25/2/2017 “Io ci sto fra i migranti’’ – Rosario Sardella ci racconta l’opera scritta per Istos EdizioniRead Now
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Rosario Sardella, giornalista pubblicista e inviato di Tv2000 che ci ha raccontato della sua esperienza nel campo di volontariato nella Puglia del caporalato e della raccolta del pomodoro.
Il lavoro di Rosario Sardella è composto da due fasi: una dove si è immerso nel CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) e nei campi di pomodoro, diventando addirittura bracciante e un’altra dove, insieme a 15 volontari provenienti da Pisa, è riuscito attraverso il loro grande contributo a raccogliere le testimonianze di un viaggio incredibile. Un viaggio che nasce dall’incontro con Carlo Scorrano, volontario ed editore della casa editrice Istos Edizioni. Unendo le loro idee i ragazzi danno vita al racconto di una Puglia che all’improvviso si trasforma in Africa, la movida sfrenata di Gallipoli da una parte e lo sfruttamento di esseri umani dall’altra, l’altro triste volto di una regione che non conoscevamo e di cui ignoravamo l’esistenza. Il viaggio tra questi luoghi tinti di vergogna è fatto di posti, strette di mano o sguardi che si incrociano, è anche questo “Io ci sto fra i migranti”. Un libro vero, che racconta storie di vita vissuta. Coraggiosamente questi ragazzi hanno deciso di raccontare la verità, hanno scelto di riportare le testimonianze dei vari migranti prendendosi un’enorme responsabilità. Rosario, durante l’intervista, mi confessa che il libro è dedicato a un ragazzo, che purtroppo non è più tra noi, a cui i ragazzi avevano promesso di pubblicare il racconto. Il primo scopo di “Io ci sto fra i migranti” è quello di non dimenticarsi: si evince dagli sguardi e dagli abbracci sinceri di queste persone quanto sia forte il legame che li unisce. É un libro che parla di educazione civica, di accoglienza ma soprattutto di solidarietà ed è giusto che venga portato in tutte le scuole italiane per fare un’opera di sensibilizzazione come hanno fatto a Pisa Rosario, Carlo e tutto lo staff di Istos edizioni. I ragazzi durante l’intervista ci tengono a dire che questo è un investimento della casa editrice e l’intenzione non è affatto quella di guadagnarci: il ricavato dalla vendita andrà devoluto al ghetto di Rignano. Un progetto che nasce dal basso e da questo trae la sua forza per andare avanti. Sono queste le storie che vorremo sempre ascoltare nel nostro paese; un gruppo di ragazzi che in silenzio si è rimboccato le maniche e, attraverso umiltà e pazienza, sono riusciti a dare vita a un progetto straordinario. Anche se concederete un solo minuto di riflessione per questo libro, per questi ragazzi sarà già una vittoria. Leggendo le pagine di questo diario di viaggio sposerete la causa e credetemi difficilmente riuscirete a non appassionarvi a queste storie. Io ci sto frai i migranti combatte una battaglia per educare ed è per questo che è importante farlo girare all’interno degli istituti scolastici nazionali. Una risposta forte a tutte quelle false notizie che girano sui social, al pregiudizio, all’indifferenza dei tanti italiani che preferiscono voltarsi dall’altra parte. Oltre all’intervista che ci ha rilasciato il giornalista Rosario Sardella troverete in basso il reportage: Io ci sto, realizzato da quest’ultimo per la rete televisiva Tv2000.
Rosario parlaci un po’ di te e delle tue esperienze. Sono un giornalista siciliano ed è più o meno da sette anni che svolgo questa professione. Ho iniziato a Catania con Sud Press, un free press che si occupava di mafia e antimafia. Inizio lì a muovere i primi passi con un’inchiesta che ha come protagonisti le miniere e l’infiltrazione mafiosa. Con questa mia indagine vado in finale per il premio Roberto Morrione. Da tre anni collaboro con testate regionali e nazionali e tutt’oggi lavoro con Tv2000 come inviato in un programma che si chiama Siamo Noi. Stiamo seguendo un progetto con TV2000 che mette l’uomo al centro del racconto. L’esperienza con questa rete mi porta ad andare a Foggia, per conoscere più da vicino il fenomeno del caporalato nei campi di pomodoro pugliesi. Parlaci del ghetto di Rignano e la dura realtà del cara di Borgo Mezzanone. Conoscevo già la drammaticità del caporalato ma non conoscevo la specifica condizione del foggiano, ovvero il ghetto di Rignano Garganico. Non c’ero mai stato e non conoscevo nemmeno la realtà del cara di Borgo mezzanone anzi prima di visitare questi luoghi io non sapevo nemmeno che ce ne fosse uno a 14 km da Foggia, in questo piccolo comune che si chiama Borgo Mezzanone. Tv2000 mi dà l’occasione di partire come inviato per un mese ospitato dai padri Scalabriniani che sono i padri che si occupano di migranti nel mondo. In Italia nello specifico si occupano di alcune missioni, tra queste ovviamente c’è la realtà di Borgo Mezzanone. Decidiamo quindi di raccontare il dramma di chi arriva in Italia e si trova in condizioni di sfruttamento totale, questi ragazzi guadagnano 3 miseri euro a cassone, ma vogliamo raccontarlo da un punto di vista diverso e cioè raccontando l’esperienza missionaria di volontariato dei padri Scalabriniani e di quei giovani italiani che alla richiesta d’aiuto dei padri hanno risposto “io ci sto’’ e decidono di partecipare alla missione per dare il loro contributo. Parlaci del lavoro dei volontari, che si sono dovuti confrontare con le dure condizioni dei CARA. Spiegaci come funzionano questi luoghi e com’è possibile che un migrante venga sfruttato per soli tre euro? Questi ragazzi invece di andare in giro per l’Europa a fare baldoria hanno scelto di partire in estate per questa missione insegnando ai ragazzi stranieri l’italiano ma anche a riparare le biciclette, facendoli sentire ancora umani e importanti. Qui si parla di un tipo di volontariato diverso: non parliamo delle solite donazioni, non siamo andati li a regalare coperte o libri ma abbiamo cercato di distruggere questo sistema marcio, di attuare una vera e propria cooperazione, di rompere quel sistema assistenzialista che in Italia ha assunto un atteggiamento erroneo. Abbiamo insegnato loro la lingua italiana perchè la prima vera difficoltà che incontrano è proprio quella della lingua, ricordiamoci che questi ragazzi non conoscono una sola parola d’italiano. Dall’altra parte abbiamo insegnato ai migranti a riparare le loro bici, gli unici mezzi che gli consentono in quel territorio di scappare dalle grinfie dei caporali. Di solito i migranti vengono caricati in massa su un pulmino che arriva a trasportare trenta persone, ovviamente in condizioni di disagio e gli sfruttatori prendono a loro volta cinque euro da ciascuno di questi ragazzi per portarli nei campi di lavoro. Teniamo ben presente che queste persone per guadagnare tre euro devono riempire un cassone di 300kg e quindi che tutto dipende dalla forza dei ragazzi: più forte sei più cassoni riesci a riempire. Una vera e propria guerra tra poveri perchè chi non riesce a riempire tanti cassoni rischia di andare in debito nei confornti del datore di lavoro, dato che i migranti devono pagarsi pure il trasporto, una situazione a dir poco paradossale. Attraverso un reportage di un mese ho avuto l’occasione di analizzare il fenomeno dei CARA, nati per creare l’integrazione ma tutto creano fuorchè l’integrazione. Ne è nato un video di circa 49 minuti che racconta attraverso gli sguardi di questi volontari italiani, circa 250 ragazzi dai 15 ai 30 anni, il progetto Io ci sto. Con le loro emozioni, le loro voci e ovviamente le preziose testimonianze dei migranti siamo riusciti a documentare tutto quello che accade in questi luoghi. Vorrei ricordare che un paese civile si vede soprattutto dalle condizioni delle carceri e dall’accoglienza delle persone straniere; sono i valori dei diritti civili a fare la differenza e, se vogliamo essere sinceri, il paese in cui viviamo non è tanto civile come crediamo.
Quest’ultima tua frase mi ha davvero molto colpito, descrivici le condizioni in cui versano questi ragazzi stranieri.
Accanto alle due situazioni di cui ti parlavo troviamo anche il famoso “ghetto bulgari”, un lembo di territorio popolato da bulgari, lo mostriamo inoltre nell’ultima parte del reportage dove facciamo vedere le condizioni disumane in cui vivono queste persone. Siamo riusciti a entrarci grazie alla collaborazione di un migrante marocchino, conosciuto durante quel mese e con il quale siamo diventati quasi fratelli, un aiuto per me prezioso dal punto di vista giornalistico. Da infiltrato sono andato a vedere come si lavora in questi campi di pomodoro raccogliendo le testimonianze di una donna rumena che lavorava come bracciante, tutto questo sempre non solo con l’occhio del giornalista ma anche di sociologo, perchè questo tipo di situazioni vanno prima vissute sulla propria pelle per poi poterle spiegare meglio alle tante persone che disconoscono queste situazioni. Mi sono messo al posto dei migranti, ho vissuto in prima persona queste storie e devo dire che è stata una forte esperienza empatica, una storia che rimarrà per sempre impressa sulla mia pelle. Spesso ho vissuto situazioni di forte rischio, devo essere sincero: andare da un caporale e fingersi rumeno, mettersi a lavorare e nello stesso tempo cercare di filmare i fatti con la paura di essere scoperti è veramente difficile. Sono stato scoperto e riempito di insulti come potrai immaginare ma per fortuna ero circondato dalle persone giuste che con il giusto tempismo mi hanno tolto dai guai. É stato un lavoro pericoloso ma stimolante perchè tutto questo mi ha dato la forza e il coraggio per raccontare questa storia. Poco fa ti dicevo che le condizioni di un popolo civile si vedono dall’accoglienza e da quello che offre a chi viene da fuori: il ghetto bulgari è peggio del ghetto di Rignano, peggio per una semplice considerazione, la presenza smisurata di un elevato numero di bambini molto piccoli che vivono in condizioni di fortissimo disagio, circondati da rifiuti. Com’è avvenuto l’incontro con Istos edizioni e com’è nata l’idea di realizzare un libro? All’epoca non conoscevo ancora Carlo e la casa editrice Istos, ci conoscemmo lì sul campo, lui era un volontario e non era venuto a Foggia in qualità di editore, era un capo scout che accompagnava 15 ragazzi provenienti da Pisa, molti di loro frequentavano ancora il liceo. Dopo esserci conosciuti vengo a sapere che lui gestisce una casa editrice, la Istos appunto e gli confido il mio desiderio di scivere un libro sul documentario che stavo realizzando per TV2000. Gli dico che non volevo essere io a scriverlo ma avrei voluto che fossero i volontari a raccontare attraverso le loro parole e il duro lavoro le emozioni che avevano vissuto partecipando a questa esperienza di volontariato. Io avrei semplicemente curato l’opera e le avrei dato insomma una forma narrativa. Lo scopo del libro non è quello di raccontare il fenomeno del caporalato pugliese e neanche fare un saggio pieno di dati e statistiche, ma solamente attraverso l’amore della scrittura: riscoprirsi e porsi delle domande, le stesse che ci eravamo posti durante quel mese. Inevitabilmente un’esperienza del genere ti segna, ti forgia e prima ancora ti invita a porti delle domande sulla forte situazione che hai vissuto. La mia intenzione era che queste domande non si perdessero nel tempo ma che rimanessero impresse sulla carta, il potere della scrittura no? Volevo dare un input: che se si vuole in condivisione si riesce a creare qualcosa di significativo, anche a distanza. Lo abbiamo scritto tutti insieme e siamo riusciti a mantenere la promessa che ci eravamo fatti, dando anche l’esempio agli altri volontari che non hanno collaborato alla realizzazione di questo libro. Carlo poi è stato magnifico. Si è mostato entusiasta fin dal primo momento in cui gli ho proposto la mia idea e mi ha inviato tutto il materiale che i 15 ragazzi hanno scritto. Con il libro volevamo continuare a camminare con le gambe dei volontari. Per curare il libro ci abbiamo impiegato un anno; è pieno di dettagli, di minuzie che non era facile ricordarsi, leggendo oggi alcune frasi riesco ancora a sentire la puzza di quei campi, un odore che non smetti di portarti addosso. Quali sono i momenti che ti hanno più segnato di quest’esperienza che hai vissuto insieme ai volontari? Avendo vissuto un mese in quella terra ho vissuto dell’esperienze al limite. L’ultimo giorno ad esempio mi sono ritrovato in mezzo a 40 profughi eritrei che ereano stati accompagnati da Lampedusa a Crotone e da Crotone erano arrivati a Borgo Mezzanone perchè in Calabria non c’erano più posti a disposizione. Quest’ultimi non volevano farsi registrare fornendo le impronte digitali perchè la loro intenzione non era quella di rimanere in Italia, come la stragrande maggioranza di quelli che arrivano sulle nostre coste. Hanno visto una croce che si ergeva nella struttura dove noi alloggiavamo e sono corsi a chiedere il nostro aiuto. Noi, ultimi volontari rimasti in quel momento eravamo allibiti, un’esperienza difficile da descrivere credimi, una di quelle cose che potrete leggere anche sul libro. Di norma è il giornalista che va a cercare il profugo per far notizia, per farsi raccontare la propria storia, i propri viaggi, le informazioni sui trafficanti mentre io invece quella mattina mi sono ritrovato in mezzo a 40 persone e abbiamo potuto ascoltare quelle storie in presa diretta. Storie orribili di persone che erano visibilmente segnate da quei viaggi: storie di ragazzi decapitati dall’Isis nel deserto libico e le loro barche affondate al largo di Lampedusa. É li che il libro assume un valore unico, grazie a queste storie vere raccolte in presa diretta. Il libro è la voce di 30 persone che è stata raccolta in un unico corpo. Il libro va aldilà del documentario, mostra tante cose che sul documentario non troverete, quest’ultima parte ad esempio la potete trovare solo sul libro. Quanto è stata dura quest’esperienza? Onestamente è stato il mio primo grande reportage. Non avevo mai realizzato un servizio di 50 minuti, era la mia prima volta ma soprattutto non ti nascondo che non ero preparato ad affrontare quello che ho vissuto. Dovermi fingere bracciante in incognito per poter filmare con la mia telecamera, la piccola Sony, sotto il solo cocente, più o meno c’erano sempre fissi 40°, col rischio costante di essere scoperti, il ricordo più nitido che ho è la fatica. Se posso essere sincero è stato difficile anche mantenere il ruolo di giornalista, è chiaro che il mio sguardo fosse diverso dallo sguardo del volontario, ma era facile mantenere quel ruolo perchè quel contesto riusciva a catturarmi emotivamente. Non potevo deludere quei migranti che si erano fidati di me, avevano accettato di denunciare, di parlare di fronte alla telecamera e non è affatto semplice condurre questo lavoro. A volte dimenticavo persino di essere un giornalista e la parte del volontario subentrava in maniera molto forte. Con loro sono riuscito a creare un legame davvero forte. Questo solo per farti capire quanto è stata dura dal punto di vista fisico ma anche emotivo nel recepire quelle storie, fatte non solo di tristezza ma anche di fratellanza e bei momenti vissuti insieme. É ancora forte in me il ricordo del rientro dai campi a fine giornata, quando la sera ci distraevamo intorno al fuoco, bevendo una birra magari, cercando di imparare molte cose da questi ragazzi. Io in vita mia non ho mai fatto il volontario e sono stati questi ragazzi a impressionarmi maggiormente, per l’impegno e la gioia che ci mettevano. Non è facile a 16 anni esternare quel tipo di pensieri.
Dove avete intenzione di arrivare col progetto “Io ci Sto”?
Questo è solo l’inizio del nostro percorso e nell’idea il progetto è molto più ampio. Quello che noi possiamo fare è farci carico del nostro viaggio, iniziato nel 2015 e che continua nelle forme del documentario andato in onda a novembre, quindi due mesi dopo il campo su Tv2000 e poi sei mesi dopo con la realizzazione del libro e dopo un anno con la sua distribuzione per far conoscere questa storia che abbiamo voluto raccontare e continueremo a raccontare a chi ci ospiterà, a chi si sarà desideroso di conoscerla. La prima grande presentazione del progetto ovviamente ci tenevamo a farla a Foggia nel campo di Io ci sto, quindi prima dell’estate, il giorno in cui è partito il nuovo campo di volontariato abbiamo presentato ufficialmente il libro per ribadire che anche un anno dopo noi ci siamo ancora, sempre più motivati, in modo tale che chi voleva leggere poteva ritrovarsi in quelle pagine per poter rivivere quegli intensi momenti attraverso le memorie e le storie di chi è stato a stretto contatto con i migranti. Quello che ci auguriamo con questo libro è che si possano educare le generazioni che verranno, con l’augurio che a Foggia i nuovi volontari inizieranno a porsi delle domande. É normale che questi ragazzi si chiedano cosa stia succedendo intorno a loro, non è facile accettare e comprendere quello che succede in quei campi in Puglia ma io sono fermamente convinto che attraverso la lettura del nostro libro e seguendo l’esempio dei padri scalabriniani che attuano i principi fedeli della cooperazione possa nascere un nuovo stile di vita. É una storia che abbiamo voluto raccontare con tutto il cuore, non voglio essere solo un giornalista ma voglio essere uno di loro, uno di questi volontari. Hai deciso di partire pure per il Mozambico, vuoi parlarci di questo viaggio? Sì, dopo aver approfondito questo rapporto con i padri scalabriniani quest’estate sono partito per il Mozambico a raccontare i suoi profughi e sono stato l’unico giornalista al mondo finora a ottenere le autorizzazioni dal governo mozambichiano, uno dei governi più corrotti sulla terra, per studiare e capire i movimenti migratori dall’Africa. Perchè questa gente va via? I migranti che ho avuto modo di conoscere in Mozambico non andavano verso la Libia, quindi verso l’Europa, io ho visitato nello specifico i paesi dei grandi laghi, ho visto il Congo, il Ruanda, Burundi, Uganda, una sorta di migrazione interna che li portava tutti in Mozambico che versa in una situazione di contraddizione totale. Uno dei dieci paesi più poveri del mondo secondo il Fondo Monetario Internazionale. Ho potuto sperimentare questa povertà mangiando per un mese e mezzo solamente riso e fagioli, ho visto con i miei occhi la corruzione a livello pubblico, erano proprio gli ufficiali che ci puntavano i loro kalashnikov addosso per avere più soldi. Il paese è quasi in guerra ma continua lo stesso ad accogliere profughi, una contraddizione inaudita. Attraverso le mie interviste ho potuto conoscere questi paesi e le loro storie, come la storia del Burundi o La repubblica Democratica del Congo che francamente di democratico non ha proprio nulla credimi. Tutto questo l’ho fatto per parlare dei più poveri tra i poveri ovvero i profughi, spogliati di tutto, che non possiedono una patria, un’identità, le cose più importanti che definiscono la vita di un essere umano. Immagini tratte da: Foto realizzate da Salvatore Amoroso Immagine di Copertina: Istos edizioni
0 Commenti
“Quello che il pubblico ti rimprovera, coltivalo: sei tu!”
Regista e sceneggiatore, poeta e drammaturgo, pittore e saggista francese, Cocteau attraversa l’intera gamma delle espressioni artistiche del Novecento, traendo il meglio da tutte le avanguardie dell’epoca, introiettandole e rielaborandole.
Sperimentando i molteplici movimenti artistici, Cocteau afferma tuttavia la propria singolarità sottraendosi al conformismo delle mode, tenendo fede ad un’idea di poesia, come cifra di stile che si irradia nella visibilità dell’opera per mostrarne il lato “invisibile” e irreale. Trascorre l’infanzia, segnata nel 1898 dal drammatico e misterioso suicidio del padre, in un ambiente raffinato che gli trasmette la passione per le arti tanto che a soli diciannove anni pubblica la sua prima raccolta poetica “La Lampe d’Aladin”. È presto al centro di una rete d’amicizia che comprende figure di rilievo come Picasso, Colette, Stravinskij, Edith Piaf, Gide, Proust e Raymond Radiguet, celebre poeta morto prematuramente di tifo col quale ha una relazione intensa e tormentata. Cocteau non fa mai mistero della sua omosessualità, nonostante le brevi relazioni avute anche con donne, ostentando la propria libertà, ergendosi al di sopra delle convenzioni di una società che disprezza e sbeffeggia : “L’istinto di quasi tutte le società è di rinchiudere chiunque sia davvero libero. Per prima cosa, la società inizia col cercare di picchiarti. Se questo fallisce cercano di avvelenarti. Se anche questo fallisce, finiscono col caricarti di onori”. Uno dei tratti più innovativi della produzione di Cocteau concerne il suo particolare approccio all’opera artistica: prende parte attiva alle sue creazioni, non abbandona mai fisicamente e mentalmente il suo lavoro, resta sempre celato dietro qualche battuta o pennellata di colore. La scrittura è poesia e il poeta è colui che sogna di oltrepassare i miseri limiti umani. In un’intervista sul film “Le Testament d’Orphée” dice chiaramente di non amare il “poetico” ma la Poesia “qui se fait tout seule et dont on se s’occupe jamais”( che si crea da sé e della quale non ci si occupa mai), quella poesia che sorge quasi spontaneamente dall’anima dell’artista. Intorno all’opera di Cocteau vi è spesso un’aurea di mistero, una dimensione mitica, fuori dallo spazio e dal tempo.
La scrittura per lui è sempre “mitografica”, ossia una riscrittura dei propri miti individuali che riecheggiano e convergono. Ha conferito un’importanza eccezionale al Mito d’Orfeo, identificandosi pienamente con questo personaggio eroico, colui che fece il timoroso passo nell’aldilà.
Intorno alla figura di Orfeo ruota infatti la trilogia che comprende una piece teatrale “Orphée”, e due film “Orphée” “Le Testament d’Orphée”, dove il tema orfico è legato all’idea di discesa iniziatica nelle profondità del proprio essere “sa nuit intèrieure”( la sua notte interiore). A tal proposito, il poeta deve essere quindi “archeologo della sua notte” e deve far riemergere a un livello conscio tutti quei reperti sotterranei appartenenti all’Inconscio. Come Orfeo che discende nell’Inferno per riportare Euridice alla luce del giorno, anche il poeta, suo doppio, deve accedere a una dimensione che va oltre l’umano, la “zone”, un luogo a-spaziale e a-temporale in cui i personaggi entrano attraverso lo specchio, mitico intermediario letterario. Il poeta infatti non può compiere questo viaggio senza l’aiuto di intermediari; da qui la necessità di figure chiave come lo specchio appunto, ma anche la Morte, l’Angelo Heurtebise, il cavallo, l’autoradio, tutti mezzi che gli permettono di muoversi agevolmente da un mondo all’altro, dall’aldiquà all’aldilà. Il viaggio di Orfeo è strumento di metamorfosi e rinascita, e si può accostare a quella scienza che Dalì definì “fenixologia”: la capacità del poeta di morire molte volte e poi risorgere dalle sue stesse ceneri. Nel film “Le Testament d’Orphée” la fenixologia è alla base del percorso del poeta, il quale deve vivere diverse vite e attraversare diversi momenti spazio-temporali prima di raggiungere la dea Atena. Deve poi portare con sé un fiore d’Ibisco donatogli da Cègeste che, risorto dalle acque marine afferma “questo fiore è fatto del vostro sangue, sposa le sincopi del vostro destino”. Nell’ultima scena il fiore caduto a terra si trasforma nella carta d’identità di Cocteau, a significare una sorta d’identificazione tra il fiore e l’artista. Tuttavia Cocteau non diede mai alcuna spiegazione a riguardo, non ha mai voluto che le sue immagini venissero razionalizzate o spiegate; ed è proprio in questo mistero che sta il fascino dell’artista: rimane tutt’oggi un’enigma da svelare e le sue opere geroglifici da decodificare.
Immagini tratte da:
Immagine 1 - http://thepinksnout.com/2014/07/05/jean-cocteau-anniversary/ Immagine 2 - http://www.albertine.com/events/jean-cocteau-a-life/ Immagine 3 - http://the-artifice.com/death-jean-cocteaus-orphee-dantethe-divine-comedy%EF%BB%BF/
In questa fase storica dominata da neoconservatori, sovranisti e tradizionalisti, l’unico genere letterario che ci permette di evadere e di fuggire da questo mondo barbaro è quello dell’utopia, che ha nella Repubblica di Platone (390-360 a.C.) e ha conosciuto declinazioni moderne in Thomas More (Utopia, 1516), Francis Bacon (La nuova Atlantide, 1627) oppure in William Morris (Notizie da un nessun luogo, 1891).
Platone delinea il programma dei luoghi o delle città ideali: in essi non esiste proprietà privata e il governo della città è affidato ai sapienti, cioè ai filosofi che saranno in grado di reggere lo Stato con saggezza
Il genere utopico conosce un’ulteriore declinazione a partire dal Rinascimento, grazie alla riscoperta dei grandi classici dell’antichità. In questo contesto l’umanista e uomo di stato Thomas More (1478-1535) dà grande prova per il suo capolavoro, Utopia. È opportuna, a mio parere, una breve riflessione filologica: cosa vuol dire veramente utopia? Due sono le risposte possibili: “utopia” potrebbe derivare dal greco eu e topos (cioè “bel luogo”) oppure potrebbe discendere da u e topos (cioè “nessun luogo”). Nello stato delineato da Rafael Hythlodaeus (cioè “dotto in sciocchezze”), non esiste la proprietà privata (come in Platone) e le pecore possono pascolare liberamente. Ognuno può praticare la religione che vuole (in quanto la tolleranza religiosa è un bene supremo) e addirittura è concessa ai cittadini l’eutanasia. La nazione descritta da More è l’opposto dell’Inghilterra di Enrico VIII, dove non esistono più terre comuni per la voracità delle pecore e il benessere è riservato a pochi. Stona l’enfasi posta sulla tolleranza religiosa, in quanto More si contraddistinguerà per il suo zelo nella caccia ai Protestanti con l’inizio della Riforma in Europa, ma resta da apprezzare la sua apertura
Procuratore generale prima e Cancelliere poi, Francis Bacon contribuì allo sviluppo del genere con La nuova Atlantide. L’influenza della Rivoluzione scientifica si fa sentire sul testo, in quanto esso si svolge sull’isola di Bensalem, da qualche parte in Perù, dove la scienza ha un’influenza preponderante sull’esistenza; tutto è controllato dalla Casa di Salomone, una fondazione che opera seguendo scrupolosamente le regole del metodo baconiano (cioè induttivo) e dove ogni manufatto è la più preziosa delle scoperte o delle invenzioni. Vale inoltre la pena di ricordare come gli abitanti di Bensalem siano in grado di parlare diverse lingue (dall’ebraico alle lingue classiche) e sono stati cristianizzati da san Bartolomeo
Marxista e socialista è l’utopia che vuole costruire William Morris in Notizie da nessun luogo. Il protagonista, William Guest (nome parlante: si sente ospite della società capitalista vittoriana e ovviamente a disagio in un mondo simile) si sveglia, dopo una riunione socialista, in un mondo completamente diverso, dove è stata abolita la società privata, i mezzi di produzione sono in comune, le classi sono state abolite e l’autorità non esiste. Morris auspica così un’abolizione del capitalismo e un nuovo ordine, su cui costruire una nuova società
Il filosofo Karl Raimund Popper si è posto in modo critico nei confronti dell’utopia, in quanto chi sogna utopie prepara l’inferno in terra, ma, di fronte al desolante spettacolo contemporaneo di xenofobia, razzismo e omofobia, la carica fortemente evasiva e destrutturante di questo genere letterario è ciò di cui abbiamo bisogno, per indicare che una nuova diversa è sempre possibile.
Immagini tratte da: https://pierluigifagan.wordpress.com/2014/01/20/come-platone-ridusse-il-molteplice-ad-uno-nella-repubblica/ http://www.goodreads.com/book/show/18414.Utopia http://stateofthenation2012.com/?p=22822 https://openlibrary.org/works/OL15008064W/News_from_nowhere_and_selected_writings_and_designs
"Scalzi al Polo Nord" è l'esordio letterario di Alessio Moretti, livornese classe 1986, che con Istos Edizioni pubblica un romanzo divertente e godibile dedicato all'esperienza della vita universitaria di un fuorisede e dei suoi scalmanati coinquilini. Per il suo debutto, Moretti sceglie di ambientare la sua narrazione nella Pisa da lui stesso frequentata durante gli studi, e di conseguenza ben conosciuta e descritta all'interno del libro tra Piazza dei Miracoli, i Lungarni, il Giardino Scotto e altri posti più o meno noti della città.
La storia è accompagnata all'inizio da uno stato d'animo timoroso e nostalgico espresso del protagonista Alberigo, diciannovenne di La California, piccolo paese del livornese, che si appresta ad iniziare la sua "Vita Nuova" per dirla alla dantesca, ossia prendere casa a Pisa per poter frequentare nel migliore dei modi il corso di laurea in Medicina e Chirurgia. Albe, questo è il diminutivo con cui lo identificano tutti a La California, parla in prima persona della difficoltà di doversi separare fisicamente dai suoi genitori e dalla sua ragazza e calarsi in una realtà nuova di zecca, a cominciare dalla casa che ha affittato e ai suoi futuri coinquilini. L'impatto con il rovente agosto pisano e i coinquilini si rivela infatti poco felice, ma non drammatico, anzi bizzarro e comico secondo il tono generale del romanzo. Albe vive in casa sin da principio situazioni grottesche e al limite dell'eccesso che nell'evoluzione della trama aumentano a dismisura e propagano lungo le pagine di "Scalzi al Polo Nord" il desiderio di dar vita a vicende surreali e quasi fiabesche. Con il procedere della narrazione, parallelamente alla crescita caratteriale del protagonista Albe, prendono ad alternarsi l'uno con l'altro momenti di tensione e cattiva sorte con episodi esilaranti e trionfali, che tuttavia sono sempre contornati da una visione del mondo saggia e speranzosa. L'Albe serio e introverso che parte dal paesino alla volta della città e di una vita indipendente si apre progressivamente al mondo grazie al confronto con le diverse personalità espresse dai suoi coinquilini: si va da John, il romano coatto abbondantemente fuori corso e padre, ai fratelli siciliani Marcello e Claudio; l'uno poco studioso e superficiale, l'altro maniaco delle pulizie a livelli patologici. E poi ci sono anche due figure femminili, due ragazze compagne di stanza ma lontane chilometri tanto per stile di vita quanto per il loro modo di essere e rapportarsi agli altri. La torinese Anna, figlia di una coppia ricca interessata soltanto alla sua carriera di ballerina, che al primo contatto appare fredda e scostante, ma possiede in realtà un animo profondo e appassionato. La francesina Sandrine, dalla bellezza conturbante e penetrante, civettuola, della quale si sa ben poco sennonchè viene da Parigi ed è arrivata a Pisa con l'Erasmus per studiare lingue all'università. Quando conosce i suoi coinquilini, Albe vive a disagio l'approccio con tutti loro e cominciano a sorgere per lui inoltre alcuni problemi in facoltà e con colleghi invidiosi e spocchiosi. Tuttavia, un evento davvero inaspettato per lui costituisce la molla a partire dalla quale egli muta in maniera decisiva dapprima il suo comportamento tra le mura casalinghe, e di rimando al di fuori di esse. L'attesa visita in un weekend da parte di Veronica, la sua fidanzata storica, si trasforma però in una sgradevolissima sorpresa per il povero Albe, che viene praticamente lasciato in meno di dieci minuti e perde così un forte appiglio al suo passato. La perdita di Veronica e con essa la lontananza dai genitori spingono il giovane studente a ripartire quasi da zero, nel tentativo di ricrearsi nuovi, punti di riferimento, siano essi amichevoli che qualcosa in più. Albe entra in confidenza con John, lo strampalato roommate con il quale divide un letto matrimoniale, e di seguito con i fratelli e le due ragazze, si preoccupa di ascoltarli e di parlare dei suoi problemi. Nonostante i contrasti derivanti da caratteri molto distanti e consuetudini di vita, gli abitanti della casa diventano un gruppo affiatato e coeso, una vera e propria famiglia dalla quale resta esclusa l'enigmatica Sandrine. Albe si prende una bella cotta per la francesina, viene ricambiata ma dovrà fare i conti con le stranezze della ragazza, le sue lunghe assenze ingiustificate, la mancanza di chiarezza per quanto concerne la loro relazione. Per fortuna, ad affrontare le varie magagne che si presenteranno dentro e fuori casa, egli non si ritroverà solo, ma fiancheggiato da amici veri e affidabili disposti a decidere in un batter d'occhio di partire all'avventura e camminare scalzi dovunque, magari al Polo Nord. Immagini tratte da: Immagine 1 da www.istosedizioni.com Immagine 2 da www.quilivorno.it ![]()
Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.
Il protagonista, Guy Montag, dopo l'incontro con Clarisse, una giovane ragazza amante della vita, dotata di una spiccata ratio e volenterosa di aiutare e ascoltare il prossimo, entra in una profonda crisi interiore. Grazie a lei, infatti, scopre un altro modo di guardare, e di “leggere”, la propria vita. Montag comprende che dietro l'apparente felicità del nucleo familiare si nasconde un’infelicità latente, che si ripercuote sulla coppia. Clarisse, di fatto, incarna l’assuefazione impassibile alla quotidianità imposta dal regime attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Una realtà nuova, diversa, alternativa, un mondo utopico in cui Montag sogna di vivere. Miltred, a differenza di Clarisse, non sa mai accettare la realtà, preferendo vivere nel mondo virtuale, morboso e voyeuristico delle televisioni e delle insulse chiacchiere con le amiche. Quando Guy Montag scopre il vero valore dei libri, Miltred sostiene come essi siano un elemento disturbante, inutile, che deve essere, secondo la sua ottica, soppresso. Una volta intrapreso il percorso salvifico, sarà il capitano Betty a spiegare a Montag la logica di questo sistema perverso: «intellettuale divenne la parolaccia che meritava di diventare [...] Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno vien fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro; dopo di che tutti sono felici […] Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo». Per il capitano Betty la distruzione di ogni fonte di sapere è una vera e propria missione: non solo le persone devono essere uguali, ma non devono avere nessuna possibilità di confrontarsi. «Voglio un po’ di felicità, dice la gente. Ebbene, non l’hanno forse? Non li teniamo in continuo movimento, non diamo loro ininterrottamente svago? Non è per questo che in fondo viviamo? Per il piacere e i più svariati titillamenti? E tu non potrai negare che la nostra forma di civiltà non ne abbia in abbondanza, di titillamenti» è la testimonianza di come l'unico obiettivo di questa società distopica sia il raggiungimento del piacere nell'immediato; ogni sapere, secondo il capitano Betty, deve essere funzionale a qualche attività concreta. La realtà rappresentata da Betty è fittizia «Quando non guidate la macchina a più di cento all’ora, a un massimo in cui non potete pensare ad altro che al pericolo, allora ve ne state a giocare a carte o sedete in qualche salotto, dove non potete discutere col televisore a quattro pareti. Perché? Il televisore è “reale”, è immediato, ha dimensioni. Vi dice lui quello che dovete pensare, e ve lo dice con voce di tuono. Vi spinge con tanta rapidità e irruenza alle sue conclusioni che la vostra mente non ha tempo di protestare, di dirsi: quante sciocchezze!» in quanto descrive una realtà in cui non esiste l'identità: non solo tutte le persone, secondo il capitano Betty, devono essere uguali, ma devono avere gli stessi bisogni e le stesse esigenze compensate, per l'appunto, dalla radio e dalla televisione. Una realtà moderna quella descritta da Bradbury, che ricorda per molti versi il romanzo di Orwell 1984. In comune hanno il forte impatto mediatico esercitato dai media, di cui il Grande Fratello è l'espressione di questa realtà che controlla la vita delle persone. La modernità del romanzo si ritrova anche nelle parole a chiusura di Granger «uomo sa che le sue azioni conducono la società verso la distruzione, lo vediamo oggi con il problema dell’inquinamento dell’ambiente, con le crisi finanziarie, con i traffici di armi ecc., e tuttavia non è in grado di porsi un freno. L’uomo crea le condizioni per la propria distruzione, per poi ravvedersi e ricostruire la società su nuove basi» che descrive un mondo non molto distante da quello trattato da Huxley (Il mondo nuovo), una realtà che, a causa dello sviluppo delle tecnologie, ha portato al controllo delle menti.
Immagini tratte da:
wolfbane15 - WordPress.com
.
Rainer Maria Rilke (nome completo: René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke, 1875- 1926) è uno dei più importanti poeti e scrittori del Novecento, la cui produzione è venata dal forte senso religioso e dall’inquietudine prodotta dall’irruzione della modernità. Di origine boema, Rilke, come tanti intellettuali e scrittori del secolo scorso, è un apolide, un cittadino senza patria, che si trova a suo agio in tutta Europa (mi piace evidenziare di come si tratti di un atteggiamento opposto al provincialismo italiano e al protezionismo dilagante sia in Europa che negli Stati Uniti). Rilke si distingue subito per la diversità con cui si approccia a Dio: esce infatti, tra il 1899 e 1903 il Breviario (Das Stundenbuch), un’opera complessa in cui il rapporto col divino non sottostà più alle regole e alle norme ecclesiastiche. La raccolta è influenzata dalla struttura dei breviari medioevali, ma moderni sono i temi: il divino è di ascendenza spinoziana, di tipo panteistico e vivo. Dio ha una sua consistenza e una sua natura propria, sottratta dal dominio della Chiesa, ha una sua volontà di potenza nietzschiana, che Rilke definisce “il più oscuro” e “Dio vicino”. Il Rilke poeta, tuttavia, è celebre per quelle che sono note come “poesie delle cose” (Dinggedichte). I soggetti di questi testi non sono facilmente identificabili, poiché essi sono apparenti: nella celebre poesia Der Panther (“La pantera”) è ciò che si nasconde dietro la pantera a essere oggetto della poesia. La pantera è infatti simbolo del poeta, il quale, chiuso e intontito nelle sbarre della gabbia, si risveglia soltanto nel momento in cui ha l’ispirazione. Rilke risente dell’influenza della critica nietzschiana alla scienza e alle sicurezze positivistiche, che stanno piano piano venendo meno. Rilke si pone anche come mentore: nelle sue Lettere a un giovane poeta (1903-1908) egli dà preziosi consigli a un giovane poeta su come intraprendere la carriera letteraria in un’epoca di stravolgimento e rivoluzione come è l’inizio del Novecento. Egli è anche autore di un romanzo, fortemente contraddistinto dall’ansia del nuovo secolo, “I quaderni di Malte Laurids Brigge” (Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, 1910). Il protagonista è un nobile danese decaduto, il quale si trova a Parigi all’approssimarsi del primo conflitto mondiale. Si sente l’influenza della riflessione filosofica di Kierkegaard sulla personalità di Malte, il quale, in una prosa espressionistica, descrive una Parigi alienata e ansiosa dal progresso e dalla tecnica (immagine qui). Con questo breve ritratto emerge un poeta sradicato, moderno e cosmopolita, lontano dalle seduzione nazionalistiche e provinciali forti oggi come all’epoca. Rilke bene illustra il Modernismo e il suo sperimentalismo. Immagini tratte da: - http://allspirit.co.uk/poetry/poets/rilke-rainer-maria/ - https://uk.pinterest.com/pin/288300813615445307/ -http://www.booktopia.com.au/die-aufzeichnungen-des-malte-laurids-brigge-rainer-mariarilke/prod9783843027687.html
Clicca per impostare il codice HTML personalizzato
E la pensò distesa sul letto con due tecnici ritti al suo capezzale, non chini su di lei ansiosamente, ma impalati soltanto presso il capezzale, le braccia incrociate sul petto. E si ricordò di aver pensato, in quel momento, che se Miltred fosse morta, lui si sentiva sicuro di non piangere. Perché sarebbe stata la morte di una persona sconosciuta, un volto di un passante, un'immagine vista su un giornale, e a un tratto gli apparve così ingiusto di essersi messo a piangere, non alla morte, ma al pensiero che non avrebbe pianto alla morte di lei, uomo sciocco e fatuo accanto a una donna sciocca e vuota.
Con queste parole Guy Montag si rende conto che la relazione con Miltred è diventata surreale, stereotipata, e che necessita di un cambiamento. Le cause di tale spersonalizzazione vanno ricercate in una società distopica, orientata esclusivamente al consumo di massa, dove il fine ultimo dell'esistenza diviene l'appagamento materialista. A Miltred non interessa che Montag debba ancora pagare la terza parete TV, “un piccolo sacrificio”, non ha importanza che una donna sia stata arsa viva insieme a migliaia di libri. L'unica cosa che lei realmente desidera è “installare una quarta parete TV”. Miltred finisce per diventare schiava di un regime totalitario che tiene impegnate le persone in attività che distolgono l’attenzione dalla riflessione. Nemmeno il collasso per aver ingerito sostanze stupefacenti provoca una reazione in questo personaggio tanto controverso quanto statico. È significativo come al risveglio l'unico pensiero non riguardi l'accaduto, bensì l'acquisto di una nuova televisione.
Fahrenheit 451 si svolge, pertanto, in una dimensione in cui i libri sono vietati, un mondo dominato dall'ignoranza in cui la popolazione vive una realtà distorta dove il sistema ha provveduto a eliminare qualsiasi tipo di fonte di “caos, incertezze o dubbi” per consentire alle persone una vita felice. Un mondo statico, in cui non esiste possibilità di cambiamento perché all'uomo non è consentito di pensare. Un efficiente corpo di “pompieri-incendiari”, guidato dal capitano Betty e dal “Segugio meccanico”, agisce con violenza e brutalità, uccidendo e massacrando tutti gli oppositori, pur di raggiungere la propria missione: eliminare ogni forma di conoscenza. Sin dalle prime pagine si nota come questi militi del fuoco siano dei meri fantocci, apparentemente felici, ma circondati da una profonda solitudine. Come marionette, bombardati dalla pubblicità, da talk show televisivi e programmi disinformativi, finiscono per essere ridotti a esseri non-pensanti, superficiali, incapaci di distinguere il confine tra realtà e finzione.
La stessa esistenza di Montag, in apparenza appagante di fronte alla sensazione di potere e di controllo che esercita – bruciare i libri e le case che li contengono - si rivela mediocre e superficiale. Montag viene incanalato in un sistema perverso in cui coloro che si oppongono a quelli che vogliono rendere ogni altro infelice con teorie e ideologie contraddittorie, viene di fatto considerato diverso e per questo escluso dalla società.
È Clarisse, una ragazza normalissima per i nostri tempi (ma anomala per quelli del romanzo) ad aprire la mente di Guy Montag. Amante della vita, dotata di una spiccata ratio e volenterosa di aiutare e ascoltare il prossimo, la giovane ragazza incarna il prototipo di vita che vorrebbe vivere il protagonista (possibile solo in un mondo utopico considerato il suo passato come milite del fuoco). Clarisse rappresenta l'altra faccia della medaglia, incarna tutto quello che Guy Montag avrebbe potuto essere e che invece gli è stato impedito dalla mentalità distopica del governo. Se da una parte la televisione e la radio finiscono per recidere i legami spontanei tra Montag e Miltred, dall'altra è proprio Clarisse a esercitare sul protagonista una forte fonte di attrazione verso il suo mondo «Stare con la gente è una cosa bellissima. Ma non mi sembra sociale riunire un mucchio di gente, per poi non lasciarla parlare, non sembra anche a voi? [...] Oh, parlerà pure di qualche cosa, la gente! No , vi assicuro. Parla di una gran quantità di automobili, parla di vestiti e di piscine e dice che sono una meraviglia! Ma non fanno tutti che dire le stesse cose e nessuno dice qualcosa di diverso dagli altri».
Oltre a Clarisse, fondamentale per lo sviluppo positivo del personaggio (da milite a custode di libri), bisogna tenere a mente la scena in cui l'anziana mano ossuta della donna sfila uno zolfanello, muove la bocca ripetendo bei versi muti, pianta gli occhi velati nelle pupille dei suoi aguzzini e, accendendo la piccola fiamma, sancisce " Non avrete mai i miei libri. Io voglio restare qui."
In un modo o nell'altro, non li hanno avuti. Un episodio, questo, che getta nello sconforto lo stesso Montag, non più convinto delle sue azioni. Per la prima volta Guy si sente diverso, vorrebbe essere un pompiere pronto a spegnere l'incendio, e non un milite che sgorga il cherosene sulle pagine oscene di Shakespeare, di Dante, di Byron e di altri illustri scrittori.
Immagini tratte da:
Mr Thompson's Webquests ![]()
Robert Neville è l'unico uomo rimasto sulla Terra.
Nel 1976 una misteriosa epidemia ha falcidiato la popolazione mondiale. I contagiati sono mutati in vampiri, creature feroci e costantemente alla ricerca di sangue per sopravvivere. Riempiono le strade, di notte, in cerca di vittime; ma durante il giorno, quando non sono in grado di muoversi e piombano in un sonno irreale, è Robert Neville a dare loro la caccia. Misteriosamente immune alla malattia che ha messo fine alla civiltà, Robert ha perso la sua famiglia, e sopravvive conducendo una vita monotona, fatta di routine sempre uguali. Di giorno percorre le strade deserte di Los Angeles, raccogliendo cibo e uccidendo i vampiri che scova nelle case ormai abbandonate. Al tramonto ritorna nella sua casa, si barrica dentro e sbarra le finestre. Aspetta che la notte passi, mentre fuori dalla sua porta i vampiri si affollano aspettando che esca e urlando il suo nome. Finché non decide di cercare di capire meglio cosa è successo, lavorando ad una cura che possa salvare i vampiri. E forse, scoprirà che non è così solo come ha sempre pensato. Io sono leggenda è ormai un classico della fantascienza. Pubblicato per la prima volta nel 1954, come tutte le grandi opere rimane sempre attuale e interessante. Richard Matheson (autore che ha ispirato una generazione di scrittori americani, fra cui Stephen King, e sceneggiatore di molti film di successo) era partito dall'idea di voler ribaltare lo scenario di Dracula. Se nell'opera di Bram Stoker si parlava di un unico vampiro in un mondo di umani, Matheson stravolge completamente il punto di vista: Io sono leggenda è la storia dell'unico umano in un mondo abitato solamente da vampiri. Scordatevi anche le atmosfere da romanzo gotico: la componente soprannaturale tanto cara alle storie di vampiri scompare completamente nell'opera di Matheson, per fare spazio ad una rilettura in chiave scientifico-psicologica dell'origine dell'epidemia. La storia di Io sono leggenda è raccontata dal punto di vista di Robert Neville. Si tratta di un personaggio tragico, e interessante. Un uomo che nonostante tutto combatte per andare avanti in un mondo in cui non è rimasto nulla per cui vivere. Se Neville ha accesso a tutti i bisogni primari (cibo, una casa, una relativa sicurezza), Matheson si concentra nel mostrarci la lotta interiore che egli deve sopportare tutti i giorni: una lotta contro la solitudine, la noia, il vivere senza nessuna prospettiva e nessuno scopo, e contro il pericolo che si nasconde sul fondo di un bicchiere di whisky. C'è poca azione in Io sono leggenda, ma molto su cui riflettere. L'atmosfera che si respira leggendo l'opera di Matheson è opprimente, carica di una tensione latente che spinge a macinare le pagine. Si immaginano le assolate strade vuote e il silenzio irreale di una città abbandonata; si lascia trapelare il ricordo dell'inferno in cui si è dibattuta l'umanità morente nei suoi ultimi giorni, prima che il mondo fosse invaso dai vampiri; si descrive la solitudine e l'apparente banalità della vita dell'ultimo uomo. La parte finale del libro è forse la più interessante e riuscita. Matheson introduce a poco a poco una prospettiva nuova, rovescia le carte in tavola portando il lettore a chiedersi cosa sia, davvero, quella che noi consideriamo come "normalità". Io sono leggenda fa quello che solo la fantascienza di qualità riesce a fare. Ci mette di fronte ai limiti e alle contraddizioni dell'essere umano, aiutandoci a capire e, a volte, ripensare, il nostro posto nell'universo.
immagini tratte da
- http://www.imdb.com/name/nm0558577/ - http://www.blackmailmag.com/Richard_Matheson.htm
Ho conosciuto la storia di Dacia Maraini nell'autunno del 2014, durante il Pisa Book Festival che la vedeva nelle vesti di madrina d'onore della sua tredicesima edizione. In quell'occasione, la poetessa nata a Fiesole il 13 novembre del 1936 presentava un suo ennesimo romanzo, dal titolo "Chiara d'Assisi. Elogio della disobbedienza", ma più che parlare del libro in sè, fu un'affascinante panoramica sulla sua infanzia e adolescenza a conquistare me e credo molti altri membri del ricco pubblico presente in sala. Gli anni durissimi in cui fu internata con i suoi familiari nel campo di concentramento giapponese di Sapporo, il ritorno in Sicilia nella prigione d'oro per uno spirito libero e assetato di cultura che anni dopo si sarebbe imposta come una delle più grandi scrittrici di sempre. E avrebbe vinto il Premio Strega nel 1999 con "La lunga vita di Marianna Ucria", opera ispiratale proprio dalla difficile prima parte della sua vita.
Ti ho fatto aspettare 78 anni per conoscerti, meno di un minuto per stimarti, donna incorreggibile e senza tempo. Le docili colline di Fiesole hanno bollito per te il latte primigenio tra gli avori delle dinastie da cui provengono la tenacia, il talento e il catartico fervore di portare la passione italiana attorno al globo. A mezzo fiato attorno a poco piu' di 700 giornate in cui avevi potuto farti un' idea del mondo, sei arrivata per colpa dell'ombra fascista nel Giappone piu' nero di quanto si immaginasse, dentro una Sapporo raggelante. Campi di lavoro a mandorla propinati dietro a un no orgoglioso di mamma e papa' all'ultima indigestione disperata di Benito, disciogliendosi dopo il 25 del primo Aprile sotto i raggi perturbanti di un bruciore siciliano che mai piu' ti ha abbandonato. Decine di mattanze e nodi al collo bigotti soffocavano l'intensa libertà che inseguivi nel fiore della puberta'. La tua Bagheria bagnata dal sudore delle mani della Marianna Ucria che non piu' sei riuscita a far finta di considerare un'altra da te, e in mezzo la grinta rabbiosa di chi sente morire la sua nazione e i suoi artigiani in deriva spaventosa.
Immagini tratte da www.pinterest.com
|
Details
Archivi
Maggio 2023
Categorie |