di Lorenzo Vanni Qual è l’origine della creazione? Quali sono le emozioni profonde che portano un autore a diventare grande e a scrivere il suo capolavoro? Una risposta univoca non c’è. Ci sono invece eventi diversi, gioiosi o dolorosi, che incidono in modo significativo sulla psiche di una persona determinando quelle che saranno le sue azioni future. Questo perché ogni grande autore di cui oggi ricordiamo il nome non è mai stato solo le sue opere, ma è stato anche la sua vita e i suoi affetti. Vogliamo razionalizzare il tutto e individuare una sorta di logica divina di cui viene infuso il suddetto autore al momento della creazione e in cui il suo potenziale si esprime appieno, ma la realtà, per disgrazia o per fortuna, è un’altra. Ognuno di noi è un fascio di nervi continuamente stimolati e continuamente reattivi al mondo. I poeti, i drammaturghi, i romanzieri non fanno eccezione; hanno in più la loro arte che permette di dare forma fisica e razionale al dolore (o alla gioia). Mentre vivono, però, sono uomini e donne e soggetti come tutti alle leggi della natura. Il romanzo che ha scritto Maggie O’Farrell, irlandese classe ’72, si concentra su un aspetto intimo e domestico della vita di Shakespeare, o per meglio dire, della sua famiglia: il titolo italiano è Nel nome del figlio. Hamnet, in cui quell’Hamnet che nell’originale inglese è il titolo vero e proprio diventa in italiano il sottotitolo probabilmente a causa della scarsa o nulla familiarità del lettore italiano con il celebre figlio di William Shakespeare morto a undici anni nel 1596 di peste. Il titolo è invece didascalico, ossia spiega senza rivelare chi sia Hamnet. Il bambino è conosciuto nella letteratura inglese principalmente perché il suo nome è una variazione di Hamlet, ossia il nome del protagonista eponimo dell’Amleto shakespeariano (Hamlet, appunto). Conclusione: Shakespeare ha scritto la sua tragedia ispirato dalla morte del figlio. La storia della famiglia di Shakespeare viene raccontata dalla prospettiva della moglie Anne, o, come più verosimilmente si chiamava, Agnes. Viene ripercorsa quindi la vita di Shakespeare precedente al loro incontro, e da quel momento in poi vengono adottati gli occhi di Agnes, il rapporto a dir poco burrascoso con la matrigna e la vita successiva da sposata a Straford-on-Avon in quella stessa Henley Street dove abitava il Bardo. La sua storia passata si intreccia con quella presente: la figlia Judith è ammalata di peste e tutti sono pronti all’eventualità (per molti una certezza) che non sopravviva. Quanto a William Shakespeare, non è molto presente. Ogni volta che è necessario parlare di lui lo si fa sempre attraverso perifrasi: inizialmente è il “precettore di latino”, poi “il marito”. Il suo nome non viene mai fatto esplicitamente. Le donne e i bambini e i membri della famiglia hanno tutti un nome proprio, ma non William. Questo è ovviamente funzionale allo scopo del romanzo: spostare il focus dall’autore che tutti conoscono benissimo alla famiglia che invece è sconosciuta e rimossa dalla storia della letteratura. L’abitazione di Henley Street è affollata: qui si trovano i genitori e i nonni del marito a cui si aggiungono i due figli. Si capisce quale sia l’intento dell’autrice: mettere in luce il ruolo tutt’altro che marginale delle donne nella vita famigliare della coppia Shakespeare. Il difetto di questa operazione è che così facendo il testo diventa anonimo proprio perché le vicende narrate non sono esemplificative di un certo tipo di cultura e non danno neanche un ritratto storico di un ambiente: la storia è ambientata nella seconda metà del Cinquecento, ma non c’è niente nel testo che descriva l’epoca, e l’unico elemento più vivo della vicenda, Shakespeare, viene ammutolito per dare voce ad altri. Indubbiamente l’intento è meritorio, con qualche spruzzo di femminismo qua e là, ma il risultato è al di sotto delle aspettative. Immagini tratte da:
https://www.theguardian.com/books/2020/dec/02/maggie-ofarrell-hamnet-waterstones-book-of-the-year https://www.amazon.it/Nel-nome-del-figlio-Hamnet/dp/8823525691
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di Tommaso Dal Monte Il viaggio ultraterreno di Dante si sviluppa su un asse di completa verticalità: prima la discesa nell’inferno, poi l’ascesa purgatoriale e paradisiaca che si conclude con l’arrivo a Dio. Il moto spaziale, verso l’alto e il basso, corrisponde in via allegorica ad un percorso spirituale compiuto dal pellegrino, il quale, attraverso l’esperienza della pena, della redenzione e della beatitudine, indica, a tutti come a se stesso, un modello di vita per raggiungere la salvezza. Le tappe di questo cammino sono indicate già da Virgilio nel Canto I della Commedia: «Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno | che tu mi segui, e io sarò tua guida, | e trarrotti di qui per loco etterno; | ove udirai le disperate strida, | vedrai li antichi spiriti dolenti, | ch’a la seconda morte ciascun grida; | e vederai color che son contenti | nel foco, perché speran di venire | quando che sia a le beate genti. | A le quai poi se tu vorrai salire, | anima fia a ciò più di me degna: | con lei ti lascerò nel mio partire». Per quanto Dante compia un viaggio che nessuno ha mai percorso, ne conosce fin da subito il punto di partenza, la direzione, l’arrivo: la strada è erta, ma anche certa. I personaggi dell’Orlando furioso di Ariosto si muovono invece in senso esclusivamente orizzontale. I paladini e le dame sono sempre in viaggio, ma non sembra esserci alcuna meta definitiva benché si insegua sempre qualcosa: una donna, un cavallo, un oggetto magico. Ma tutti questi obiettivi non portano ad alcuna conquista stabile, così che tanto la fine del percorso, quanto la formazione dei personaggi, è sempre rimandata e in divenire. Questa fenomenologia del viaggio fa sì che gli attanti, costretti a muoversi pazzamente da un luogo all’altro (fin sulla luna!), non manifestino quello scatto di coscienza e conoscenza che compie a Dante. I due paradigmi della verticalità e dell’orizzontalità valgono tanto sul piano del moto fisico quanto su quello interiore – declinato sia in senso spirituale che cognitivo – e presuppongono visioni del mondo diverse. La sicurezza nel cammino di Dante è basata e corrisponde alla fiducia dell’uomo medievale nel proprio orizzonte epistemologico: non ci sono dubbi sul compito dell’uomo, sui meccanismi che ne regolano le forme di conoscenza, non si dubita del fatto che Dio esista e sia raggiungibile. Ariosto invece capta e dà una forma epico-narrativa ai segnali della crisi dell’uomo rinascimentale, il quale, dopo essersi proclamato artefice della proprio destino, affronta le implicazioni della critica a certezze terrene (si pensi solo allo sconvolgimento dovuto alla scoperta delle Americhe) e metafisiche millenarie.
Non stupisce allora che nella produzione letteraria contemporanea fioriscano opere modellate su un tipo di viaggio ariostesco. In questi testi, principalmente romanzi, osserviamo ricerche impossibili e incompiute che manifestano l’angoscia di un presente privo di certezze. Per fare alcuni esempi possiamo pensare ad Occidente per principianti (2004) di Nicola Lagioia, in cui un gruppo di ragazzi si sposta per l’Italia nel tentativo di ritrovare la fantomatica prima amante di Rodolfo Valentino, oppure a Branchie (1994) di Niccolò Ammaniti, dove la storia segue gli improbabili e inconcludenti viaggi di Marco in giro per Asia e Europa. Walter Siti si è invece riappropriato del modello dantesco nella sua trilogia autofinzionale, composta da Scuola di Nudo (1994), Un dolore normale (1999) e Troppi Paradisi (2006). I libri, che fin dai titoli suggeriscono un percorso ascensionale attraverso i regni ultraterreni, sono stati raccolti posteriormente in un unico volume dal titolo Il Dio impossibile. In effetti Walter, l’alter ego autoriale su cui è incentrata la trilogia, sperimenta un percorso filosofico e conoscitivo alla ricerca del nudo maschile – divinamente connotato ‒, il quale però, alla fine, si incarna nel corpo di un culturista che ha tutte le prerogative e i difetti umani. In tal modo il moto ascensionale verso un universo ultra mondano dove regna l’assoluto è ricondotto ad un incontro che si manifesta ed esaurisce sul piano terreno. Ad oggi, insomma, sembra che il modello di viaggio ariostesco sia di gran lunga il più prolifico. Le ragioni del prevalere della quête di ascendenza cavalleresca, in forme ovviamente aggiornate, si spiegano con la sua capacità di rappresentare molte urgenze contemporanee: la frammentarietà della vita, i dubbi che la animano, la mancanza di ideali sovraindividuali per cui lottare, il senso di vanità e insoddisfazione che si accompagnano agli sforzi per raggiungere qualcosa. E poi: c’è davvero qualcosa da raggiungere? Il nostro mondo occidentale, ricchissimo e dove tutto è alla portata, è proprio per questo più piatto, schiacciato su un’unica dimensione terrena. Lo slancio verso l’alto è destinato ad essere riassorbito e anche noi, come esseri umani, rischiamo di perdere profondità. Immagini libere da copyright di Agnese Macchi Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati. Si tratta di un autore molto vario che dedicò tempo, ingegno e inchiostro ad indagare l’amore, la natura, il tempo, l’intera esistenza ed elaborò eccellenti pensieri sulla natura del piacere, della sofferenza, dell’ignoto, della natura stessa.
Nella moltitudine di riflessioni che il Leopardi si presta ad esporci con la sua opera, si indaga anche su quello che è e significa l’attesa. Il sabato del villaggio è un canto concepito nel settembre del 1829, composto da 4 strofe libere in cui il Leopardi dà voce al motivo di una felicità futura, che si trasforma in noia e tristezza quando infine giunge. Nel componimento si descrivono vari personaggi e la loro gioia nel giorno prima del dì di festa: ecco che si hanno una “donzelletta” che torna a casa col suo mazzolino di fiori per acconciarsi, una “vecchierella” che fila sulle scale con le vicine, ricordando i bei tempi in cui anche lei si adornava tutta in attesa della festa. Lo “zappatore” torna alla sua umile cena e, fischiando, pensa al proprio giorno di riposo; il “legnaiuol”, nella sua bottega a lume di lanterna, spera di terminare il suo lavoro prima dell’alba, per godersi la tanto attesa domenica. Cala la notte e la luna risplende in cielo, tutti si adagiano nel letto felici dell’indomani, ma si svegliano infelici dell’oggi. Per tutta la settimana si desidera la domenica, e quando finalmente arriva ci si lamenta che l’indomani sia lunedì. È un meccanismo psicologico che rifugge da ogni epoca e carattere, il piacere svanisce insieme all’attesa, ed è così per tutti. Ma se il sabato, nell’attendere, quel piacere sembra non ancora raggiunto e la domenica quando dovrebbe arrivare noi non lo avvertiamo, è così sicuro che questo piacere esista? Forse non c’è una meta d’arrivo, né una condizione del tutto appagante, o forse il piacere non è quello che ci si aspetta. Forse il piacere non è la domenica, ma il sabato sera, quando dopo una lunga e faticosa settimana sappiamo che ci attende il riposo. Siamo proiettati continuamente verso il futuro, studiamo, lavoriamo, ci impegniamo e siamo sempre preoccupati per questo. Vogliamo terminare gli studi, la stagione lavorativa, la settimana, tutto in fretta. La verità è che il tempo ci accontenta, fa passare tutto così velocemente e lo mette a tacere nel baule del passato. Il futuro diventa presente, questo in un attimo diventa passato, scappa fugace e inarrestabile, ma è l’unico momento che si ha per notare, sentire, apprezzare un qualche piacere che sia anche frivolo, minuto, impensabile. Leopardi, il pessimista per antonomasia, ci dà inconsapevolmente uno spunto in realtà molto ottimistico per apprendere l’arte del vivere bene. Ci insegna a godere del momento presente, dell’odore di un buon caffè, delle lenzuola calde la mattina, di un raggio di sole penetrato dalla finestra dritto sulla scrivania. Sono i momenti, gli attimi più microscopici e all’apparenza insignificanti, che formano tutta la nostra vita; ed è bello progettare il futuro, è bello imparare dal passato, eppure, nonostante questo, ciò che veramente ci dà spazio d’azione, è il presente ed è l’unico piacere di cui si può godere. Immagine tratta da: di Beatrice Gambogi Un’attrice e un attore sono sul palco a fare le prove di uno spettacolo teatrale. Seduto su una poltroncina, il regista li sta osservando. ATTORE Tu hai trovato un uomo a pezzi… ma grazie a te i pezzi si stanno rimettendo al loro posto. Sai, Emily, io in passato ho sofferto così tanto per amore… ATTRICE E a me che me ne frega! REGISTA (alzandosi) Alt! E questa da dove ti è uscita fuori, scusa? Ti pare che sul copione ci sia scritto “che me ne frega”? ATTRICE No, sul copione in effetti c’è la solita storia trita e ritrita di lei che fa la crocerossina e cura le pene d’amore di lui, che però sono pene d’amore che gli ha fatto venire un’altra! REGISTA Mi devo essere perso qualcosa… siamo alle prove o siamo a fare la critica del copione? ATTRICE Almeno cambiamolo un pochino, questo copione! REGISTA Ma ti senti quando parli? Cambiare il copione? Di un lavoro che tu hai accettato, oltretutto! Ma ti droghi? ATTRICE Se mi drogassi sopporterei meglio il fatto di interpretare una fatina dei boschi santa e pura che lecca le ferite d’amore di uno che ha ancora in testa un’altra! Il regista, con movimenti nervosi, sale sul palco. REGISTA Ma cosa stai dicendo?!? Il copione non lo puoi interpretare come cavolo pare a te! Non è vero che lui è ancora innamorato di un’altra, ma chi te l’ha detto? Porca miseria! ATTRICE Però ci pensa ancora. REGISTA Ma a cosa pensa? A chi pensa? Eh? Non puoi fare come cazzo ti pare. Lui non è più innamorato di nessuna, è innamorato di te. Adesso è innamorato di te. ATTRICE Però ci tiene tanto a dirmi che ha sofferto per amore, che è inconsolabile… REGISTA No! Lo vedi che non hai capito niente! È consolabile lui, è consolabilissimo. Tu lo consoli. ATTRICE Ma io non voglio consolarlo. Il regista si scambia un’occhiata con l’attore, che scuote la testa. REGISTA (sarcastico) Va bene, allora riscriviamo il copione. Cosa vuoi mettere? Lui a quarant’anni non ha mai sofferto per amore? Non ha mai avuto una ragazza? È vergine? Che ci vogliamo scrivere? ATTRICE Adesso non esagerare! Non deve essere vergine, ma non deve dire a lei che ha sofferto per amore. Lei non c’entra col suo passato. Devono cominciare da zero, non ci deve essere traccia di un’altra donna. ATTORE Allora lo vorresti davvero vergine... REGISTA (ironico) Zitto, non ci disturbare, che noi stiamo cambiando il copione. Poi, cara, come continua? Vogliamo cambiare qualcos’altro? Tagliamo qualche personaggio che non ti piace, non so? ATTRICE Non è che si debba cambiare tutto, figurati. Vorrei solo che tu cambiassi quello che ti ho detto. REGISTA (quasi isterico) E invece non cambio un cazzo! Pensa un po’! Non cambio nulla nulla nulla. Il copione è questo e non lo cambio di una virgola, anzi, se mi metti una “e” fuori posto ti faccio lo sgambetto l’ultima sera mentre entri a fare l’inchino! Anzi, una cosa la cambio. Sai cosa? L’attrice! Cambio l’attrice. L’attrice cambio! Immagine tratta da:
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Maggio 2023
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