Banana Yoshimoto è una scrittrice giapponese; e Banana è il nome di penna, pseudonimo di Mahoko, che dice di aver scelto solo per la bellezza dei fiori rossi rossi del bijinshō, detto anche red banana flower. Yoshimoto rientra negli scrittori post anni 60, che riescono a rendere con le loro opere letterarie la sensibilità delle nuove generazioni, che propongono in rivisitazione letteraria il mosaico di stili ed influenze che agiscono, plasmano chi vive della e nella contemporaneità: dal cinema, al manga, alla televisione; con i temi dell’amore, della morte e della solitudine che si riaffacciano pretendenti della prima linea. Il suo esordio in Italia coincide con il 1991 quando Feltrinelli pubblicò "Kitchen", il suo romanzo di esordio, uscito in Giappone nel 1988. Un romanzo che parla di una vita, quella di Mikage. Una vita che non l’ha risparmiata da perdite e dolori, una vita che sembra essere finita ancor prima di poter aver avuto la parvenza di averla compresa. Mikage, la protagonista, ci guida attraverso il racconto con solo il suo punto di vista,intermittente tra velate, dolci riscoperte e dolori atroci, mal compresi nel loro essersi verificati. Una storia di solitudine, a cui si accompagnano eventi, persone, incontri di anime; legate insieme dall’amore e dalla curiosità per la cucina, inteso come luogo caricato di un simbolismo tutto personale, di calore, di svelamento e condivisione di esistenze: luogo da vivere e da far vivere. Ed è dalla cucina che Mikage si sceglie la nuova famiglia, con Yūichi, rimedio che spaventa per l’instabilità delle reazioni ma che salva per il sentimento reciproco, e sua madre padre Eriko. Una nuova famiglia, un finale tutt’altro che lieto. E’ una storia triste, di una tristezza sconvolgente mitigata dall’aura quasi fantastica, inverosimile, sprigionata dai pensieri e da alcuni avvenimenti. E’ una storia da leggere, da scoprire senza anticipazioni di sorta; se non l’importanza del costruire la propria realtà e il proprio modo per andare avanti; la centralità delle emozioni che non lasciano spazio alla realtà, perché sono la realtà, ne rappresentano lo squilibrio, in una sovversione della tradizione che le vuole solo iperbolate, superflue, infime devianti della razionalità umana, associate rispettivamente a femminilità e mascolinità. Ma ecco che anche questo si perde nella rielaborazione dello stile dei fumetti manga per ragazze (shōjo manga), in cui il convenzionale si tramuta in stendardo di novità, cambiamento; sublime deposito di ciò che deve essere compreso e sperimentato mantenendolo lontano per non soffrire, ma solo per spiegarsi la vita. Il romanzo ripercorre le sofferenze cui i protagonisti sono stati amaramente spettatori dal ruolo inerme e passivo, le quali sono fronteggiate con l’indennità come premio finale, con la riconquista di ciò che sembrava perduto davanti alla paura, al timore e alla sofferenza; davanti alla perplessità di non aver fatto niente per poter cambiare le cose, perché nessuno pensa mai che le tragedie possano accadere all’improvviso. Lo sappiamo, della loro esistenza, ma pensiamo che passino leggere lontano da noi, facendoci percepire se non la loro eco di notizia; non ci pensiamo, soprattutto nella giovane età. Non ci pensiamo davvero finché non capita. Come a Mikage. E allora il malessere si ripercuote sull’ordinario delle cose, sulla quotidianità, sulla persona e le sue certezze, in un limbo di aspettative annullate, di speranze ormai disdegnate. E’ percepibile nel libro l’influenza del cinema e del manga, la suddivisione in scene, precise, dai risvolti visivi e sensoriali; coniugate però a un registro più letterario; quello dell’impressione, dell’attimo che mai si ripete in egual modo, del momento. Un grappolo di frasi slegate che si rincorrono punto dopo punto, in una velocità metodica che lascia la descrizione ai luoghi, agli oggetti, all’ambiente e ai personaggi stessi. Sono i protagonisti che si esplicano; nel loro agire, nel loro reinventarsi, in un mondo fantastico per la mancanza della solitamente preponderante logica, che diventa quella personale delle emozioni. Emozioni non lineari che guidano la narrazione, rendendola appunto disconnessa, cumulativa, sovrapposta; proprio come accade nella vita, dove spesso le emozioni si duplicano, si scontrano, si accavallano, si presentano contemporaneamente e si rivelano nel più disparato modo, anche con il più semplice pretesto. "Kitchen" è un modo per andare avanti, un luogo a cui aggrapparsi e costruire da zero, un token a cui affibbiare significati e attribuire gioie e dolori, un luogo a cui legarsi in ogni dove, per ritrovare sempre un qualcosa un pò ovunque e per questo non sentirsi mai soli abbastanza. Il tema della famiglia, intesa anche e soprattutto come scelta, affinità, e il nuovo rapporto uomo donna, sempre meno definiti in rigidi schemi convenzionali di mascolinità o ristrettezza nelle azioni permesse o aspettate nelle donne si mescolano al fantastico e al convenzionale, alla storia; e la rendono nuova, libera di essere e di osare; come le nuove generazioni stanno cercando Un libro quindi che si collega a tematiche contemporanee di una certa rilevanza, che stanno sconquassando logore credenze e cambiando la vita di tutti noi, unite alla sofferenza che esiste, in plurime forme, a cui ognuno reagisce costruendo una realtà diversa quante sono le persone che la pensano, che la cercano per sopravvivere, per dare senso, una spiegazione a ciò che è stato, è e sarà. E la vita, seppur per poco, può tornare a sembrare speciale, in compagnia di anime giuste, di occhi gentili ed eventi straorinari nella semplicità del benessere che portano, che riescono fugaci a far allontanare, anche di poco, la solitudine. Una solitudine che rifugge dal dolore del ricordo ma che al tempo stesso da quest’ultimo trae sostanza, in un sentimento di dolce nostalgia e straziante lucidità del non ritorno. La vita procede grazie a questa costruzione incessante, di regressione quasi all’infanzia, nella ferma gentilezza del vivere e perdonare, soffrire e riprendersi dei bambini. Costruire una nuova realtà in cui tornare ad abitare, ogni volta, e che sarà sempre diversa, così come ci attende e si aspetta che siamo, cambiati. E poco importa di quale colore siano i mattoni o le pietre che usiamo per ricostruire, l’importante è che continuiamo a farlo per alleggerire il peso schiacciante del dolore, l’oppressione più subdola della scontentezza, la più profonda tristezza. Un falso disincanto dall’orrore, poiché la vita procede: tentativo dopo tentativo; alla ricerca di un’immaginazione, più potente della realtà, a cui aggrapparsi, sia questa scaturita da un sorriso, un ponte, una borraccia, un pasto, una cucina.
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Màrquez e il disarmo dell’amore di Cristiana Ceccarelli Una volta denominato come “il più grande colombiano mai vissuto”, Gabriel García Màrquez ha definito, con le sue opere, il genere del realismo magico ed è considerato uno dei più grandi romanzieri mai esistiti. Primogenito di 16 fratelli nacque nel 1927 ad Aracataca e, dopo il trasferimento a Riohacha,crebbe con il nonno, colonnello liberale, e la nonna, grande conoscitrice di fiabe e leggende locali, materni. Nel 1948 abbandonò gli studi di giurisprudenza, un po’ come i grandi poeti e scrittori del passato, per intraprendere la carriera giornalistica; e dopo un decennio, segnato da viaggi in Europa e sud America, iniziò ad affermarsi come scrittore, raggiungendo velocemente fama internazionale. Grazie ai suoi romanzi fu acclamato anche in America, nonostante le tensioni politiche e la sua vicinanza a Fidel Castro, e non ci furono infatti muri o barriere che il suo talento non riuscì a sorvolare. Vincitore del premio Nobel nel 1982, il suo romanzo più famoso Cent'anni di solitudine è stato votato, nel 2007, come seconda opera in lingua spagnola più importante mai scritta, preceduta solo da Don Chisciotte della Mancia di M. Cervantes. Un realismo magico dunque, dove il reale si lega all’immaginario, alla leggenda, alle storie fantastiche di altri tempi, in un connubio dai bordi sfumati, in cui il lettore non si convince dell’impossibilità di alcuni tratti, che invece contribuiscono a rendere la vita un po’ più romanzata, fiabesca, più colorita insomma. Un immaginario che si accompagna ad allegorie e simbolismi, che si fa portatore di aspetti iperbolici a cui la realtà non renderebbe giustizia nella spiegazione. E non c’è modo migliore di rendere questa sfumatura, questa mescolanza, questa magia se non con l’amore, di per sé appartenente a un mondo che non è il nostro, ma che nel nostro riesce comunque sempre a incastrarsi e incastrarci; rimanendo inspiegabile certo, ma vivibile: come in un sogno da svegli, come in un incubo realistico, come un’entità superiore che a volte si manifesta nei modi più inaspettati. Ed è l’amore, insieme all’amara ironia, a rappresentare il fil rouge delle scrittore latinoamericano; che coniugati all’aspetto magico lasciano gli occhi e il cuore attoniti in presenza di alcuni passaggi. Il romanzo Dell’amore e di altri demoni, pubblicato nel 1994, nasce da un evento a cui lo scrittore dice di aver assistito agli albori della sua carriera giornalistica; come ci rivela nell’introduzione del libro. Era il 26 Ottobre del 1949, e anche il caporedattore aveva faticato nel trovare suggerimenti per gli articoli giornalieri quando una telefonata improvvisa lo informò dello svuotamento delle cripte funerarie dell’antico convento di Santa Clara. Un giovane Màrquez si recò quindi al convento delle clarisse, e assistette, alquanto stupito dalla primordialità del metodo, allo sventramento delle fosse e delle tombe per il recupero delle ossa, con il capomastro che le suddivideva in mucchietti separati per non confonderle, e copiava diligentemente i dati leggibili sulle lapidi. Così fino alla terza nicchia dell’altare maggiore, dove a sorprendere tutti, dopo il primo colpo di zappa, fu una cascata color rame, una chioma lunga ventidue metri e undici centimetri fuoriuscita dalla cripta, appartenuta, così diceva la lapide,a Sierva María de Todos los Angeles. Il capomastro intentò una spiegazione scientifica ma il giovane giornalista altro non riusciva a pensare che alla storia della marchesina dodicenne, dai lunghi capelli e morta di rabbia, che sua nonna gli aveva raccontato. Ecco allora che quella che fu la notizia del giorno, diventò anni dopo la leggenda del romanzo. Un romanzo in sospeso nel bilico della trama tessuta con sapiente maestria, ricamata tra realtà e fantasia; una combinazione di elementi contrastanti dall’aura leggendaria misti a racconti di eventi lontani, passati, confermati nella loro storicità, ma che a ben riflettere continuano a essere attuali: le differenze sociali e culturali, le credenze che influenzano la personalità individuale e collettiva, l’allontanamento e la stigmatizzazione di ciò che ci resta incompreso, la paura e la crudeltà nei confronti del diverso. Questo romanzo ci porta alla cruda scoperta delle diversità e del loro immancabile contrasto, in un tripudio di esoticità descrittiva e di ambientazione che ospita la storia della piccola Sierva María , rinnegata dagli stessi genitori, il marchese Casalduero e la seconda moglie Bernarda, disdegnata da quest’ultimi in modo inconcepibile, straziante, che lascia il cuore in sospeso, interrogato da quesiti a cui non vogliamo esser capaci di rispondere. Una bambina cresciuta dagli schiavi servi del padre, cresciuta fuori casa nelle baracche, tra danze e lingue africane, notti sulle amache e collane votive. Siamo in una città portuale dove approdano i galeoni carichi di schiavi dall’Africa, dove la conversione al Cristianesimo si rivela nell’ aspetto coercitivo della Chiesa. Un’antichità a volte difficile da comprendere per la sua pesantezza di vergogna e colpe, mitigata però dalla magia delle caratteristiche che alleggeriscono il carico, lo rendono quasi fantastico nella possibilità del suo non essere avvenuto. Morsa da un cane malato di rabbia, Sierva María non sembra presentare i sintomi del contagio, ma la scoperta dell’evento da parte del padre scaturisce in lui un affetto tardivo, che lo spingerà al goffo approccio con la figlia e alla consultazione di medici che con le loro strambe ed inesatte pratiche la porteranno a un dolore che non aveva. I suoi comportamenti più “selvaggi” vengono scambiati per rabbia e la giusta ribellione agli eventi imposti come “un’inequivocabile possessione demoniaca”, e a niente servono i giudizi di Abrenuncio, medico portoghese ritenuto negromante, a niente serve che lui dica che “non c’è medicina che guarisca quel che non guarisce la felicità”, la bambina sarà giudicata posseduta dal vescovo del luogo, secondo le regole del Sant’Uffizio. Chiusa quindi nelle segrete del convento, si manifestano in torno a lei fenomeni “inspiegabili” ed eventi meravigliosi, la cui vittima sarà proprio chi doveva liberarla, il giovane sacerdote Cayetano Delaura, che non la crede posseduta se non di una bellezza e personalità disarmanti. Ecco che da una sventurata vicenda nasce il più struggente amore, che sconfigge la paura dell’Inquisizione e della forca, che non lascia spazio nemmeno alla paura, alla differenza di età, alla distanza. Nasce un amore intenso e carico delle sofferenze altrui, mai esposte fino in fondo; un amore che non chiede e pretende la perfezione delle amine, ma che, al contrario, ne esalta le contraddizioni, le sfumature. Un amore che si mescola alla sofferenza più vera, che svela gli aspetti più controversi e che superando questi non si stacca, persiste, per sempre, proprio perché divino ma al tempo stesso così terribilmente umano. Un amore dolce e onesto negli intenti, proibito e voluto, irresistibile. Un amore complesso in una storia semplice. E se esiste un demonio quello è l’amore, demoniaco nella potenza dei suoi effetti, nella profanazione della ragione. E’il demonio che non può essere sconfitto, nemmeno con il più potente degli esorcismi. L’unico rimedio è abbandonarsi alla sua guarigione, perché nessuna medicina può guarire come la felicità. Immagini tratte da: Immagine 1 da https://goo.gl/images/KA4AnE Immagine 2 da foto dell'autore di Lorenzo Vanni Nel corso del Duemila si sono posti all’attenzione dei lettori numerosi romanzi accomunati da un medesimo tema, ossia l’identità. Si tratta evidentemente di una crisi dovuta all’incapacità di riconoscersi in una società sempre più mutevole; da un lato, la globalizzazione e la familiarizzazione con gli altri più diversi da noi, dall’altro lato i progressi della scienza che mettono sempre più in dubbio la centralità dell’uomo nell’universo paventando talvolta la sua sostituzione attraverso l’intelligenza artificiale. Due temi opposti affrontati da romanzi inglesi candidati a essere i prossimi classici, come Denti Bianchi (2000) di Zadie Smith e Non Lasciarmi (2004) di Kazuo Ishiguro.
Il primo in particolar modo fa parte di una serie di romanzi che si stanno facendo centrali nel dibattito culturale se non altro perché pongono in primo piano i problemi delle minoranze; nel caso di Smith è una minoranza etnica, ma nel caso di Alan Hollinghurst (un nome per tutti) è una minoranza sessuale (La Linea della Bellezza è senza dubbio uno dei romanzi imprescindibili degli Anni Zero). Vale la stessa indicazione anche per Ladra (2002), romanzo di Sarah Waters, che infatti è interessata alle questioni che riguardano la comunità omosessuale femminile. Se volessimo inquadrarlo come genere potremmo dire che si tratta di un romanzo storico ambientato nel 1862 in piena epoca vittoriana basato sull’alternanza di punti di vista: la trama è raccontata seguendo le vicissitudini delle due protagoniste che alternano i rispettivi racconti. I modelli letterari di riferimento sono piuttosto evidenti: un incrocio tra il Dickens di Oliver Twist (1837) e la Bronte di Jane Eyre (1847), a cui si aggiungono stilemi tipici del classico melodramma vittoriano. La trama vede l’orfana Susan Trinder, nata in un quartiere malfamato fuori Londra in una famiglia adottiva di ladruncoli, venire convinta da Gentleman, soprannome di Richard Rivers e ladro a sua volta, a fingere di essere una cameriera di Londra per andare al servizio di Maud Lilly, giovane ereditiera a cui spetterà tutto il denaro una volta sposata. Gentleman vuole che Susan lo aiuti a sedurre Maud cosicché si possano sposare e la ragazza possa ereditare la somma; a quel punto Gentleman con un pretesto la farà rinchiudere in manicomio, e lui e Susan potranno godersi il denaro. Questa accennata è solo la trama di partenza perché il racconto si complica attraverso il ricorso a più punti di vista e l’introduzione della tematica omosessuale. Le due ragazze, quasi coetanee, finiscono per innamorarsi l’una dell’altra e tentano alla fine di opporsi a Gentleman. Questo significa che ai modelli di partenza precedentemente individuati e più immediati si deve aggiungere un particolare, ossia che questo romanzo si inserisce in un filone di narrativa femminista che rilegge i classici del passato (in questo caso, i romanzi vittoriani) in un'ottica che rovesci l’impostazione che tutti conosciamo. Da un rapporto uomo-donna passiamo ad un rapporto donna-donna, con la consapevolezza tuttavia che la situazione di subalternità in cui si trovava nell’Ottocento porta necessariamente ad assumere posizioni inedite. Questa rilettura dei classici ottocenteschi non si inserisce solo nell’attuale moda inglese del Neo-Vittorianesimo, ma è un esito dei gender studies, in particolare quelli che vedono l’identità sessuale come costruita culturalmente; semplificando, se si nasce in una società patriarcale omofoba, sarà anche lo stesso soggetto a reprimere la propria omosessualità per timore di essere marginalizzato. Dipende tutto dal tipo di narrazione che trasmettiamo alle diverse generazioni. I classici sono basati su esempi patriarcali in cui l’omosessualità non esiste, se non leggendo tra le righe, e le donne sono molto spesso personaggi svantaggiati nei romanzi scritti da uomini. Sarah Waters rielabora il passato e cerca di fornire una nuova narrazione per il nuovo secolo. Si può dire che se in Inghilterra c’è stato un risveglio delle coscienze su questo tema è stato anche grazie ai romanzi di questa autrice. Da questo libro è stato tratto un film ambientato in Corea negli anni Trenta, Mademoiselle, diretto da Park Chan-wook nel 2016. Poe: il reale del reale di Cristiana Ceccarelli Non tutti sanno che Allan, il cognome che precede quello ereditato dai genitori, Poe, deve la sua antecedenza all’adozione da parte del signor John Allan del piccolo Edgar, dopo la morte prematura della madre e la scomparsa del padre. Edgar Allan Poe, orfano dall’infanzia, è stato poeta, editore, spietato critico letterario ma soprattutto uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, a cui si deve il primo poliziesco della storia con I delitti della Rue Morgue; nonché primo scrittore di mestiere, per questo sempre (e purtroppo) in difficoltà economiche. La vita dello scrittore e poeta statunitense è stata tormentata, segnata da eventi dalla lama affilata che lasciarono ferite mai sanate nel suo animo e ne turbarono la personalità; da queste la sua insofferenza per e nell’esistenza: attraversarla e non poterne fare a meno, vivendola seppur odiandola con l’incessante paura della morte . Il peso schiacciante della solitudine, le poche gioie dovute all’amore strappate dalla morte della moglie, la famiglia negata, gli incontri impediti, segnarono profondamente il poeta e in qualche modo ne influenzarono la scrittura, ne diventarono l’ossatura, scheletrica, ne condizionarono il portamento, la direzione. A questo, come concausa e rimedio, si aggiunse l’alcol, di cui divenne fedele seguace. Si invertì quindi la proporzione delle condizioni quotidiane, che divennero offuscamento intervallato da sporadici momenti di spaventosa lucidità. Le tesi sono contrastanti, c’è chi parla di alcolismo come condizione degli ultimi anni di vita, chi ne suggerisce l’abuso fin dai tempi universitari, chi insinua anche il consumo di droghe, e chi, infine, trova in questo la causa della sua morte a soli 40 anni; il 7 ottobre del 1849. Le critiche dopo la morte per il suo stile di vita, unite ai capolavori dalle tematiche ambigue e misteriose, non riuscirono a infangare il suo nome, ma al contrario, contribuirono a creare quello che ancora oggi è il mito del poeta e scrittore maledetto. Negli abissi della propria condizione però, l’inconscio iniziò a emergere con sempre più prepotenza, inizialmente a confondere il reale per poi invece rivendicarne il primato, rendendo il reale una condizione chiara nelle sue fattezze ma non ben definita nella portata della sua veridicità. L’irreale, o meglio, ciò che non ci è dato sempre scoprire e sapere, prese il posto della realtà. Il sogno diventò quotidianità, tanto da indurre Poe a raccontare un viaggio fatto in Russia, in realtà mai avvenuto, che fece cadere in inganno anche Baudelaire, altro ammirevole poeta, che lo scoprì dopo la morte e per cui subito provò “una certa simpatia”, e che di lui fu biografo e traduttore, al punto da farlo diventare “un grande uomo per la Francia”. Poe in realtà conobbe la celebrità in vita, ma non l’apice e non con l’intensità e la comprensione di cui è meritevole, e la raggiunse con la portata innovativa e disarmante dei suoi racconti; racconti del terrore nei quali la presenza dell’occulto, del misterioso, dell’istintuale, del fugace, del malvagio, del profondo e nascosto regna sovrana. Il gatto nero è proprio uno di questi racconti, forse il più famoso, pubblicato per la prima volta nel 1843 e tratto dalla raccolta dei Racconti del terrore. Poe ci confida nelle prime righe l’intento per cui si è cimentato, non lui ma il protagonista del racconto, nella stesura per iscritto della catena degli avvenimenti; eventi stranissimi che gi hanno causato solo orrore, talmente inverosimili che non avrebbe quasi potuto prestare fede ai propri sensi se non fosse stato sicuro di non star semplicemente sognando. La narrazione in prima persona e la focalizzazione interna ci portano subito al livello del protagonista, ci fanno sentire partecipi, anche se dobbiamo aspettare che sia lui a svelarci le informazioni su se stesso, in un tono che verte quasi sul confidenziale, a volte un sussurro a volte un eccesso di follia concitante. La presentazione in racconto scritto e non orale potrebbe quasi essere vista come un avvertimento al lettore per cui la trasposizione scritta, rispetto all’immediatezza orale, potrebbe esser stata soggetta a modifiche, volute omissioni, deviazioni per la possibilità del narratore di rileggersi, schermarsi o giustificarsi. Ma non sembra questo il caso, anzi, sembra quasi che la possibilità non colta della modifica e menzogna vada ad avvalorare ciò che ci viene raccontato, a prendere ciò che è stato fatto per quello che è, per quello che è scritto, con il supporto del non senso di colpa, del non voler spiegar niente. Ciò che lui vuole tra sogno e realtà, tra simbolismi e fattività è il solo liberarsi l’anima. A questa storia di un uomo buono che diventa, con l’alcol che interpreta la parte dell’ inseparabile compagno, un contenitore di pura recalcitrante malvagità, che vede vittima prima l’amato gatto e poi la sfortunata moglie, con la comparsa di un secondo gatto nero che sembra voler far decidere le sorti del narratore e della vicenda, possiamo rivolgerci con orrore o con il senso del grottesco, che sorgono come dipendenti variabili dell’individuo che si pone alla lettura. Ciò che viene descritto è la visione disincantata, seppur offuscata dall’alcol, della realtà. Una realtà popolata da uomini intrinsecamente malvagi, questa la convinzione dello scrittore Poe, che tutti non riescono o non vogliono vedere, accettare come vera. Abbiamo un’umanità denudata dai suoi più positivi valori, dai simulacri costruiti nel tempo a soppressione della vera natura, abbiamo un disincanto e un’acutezza visionaria a cui pochi hanno la sfortuna di dover necessariamente assistere, senza la liberazione di un cieco rifugio. Leggere questo racconto è come credere che ciò che di buono sembri esistere, è dovuto agli sforzi dell’essere umano nel relegare il male che gli appartiene in un piccolo scrigno dell’anima, con le mille serrature per le altrettante tentazioni e deviazioni che la vita pone sul cammino; le cui chiavi sono gettate lontano, per la paura del desiderio di volerle prendere per cedervi. Ma poi accade che il consumo di una qualche sostanza inibisce l’uomo, distrugge i suoi freni, lo spoglia dei trattenimenti autoimposti così faticosamente stratificati; arriva un qualcosa capace di, in pochi momenti, svelarne la vera essenza, l’insospettabile e temuta natura, che si presenta a quel punto in tutta la sua potenza, forte e irritata degli anni da prigioniera. L’alcol permette e nega; permette all’ignobile essenza dell’animo di sgorgare tra la fessure di una costruita razionalità autoimposta e nega il temporaneo ricordo, con la volatile dimenticanza non della malvagità ma dell’attuazione di quest’ultima. Il simbolico aiuta a mantenere intatta appunto questa costruzione, per non scandalizzare, o smontare del tutto, coloro che si son così ben celati nell’artifizio, chiudendo dentro di sé la paura della verità e costruendo per questo tra loro e quest’ultimo una quotidianità fasulla; riproposta qui nelle figura del gatto e del valore simbolico attribuitigli, che fa da catalizzatore e capro espiatorio delle colpe. La malvagità se immune dal rimorso e dal sentimentalismo non lo è dalla colpa, che si manifesta, sempre, perentoria nel riscatto di ciò che non è stato represso con dovizia. E’ il gatto, ricordo e depositario della colpa, a dimostrare quella del protagonista, con un lamento uscito dall’inferno, un luogo a cui il protagonista sa di appartenere. Immagini dell'autore: - Immagine 1 Pubblico dominio https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1624160 - Immagine 2 By Aubrey Beardsley (1872 - 1898) - Aubrey Beardsley, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=188016 |
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Febbraio 2023
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