogo da dare vita ad un adolescente simpaticamente saccente, sempre lo stesso ma diviso tra idee contrarie che si accavallano in minuti adiacenti, un paradosso continuo. Questo è Holden Caulfield, il ragazzo protagonista del romanzo.

Il libro è, nella sua ritmica cadenza, quasi ipnotica e punteggiata all’estremo, nervosamente coinvolgente.
La punteggiatura non lascia respirare, ma, al contrario, costringe a trattenere il fiato. Ed è così che il lettore si ritrova catapultato nella vita del sedicenne, seguendone le azioni ma soprattutto i pensieri nei due giorni che precedono il Natale; due giorni da girovago a New York, città che fa da cornice e trappola, senza poter tornare a casa per mantenere il segreto dell’espulsione dalla Pencey.

Il vero protagonista del romanzo, infatti, non è tanto il mondo esterno ma piuttosto l’incapacità del ragazzo, tra i subbugli di un’adolescenza che gli crea angoscia, di rapportarsi con esso, di disbrogliarne gli avvenimenti, di trovarne un senso.

Ciò che il giovane Holden dice è vero e crudo; agisce senza pensare, parla senza preamboli. A volte i suoi pensieri cozzano con le parole, le azioni e le credenze si sfaldano tra la lotta al conformismo ed il suo cedervi. Holden piace perché rispecchia tutti noi, incapaci di accordarci stabilmente col mondo e con noi stessi ed incapaci di trovare un’unica soluzione. E allora, come il giovane protagonista, diventiamo spietati e concilianti, rimanendo imprigionati nel conflitto tra queste mille sfaccettature, nell’insensatezza che avvolge la vita di ognuno. 

Holden è il contenitore adolescenziale di sentimenti universali che ci uniscono come esseri umani; e il suo successo risiede proprio nella capacità che lo scrittore ha avuto nel rendere questi sentimenti accessibili in modo semplice, quotidiano. Le condanne e le critiche al contesto sociale e politico americano dell’ante e del dopo guerra sono velate, nascoste dietro commenti di un adolescente arrabbiato per cose apparentemente piccole, che sono però metafore del mondo adulto, contemporaneo e non privo di incomprensibili avvenimenti di Salinger.  
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Copertina de “Il giovane Holden”
La copertina bianca, voluta dall’autore affinché il libro fosse scelto per il contenuto, è lo specchio del protagonista, che può essere considerato un foglio bianco, un incipit dato al lettore per traslare le proprie incertezze e arrabbiature, per riconoscersi o per decidere di rimanere in bilico come lui.
​
Ma tra contraddizioni e paradossi l’unica cosa che alla fine conta è la vecchia Phoebe, la sua sorellina, che rappresenta quella speranza inquieta che aiuta a non arrendersi del tutto, con l’auspicio che ogni persona possa trovare la propria.


  Immagini tratte da:

- Immagine 1 da
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