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30/1/2021

La spinta

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di Lorenzo Vanni
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Viene dal Canada la nuova sensazione letteraria che ha già conquistato gli editori di ben trentaquattro paesi: è Ashley Audrain, in passato addetta all’ufficio stampa della divisione canadese della Penguin Books, che esordisce con un romanzo intitolato La Spinta e pubblicato in Italia da Rizzoli. Il romanzo racconta di una maternità e di un rapporto madre-figlia che, lontano dallo stereotipo dell’allegra famiglia felice, dipinge un quadro complesso e a tratti inquietante definendo in modo inedito la figura della madre.
Blyhte è apparentemente una ragazza come tante altre e niente fa pensare che dentro di lei possa esserci un passato familiare traumatico. Quando avrà una figlia, Violet, il rapporto che avrà con lei sarà ambiguo: da un lato c’è l’insicurezza dell’essere madre e di prendere decisioni sbagliate ogni volta in cui deve occuparsi di lei, mentre dall’altro c’è l’ipotesi che la figlia non sia chi sembra a prima vista: non una piccola creatura innocente, ma una bambina consapevole delle debolezze degli altri che sfrutta a suo vantaggio senza preoccuparsi che questo provochi sofferenza in chi le sta intorno. Questo è evidente agli occhi di Blythe, senza però ignorare tuttavia che il suo giudizio sulla bambina può essere falsato dalla propria storia personale: una storia familiare in cui è implicato il suicidio della nonna e l’abbandono di Cecilia, la madre di Blythe.
È possibile per il lettore pensare che in realtà sia tutto frutto della mente della protagonista che osserva e vive le cose in modo distorto. Il punto di vista è quello di Blythe che racconta rivolgendosi a un tu che corrisponde al marito con tutte le sue aspettative sulla maternità derivate anch’esse dal rapporto che egli aveva avuto da piccolo con la propria madre. Così facendo è anche il lettore a sentirsi tirato in causa; quel you è inizialmente anche un dito puntato verso di noi che leggiamo e abbiamo aspettative su che cosa debba essere una madre e invitandoci a giudicare se noi, in quella situazione, saremmo stati ineccepibili come pretendiamo che le madri debbano essere.
Perché il centro di tutto il romanzo è che cosa significa essere madri quando una donna sente di non essere in possesso dell’istinto materno che si dice ogni donna possegga e si riveli al momento del parto. E in questo c’è una componente strettamente psicologica che emerge in modo netto nel testo; poi però c’è altro.
C’è che spesso si ha la sensazione che Violet in alcuni momenti corrisponda effettivamente all’immagine che si crea Blythe in testa. Blythe è un personaggio complesso perché pur essendo in ogni situazione una persona come le altre, esce destabilizzata dal confronto con le persone che le dovrebbero essere più care; ma soprattutto perde il proprio equilibrio, già precario a dire il vero, quando Violet spinge il passeggino del fratellino di pochi mesi in mezzo alla strada prima di venire investito da un’auto che passava in quel momento (questa è l’impressione che ha lei). Il resto del romanzo è un’elaborazione del lutto che mette in crisi definitivamente la famiglia di Blythe.
Il romanzo è quindi una costruzione che si muove tra il dramma familiare e il thriller psicologico, ma la caratteristica principale è che gli eventi che dovrebbero essere più destabilizzanti vengono presentati come esiti naturali dello svolgimento della storia. Quel che sappiamo solo dopo un buon numero di pagine è che l’io narrante non è mentalmente stabile, o almeno non lo sembra in modo palese, e quindi non abbiamo neanche la certezza che quanto raccontato corrisponda alla realtà. Questo dubbio rimarrà fino alla fine.
L’esordio di Ashley Audrain è stato pubblicato contemporaneamente in trentaquattro paesi e i diritti sono stati opzionati per lo schermo.
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​Immagini tratte da:

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https://www.libreriatasso.com/product-page/la-spinta-di-ashley-audrain

https://www.thestar.com/entertainment/books/2019/07/10/meet-ashley-audrain-the-toronto-author-who-has-the-publishing-world-buzzing.html

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23/1/2021

Ora e sempre ricordare la Shoah: Perché gli altri dimenticano di Bruno Piazza

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di Tommaso Dal Monte
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Mercoledì 27 gennaio si celebrerà la Giornata della Memoria, in ricordo dell’ormai settantaseiesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Tra le molte commemorazione di cui si costella il calendario, la Giornata della Memoria ha un particolare impatto emotivo: troppo grandi sono state le sofferenze subite da milioni di esseri umani, sconfinata la metodica precisione omicida perpetrata non da un gruppo criminale, ma da uno stato nazionale.
Probabilmente per elaborare l’evento, intorno alla Shoah è nata una letteratura memorialistica, romanzesca e storiografica che non ha eguali, a testimonianza di un massacro che rimane unico nella storia. Un motivo che accomuna tutti i testi sulla Shoah è il richiamo emozionale che suscitano nel lettore. Credo che la chiave per affrontare questo trauma non sia il tentativo di analisi razionale, ma proprio l’immersione emotiva nel dolore altrui, volta ad una compassione che si configura come un rispettoso esercizio morale. La conoscenza di cui anche Primo Levi parla ‒ «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario» ‒ è inclusa in questa operazione, giacché non si dà conoscenza, non questo tipo di conoscenza almeno, senza dolore.
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 Tra i tanti testi possibili, ho scelto di parlare di Perché gli altri dimenticano, il memoriale scritto da Bruno Piazza, ebreo triestino sopravvissuto ad Auschwitz, edito per la prima volta nel 1956. La testimonianza è stata scritta nei mesi immediatamente successivi alla liberazione dal campo di concentramento per non essere più riveduta e corretta, dato che Bruno Piazza è morto nel 1946.
Già il titolo indica le intenzioni dell’autore e chiarisce il senso, nonché la forma, dell’opera: chi scrive lo fa perché gli altri, cioè coloro che non hanno vissuto l’esperienza del lager, dimenticano o dimenticheranno. Il testo nasce per questa causa e, a sua volta, cerca di contrastarla: a fronte di un probabile oblio si redige un «documentario» ‒ come Piazza definisce l’opera ‒ affinché Auschwitz non venga dimenticato. L’autore non teme che si perda la memoria di sé in quanto vittima, ma l’esperienza coercitiva, vessatoria e in ultima analisi concreta della vita nel campo. Per questa ragione la narrazione non è incentrata sulla sua personale esperienza di deportato o sulle sue riflessioni, ma sui tanti dettagli oggettivi – organizzazione gerarchia e spaziale del lager, pasti, punizioni, organizzazione del lavoro… ‒ che scandivano la vita ad Auschwitz.
Coerentemente con la sua funzione, il documentario adotta uno stile prevalentemente impersonale, con un tasso di figuralità ridotto al minimo. È tuttavia notevole sottolineare, anche alla luce degli esiti in Primo Levi, come spesso venga evocato l’immaginario infernale dantesco per rendere pensabile la vita nel campo. Così la condizione delle latrine e degli addetti alla pulizie è paragonata a quella della bolgia dei lusingatori e adulatori, mentre l’oggetto dell’opera è così inverosimile che, quasi a scusarsi con il lettore e allo stesso tempo per rivendicare la necessità del suo parlare, Piazza prende in prestito i versi con cui Dante anticipa la presentazione del mostro Gerione («Sempre a quel ver che ha faccia di menzogna | de’ l’uomo chiuder le labbra quant’ei puote | però che senza colpa fa vergogna»).
Il testo scorre in maniera tristemente nota tra soprusi, punizioni arbitrarie, rituali di metodica ma incomprensibile precisione (le docce, l’appello), la salvezza guadagnata da Piazza, deportato quando aveva già quarantasei anni, per una serie di scelte fortuite e per il fatto di essere stato internato come prigioniero politico.  

 Un’analisi formale più approfondita di un testo documentario non avrebbe molto senso, anche perché il memoriale non nasce per un fine estetico, ma conoscitivo. Tuttavia due considerazioni sono doverose: studiare come funziona un testo è importante per capire l’intenzione del suo autore e porsi in modo costruttivo di fronte ad esso. Inoltre, anche se è problematico dirlo, le vittime non sono le migliori interpreti delle vicende che le hanno coinvolte. Ma se, come detto, riteniamo che l’approccio più appropriato alla Shoah sia quello emozionale più che quello estetico-razionale, ogni testimonianza ha un intrinseco valore basato sull’atto stesso del raccontare. In questo modo il genere letterario della memorialistica si trova nel particolare statuto del non poter produrre che opere letterarie di valore, o almeno che adempiono la propria funzione emozionale.

  Immagini tratte da:
-Immagine non coperta da copyright
-Immagine 2 da Amazon.it  

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16/1/2021

Iqbal Masih: venduto per sedici miseri dollari

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di Agnese Macchi
Che belli i tappeti del Pakistan! Colori, forme geometriche, motivi ripetuti, sono dei capolavori, davvero dei bellissimi pezzi d’arredamento. Nelle tessiture si cerca di rendere il prodotto di massima qualità: per intrecciare quei minuscoli filini e ricavarne minuziose fantasie servono piccole ed agili manine, sono perfette quelle dei bambini. Chi è accecato dal business può davvero pensare che sia lecito renderli schiavi.

​Francesco D’Adamo ci racconta la storia di Iqbal, uno di quei bambini, venduto al signor Hussain Khan dalla famiglia indebitata, per 16 miseri dollari, costretto a lavorare incatenato al telaio, per il suo essere ribelle. La voce di Fatima, 12enne e coetanea di Iqbal, racconta come questi bambini fossero costretti a lavorare tutto il giorno, con una dose di cibo insufficiente e in pessime condizioni igieniche. Il padrone della tessitura, Hussain, è un uomo spregevole e le piccole manine dei bambini sono ferite dal duro lavoro, alle volte questo dolore sembra loro normale, molti non si ricordano neanche della loro vita prima della tessitura. Ci sono bambini di 3, 4 anni che iniziano a tessere e non hanno memoria delle loro manine illese, che toccano la morbida superficie di una mamma.
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Iqbal non vuol accettare questa condizione, non è capace di abbassare la testa per la paura di fronte alle urla del signor Hussain, Iqbal dentro di sé ha il fuoco della rivoluzione e un giorno taglia un pregiatissimo tappeto appena terminato, in nome di quella fiamma accesa dentro di lui. La notte, quando a quei bambini si presentano orribili incubi, Iqbal scaccia via i brutti pensieri con la fantasia, sogna ad occhi aperti con i suoi compagni, spera un giorno di poter giocare libero con loro, sulla cima di una collina correndo fra mille variopinti aquiloni. Nella testa di quel bambino che freme di rivoluzione, il pensiero di vedere i suoi piccoli compagni felici e liberi diventa un obiettivo, una meta da raggiungere, ad ogni costo.
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Con l’aiuto di Fatima, Iqbal tenta più volte la fuga e una volta fuori da quell’inferno riesce perfino a partecipare a una manifestazione contro la schiavitù minorile. Riesce ad attirare l’attenzione della polizia, che però una volta giunta alla tessitura, di fronte alle bugie di Hussain, rimane impassibile e lascia i bambini impotenti di fronte alla loro crudele sorte. Iqbal viene sbattuto nella “tomba”, un luogo buio e freddo in cui non è concesso bere e mangiare: è così che sarà punito per quello che ha fatto. Nella tomba si sente la morte seduta di fronte, immerso nel buio e nella fame Iqbal è allo stremo delle sue forze, nella sua tasca è riposta l’ultima speranza, un volantino stropicciato di quel movimento contro la schiavitù minorile.

Il fuoco di Iqbal si è fatto più tenue, ma qualcosa lo tiene ancora in vita.

Iqbal fugge per un’ultima volta, raggiunge l’esponente di quel movimento liberale e grazie a quest’ultimo riesce a denunciare ciò che avveniva nella tessitura del signor Hussain. Iqbal ha scacciato via il nero destino che lo accomunava ai suoi piccoli compagni, la sua tenacia li ha resi liberi, quei bambini hanno potuto veramente correre liberi su una collina con l’aria tra i capelli. Ci vorrebbe un Iqbal per ogni tessitura, ci vorrebbe più coscienza nella mente dei consumatori e non dovrebbe esistere una parte sbagliata del mondo in cui nascere.
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La storia di Iqbal può insegnare tanto, in un paese come il Pakistan gli è costato molto caro essere un ribelle, ma è così che si combattono le ingiustizie e si insediano i cambiamenti. Finiamola di ignorare quello che succede oltre la curvatura dell’orizzonte, cerchiamo nel nostro piccolo, per quanto possibile, di mettere fine a realtà disumane come questa.

La storia di Iqbal è un invito alla riflessione, oggi vi invito a riflettere.

Immagini tratte da: 
Iqbal Masih, da Wikipedia Italia, By Aneladgames - Own work, CC BY-SA 4.0, voce "​Iqbal Masih"

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9/1/2021

La strada di casa

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di Lorenzo Vanni
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La gloria postuma non è forse il massimo a cui uno scrittore possa aspirare e in effetti sarebbe preferibile che il proprio talento venga riconosciuto quando si è in vita, ma i casi della vita sono tanti e diversi perciò può benissimo accadere che nella fretta del mondo di celebrare capolavori si perdano pezzi importanti lungo la strada. Uno di questi è senza dubbio Kent Haruf, scoperto in Italia solo a partire dal 2017 con il suo romanzo uscito postumo Le nostre anime di notte riscuotendo enorme successo di pubblico e critica; da quel momento è partito il recupero delle sue opere precedenti che hanno tutte in comune l’ambientazione della città di Holt, la classica cittadina di periferia americana che rappresenta in pieno lo spirito dell’heartland: la vera America, direbbe qualcuno.
   Uno degli ultimi tasselli (cronologicamente uno dei primi) che si è aggiunto a comporre il ciclo di Holt in italiano è La strada di casa, inizialmente pubblicato nel 1990 e arrivato all’attenzione internazionale dopo trent’anni. La strada di casa è quella che percorre Jack Burdette che torna a Holt dove essere stato in fuga per anni dopo essersi appropriato indebitamente di denaro appartenente alla compagnia di silos per cui lavorava recuperando tutto quel che si era lasciato alle spalle. La storia è raccontata da uno degli ex compagni di scuola di Burdette, Pat Arbuckle, le cui vicende si sono sempre tenute sul ciglio della vita dell’altro; viene quindi ripercorsa la vita di Burdette, inizialmente promettente per poi perdersi e raggiungendo l’apice con la fuga verso la California.
  Quel che colpisce maggiormente è il modo in cui viene affrontata la giustizia. Parliamo dell’America profonda, un ambiente in cui la giustizia popolare si esprime in modi potenzialmente violenti, dove l’indignazione cresce a ondate finché non è il destino a infliggere pene abbastanza dure da soddisfare il risentimento degli abitanti di Holt. A pagare maggiormente per le colpe di Burdette saranno le due donne che si legheranno a lui: Wanda Jo Evans, ex compagna di classe e innamorata di lui fin da subito e che, dopo anni di regolarità e attesa di una proposta di matrimonio da parte di Burdette, scopre che quest’ultimo si era segretamente sposato con un’altra donna conosciuta solo pochi giorni prima.
   Questa è Jessie e rappresenta la vera figura tragica per l’elevato senso di giustizia da lei dimostrato dopo la fuga di Burdette. Il finale aperto che la riguarda prefigura una nuova situazione per lei, ulteriormente tragica seppur in modo diverso. L’espediente sfruttato dall’autore per farci entrare in profondità nella psiche della donna è di far iniziare al narratore una relazione con la stessa: pur essendo sposata, del marito si era persa ogni traccia da otto anni e nessuno si aspettava che sarebbe tornato. E invece lo fa, proprio nel momento in cui il reato di cui era accusato era finito in prescrizione.
   La prosa di Haruf è delicata e si adatta bene alle scene più complesse, specie quelle di violenza o di tensione a differenza di Le nostre anime di notte, che invece risentiva di una scrittura del genere facendo sembrare l’intera struttura costruita nell’intento di commuovere; questo è sicuramente dovuto anche al fatto che il focus è concentrato sulle emozioni, la solitudine e la vecchiaia. Questo è invece un grande romanzo, e ve lo consigliamo calorosamente.  
Foto
Immagini tratte da:
https://www.amazon.it/strada-casa-Kent-Haruf/dp/8894938611
https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/geronimo/Libri/La-verit%C3%A0-sul-caso-Kent-Haruf-8923909.html

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2/1/2021

Il metodo Antonia

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di Beatrice Gambogi

Due amiche sono sedute al tavolo di un bar.
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MARTA Sai… ho deciso di provare ad andare da uno psicologo.
ANTONIA Davvero? Come mai?
MARTA Per vari motivi, ma il principale è che non so se voglio fare l’attrice per davvero.
ANTONIA (quasi strozzandosi con la sua bibita) Ma come?!?
MARTA È una storia lunga… e capisco che possa sembrare strano, ma non sono più sicura, tutto qui.
ANTONIA Tutto qui? Che vuol dire tutto qui? Dopo tutti i sacrifici che hai fatto, i soldi che hai speso, il tempo che hai investito…
MARTA Capita anche di cambiare idea, a volte. Solo gli stupidi non cambiano mai idea.
ANTONIA Ma qui non è questione di essere stupidi o intelligenti! Sei sempre stata molto determinata in questa cosa, e ora te ne esci così? Non capisco.
MARTA Ci capisco poco anche io, a dire il vero. Per questo vorrei andare dallo psicologo. E comunque non ti ho detto che voglio rinunciare, ma che devo capire quanto me la sento veramente.
ANTONIA E non riesci a capirlo da sola? Pensi di andare da uno psicologo e, siccome lo paghi, lui ti dica cosa devi fare della tua vita?
MARTA No, non la faccio così semplice. Ma mi aiuterà a ragionare sulle cose e mi guiderà alla scoperta di me stessa. Senza fretta, senza pressioni.
ANTONIA Non lo so. Pensaci bene… Magari è solo una fase passeggera e tra qualche giorno tornerai ad essere come prima. Ci sta che tu ti sia scoraggiata un po’ in questo periodo, ma appena torna lo stimolo giusto…
MARTA Ma non sono scoraggiata. È una cosa diversa, più complessa… legata a quello che uno vuole veramente.
ANTONIA Però prima di andare a spendere soldi da uno psicologo, prova il metodo Antonia.
MARTA E come funziona?
ANTONIA Prendi un foglio e ci scrivi delle domande, quelle cose che non sei sicura di sapere. Nel suo caso potrebbero essere “Qual è il tuo più grande desiderio nella vita?”, “Vuoi davvero fare l’attrice?”, “ Come ti piacerebbe fosse la tua vita tra qualche anno?”… cose così. Poi ti sbronzi. Tanto. Tipo che quando sei molto brilla continui ancora a bere. Quando sei ad un livello alto, tipo che traballi e sbatti contro gli stipiti delle porte, vai davanti allo specchio, leggi le domande e ti rispondi, guardandoti negli occhi.
MARTA Spero sinceramente per il tuo fegato che tu abbia pochi dubbi nella vita, Antonia. Davvero. ​

Immagini tratte da pexels

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