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28/3/2017

"Solo una vita" - Recensione e intervista all'autrice Mariuccia La Manna

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di Enrico Esposito

"Solo una vita" è l'esordio letterario con la casa editrice Bonfirraro di Mariuccia La Manna, autrice siciliana classe 1990, che di professione fa la libraia, e per questo ha fatto un salto ulteriore all'interno di un mondo che già le appartiene profondamente. E se aggiungiamo il fatto che La Manna vive a Racalmuto, il paese in provincia di Agrigento che diede i natali a Leonardo Sciascia, allora comprendiamo come la giovane scrittrice non abbia potuto esimersi dall'intraprendere il percorso affascinante della scrittura.

Il suo debutto affonda il coltello con coraggio e addolorata cognizione nella piaga sempre più ampia della violenza sulle donne. Una triste realtà quotidiana dell'Italia di oggi, che rende prigioniere migliaia di donne, le deruba fisicamente e psicologicamente, talvolta le svuota del tutto e le annulla. In "Solo una vita" viene raccontata la storia di Marta, una ragazza bella e solare che ad appena sedici anni si innamora perdutamente di Paolo, ventenne orfano e di poche parole, con l'aria del ragazzo maledetto. Ben presto i due si sposano, ma da quel momento in cui per Marta l'amore incandescente che l'aveva conquistata lascia il posto a un desiderio malato e folle da parte di Paolo, che si rivela essere ben altra persona da quella conosciuta anni prima. Per Marta si apriranno le porte di un incubo fitto e crudele, contro il quale la giovane donna sarà chiamata a lottare per poter continuare a mantenere solo una vita.

Per poter conoscere meglio "Solo una vita", e analizzare in maniera più dettagliata le drammatiche vicende che coinvolgono Marta, e con lei purtroppo moltissime altre donne, abbiamo chiesto e ottenuto alla Bonfirraro Editore la possibilità di rivolgere alcune domande proprio all'autrice del romanzo, Mariuccia La Manna, che ha accolto la nostra richiesta con grande professionalità e gentilezza.
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Consapevolezza. Questa è la prima parola che mi viene in mente, in modo quasi irrazionale, pensando all'intero svolgimento della trama de "Solo una vita", al Suo modo di condurre il lettore al passo con la narrazione, di accompagnare il calvario di Marta. La consapevolezza di raccontare vicende che putroppo accadono e possono portare a determinate conseguenze. Cosa ne pensa al riguardo? E' d'accordo con questa impressione?
Penso che il termine CONSAPEVOLEZZA sia il traguardo al quale, seppur in modo doloroso e struggente, giunge la mia Marta. La consapevolezza di essere in primis un essere umano dotato di un'identità e di una dignità soprattutto, una donna, che in un climax ascendente caratterizzato da un forte pathos, diventa consapevole dell'amore per se stessa e rinasce dalle sue ceneri.


"Solo una vita" è a mio avviso sviluppato con un taglio cronachistico, non soltanto romanzesco, con un giusto mix tra descrizione dei fatti avvenuti e di indagine sui caratteri dei personaggi, le loro emozioni, le loro follie. Nel momento in cui ha intrapreso la scrittura, Lei aveva già in mente un piano preciso secondo cui procedere, un genere di narrazione in particolare da seguire, oppure il "work in progress" ha ricoperto un ruolo di grande rilevanza, se non fondamentale?
Ho iniziato a scrivere quasi per caso, penna alla mano ho cominciato a riempire taccuini e taccuini di parole, in un momento molto particolare della mia vita, in cui per l'appunto ho usato la scrittura come mezzo per canalizzare le mie emozioni. Il "work in progress" è stato fortemente caratterizzante durante la stesura del mio romanzo. Soltanto alla fine ho deciso di mettere a punto qualche dettaglio, per il resto ho lasciato fare tutto alla mia penna, che mi ha portato a redigere questa storia con assoluta naturalezza e senza alcuna impostazione.


Quando Mariuccia La Manna ha cominciato a pensare a Marta? C'è stato un avvenimento specifico, un incontro peculiare a ispirarla, e poi spronarla alla realizzazione de "Solo una vita"?
C'è tanto di Mariuccia in Marta e viceversa.
Marta è una donna come me, come tante altre di cui la cronaca, purtroppo, quotidianamente ci attesta del vissuto così travagliato e ahimè troppo spesso del tragico epilogo al quale si giunge.
Marta è nata dalla forte componente femminile della mia forma mentis, dai miei percorsi di lettura di un certo spessore (Vedi Frida Kahlo), dalla cronaca nera della quotidianità e soprattutto da fatti realmente accaduti vicino a me. Mi sono guardata attorno, ho letto, ho visto, ho sentito tanto, e ho deciso di "sfogare" tutto questo attraverso la scrittura.


Al giorno d'oggi purtroppo la violenza sulle donne rappresenta un mostro in continua espansione, che quotidianamente si crogiola nella sua bestialità e libertà di compiere gesti sempre più estremi. Alcune donne non riescono a sopravvivere, finendo per essere completamente fagocitate, senza possibilità di uscirne e senza che la giustizia le aiuti seriamente. Altre donne riescono invece, grazie alla loro forza d'animo straordinaria, a risollevarsi, a rinascere proprio come Marta. Vorrei un Suo pensiero spassionato al riguardo, una Sua analisi della questione, delle differenti reazioni da parte delle vittime e del "non agire" da parte della giustizia.
Le reazioni sono le più disparate e differenti da donna a donna, non potrebbero nemmeno essere annoverate o classificate, ogni donna, con il proprio vissuto e le proprie emozioni è un soggetto a sè, distinto da altre.
E' davvero difficile cercare di comprendere in qualche modo una donna che subisce violenza ma non denuncia ma purtroppo entrano in gioco delle dinamiche che, solo intercalandosi dentro alla vicenda, sentendone veramente le emozioni, possono essere comprese. Bisogna viverla quella situazione, quell'amore malato che porta la donna all'assoluta e ferma convinzione di essere sbagliata, attraverso un processo psicologico che il "carnefice" mette in atto e che prevede una serie di comportamenti particolari e patologici. Io non condanno le donne che non denunciano perchè sono vittime della loro inconsapevolezza e prigioniere fisicamente ma soprattutto psicologicamente del loro carnefice.
Denunciare significa giungere alla consapevolezza  di cui parlavamo sopra, è un passo troppo avanti, significa essere uscite totalmente dal tunnel buio, all'interno del quale si è state adescate con l'inganno, e all'interno del quale la vittima ha perso se stessa, il contatto reale con il mondo circostante, gli affetti, tutto. Rinascere è impresa difficile, ma al contempo la più liberatoria e pacificatoria.


Quali sono gli obiettivi che Mariuccia La Manna si è posta con la pubblicazione de "Solo una vita"? E' soddisfatta del lavoro fatto, della risposta di pubblico e critica, e più in generale di come il Suo romanzo venga accolto? Potrebbe indicare ai nostri lettori la chiave di lettura corretta con cui approcciarsi a "Solo una vita", per cogliere appieno i suoi significati?
Il mio obiettivo fondamentale era "arrivare" dritto al cuore dei miei lettori, emozionandoli, ora positivamente ora negativamente, ridestare sensazioni e reazioni tali da far comprendere la "causa" tanto perorata della violenza sulle donne, che non è un luogo comune o un argomento come tanti altri su cui discutere o chiacchierare, è un argomento che mi sta particolarmente a cuore, sono una donna per cui capirà bene quanto io possa "sentire" questa storia. Cerco sempre un contatto diretto con i miei lettori e amo che ci sia da parte loro un riscontro, informandomi delle loro impressioni sul mio romanzo.
Penso che non servano chiavi di lettura, "Solo una vita" riesce a leggersi così in maniera fluida e lineare, è un impetuoso sfogo di emozioni, un turbinio violento di sentimenti, un vulcano di sensazioni positive ma soprattutto negative, date le vicende cruente, all'interno del quale il lettore si ritrova pagina dopo pagina, senza accorgersene. "Solo una vita" esprime con irruenza il mio essere e la mia personalità.
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Mariuccia La Manna
  Per approfondire:

- Sul romanzo "Solo una vita",il comunicato stampa ufficiale del romanzo
- Sulle altre uscite della Bonfirraro, la nostra recensione del saggio "Regressione suicida" di Salvatore Massimo Fazio

  Immagini gentilmente fornite dalla Bonfirraro Press

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25/3/2017

Maurizio De Giovanni porta un po’ del suo "Pane" anche a Pisa

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Grande accoglienza per l'autore napoletano nell'incontro di ieri pomeriggio organizzato dalla Libreria Fogola
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di Enrico Esposito

Quando partecipi alla presentazione di un libro di Maurizio De Giovanni, entri ben presto in un'atmosfera di tale cordialità e familiarità creata dallo scrittore al punto che non sembra esistere più alcuna differenziazione tra un ascoltatore e l'altro. Così come non importa quasi più che tu conosca a menadito sia la saga del "Commissario Ricciardi" sia le vicissitudini de "I Bastardi di Pizzofalcone", che tu abbia letto soltanto uno dei suoi numerosi romanzi, oppure che tu conosca il celebre giallista napoletano grazie alla fiction Rai o per la sua passione sfegatata per il Napoli calcio. L'abilità e il sincero piacere con cui De Giovanni coinvolge il pubblico e coinvolge sé stesso all'ennesimo incontro, relativo alla sua ultima pubblicazione, compongono un'atmosfera fascinosa che altro non si ritrova se non all'interno dei best-sellers di un autore tradotto in Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Francia, Spagna.
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La virtuosa e minuta Biblioteca dei Cappuccini, situata alle spalle della stazione principale di Pisa, raccoglie a stento al suo interno gli appassionati, ma anche i curiosi, sopraggiunti per conoscere in maniera dettagliata "Pane per i Bastardi di Pizzofalcone", il sesto capitolo del ciclo di romanzi sulla squadra poliziesca capitanata dall'Ispettore Lojacono. Un volume uscito nel dicembre scorso per Einaudi Stile libero, seguito dal successo della trasposizione televisiva di appena due mesi fa e dall'idea di dar voce in prima persona ai "Bastardi" attraverso i monologhi de "La Vita quotidiana dei Bastardi di Pizzofalcone". De Giovanni, napoletano verace classe 1958, scrive tantissimo e con una precisa disposizione. Di norma gli basta un mese per sedersi davanti al pc, partire dalla prima parola del primo rigo e rialzarsi dalla sedia esattamente un mese dopo, con il libro finito. Né rifacimenti, né pause, né digressioni tra un lavoro e l'altro. Raccolta dei materiali, definizione della trama, composizione lineare e priva di pericolosi sobbalzi. D'altronde, nello svolgimento della sua attività di narratore, Maurizio De Giovanni cala spontaneamente la sua dimensione personale e la realtà attuale della Napoli in cui vive. In "Pane", e così sia in altre sue opere, risaltano problemi di indubbia attualità, e ottengono uno spazio precipuo i richiami a episodi di cronaca che, seppur non rimarranno nella memoria per aver conquistato la scena di Pomeriggio Cinque o il prime time di Quarto Grado, attanagliano con disarmante sofferenza la quotidianità delle famiglie italiane. Il medesimo protagonista del romanzo, Pasqualino, fornaio del quartiere partenopeo di Pizzofalcone che diventa inviso alla camorra perché non intende rinunciare alla consolidata tradizione familiare di adoperare il lievito madre per fare il pane, non è un paladino della legge, né tantomeno un supereroe o un modello per i lettori. È anzi un uomo qualunque, né cattivo, né buono, ma solo intenzionato a far bene il suo lavoro, a fare il pane come gli ha insegnato il padre, al quale in precedenza il nonno aveva trasmesso l'identica passione.Il pane, indagato nell'ambito di un suo antico trattamento che gli garantisce una conservazione della sua morbidezza a differenza dei metodi comunemente diffusi oggigiorno, si trasforma in questo modo in uno strumento di riflessione sul mutare dei tempi, sul passaggio dall'appartenenza al quartiere all'individualismo cittadino, un banco di indagine relativo alla necessità di non poter dare per scontato più nulla, nemmeno il pane sulla tavola. De Giovanni riporta in luce la stridente figura di Lojacono e il suo status generale di uomo disadattato nei confronti della vita, ma formidabile poliziotto che traccia la via per gli altri "Bastardi", i componenti della sua squadra accomunati dal desiderio di riscattare errori commessi, frustate della malasorte e tiri mancini.
Non solo pane. De Giovanni ha dato vita a una pimpante panoramica che ha spaziato dall'interessante confronto tra le sue trame e le sceneggiature delle fiction rai, al focus sulla caratterizzazione di alcuni suoi personaggi grazie a un vivo interscambio con i lettori in sala. E ha annunciato, oltre al desiderio di poter tra non molto godere di un status benefico dal nome di "pensione", che probabilmente i cicli de "I Bastardi" e del "Commissario Ricciardi" vedranno la loro conclusione entro il 2020, ma già ai primi caldi di questa estate ripiomberanno in libreria con un nuovo episodio. Fortunatamente è più vicino il mese di Aprile, durante il quale la Bonelli Editore alzerà il sipario sulla versione a fumetti delle storie di Ricciardi, con una versione doppia. E per non farci mancare niente, contestualmente al working progress di una rielaborazione in salsa napoletana del "Don Chisciotte" per Beppe Barra e Nando Paone, De Giovanni si sta dedicando al soggetto di una serie televisiva per Cattleya (la casa cinematografica di Gomorra per intenderci), che vedrà al centro delle sue vicende un commissario, questa volta napoletano, intento a far luce su misteriosi crimini legati all'esoterismo e ad antichi luoghi della sua città un tempo visitati da culti religiosi molto diversi tra loro. La stanchezza non esiste per Maurizio De Giovanni. O forse è una grande passione la risposta a tutto.
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24/3/2017

Cosa resta di Madame Bovary?

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​di Stefano Pipi
Madame Bovary venne pubblicato per la prima volta nel 1856. Pochi mesi dopo Gustave Flaubert venne citato in giudizio per oltraggio alla pubblica morale. L'autore venne scagionato e il romanzo divenne uno dei libri di maggior successo della letteratura francese; tuttavia, la vicenda del processo lascia capire quanto l'opera di Flaubert avesse colpito a fondo la coscienza dei suoi contemporanei.
È innegabile che Madame Bovary sia un romanzo che affonda le radici nella società francese del XIX secolo. Nonostante ciò l'opera di Flaubert è diventata un simbolo: il termine ''bovarismo'' è sinonimo di un certo modo di rapportarsi alla realtà. Dopo più di un secolo e mezzo, cosa rimane di Madame Bovary?
Per rispondere, bisognerebbe prima riuscire a capire la protagonista del romanzo. Emma Bovary disprezza quella borghesia di campagna a cui lei stessa appartiene. La noia della vita di provincia, mollemente adagiata su sé stessa, lontana dai balli e dal lusso della capitale, rinchiusa nel suo piccolo guscio di mediocrità e di tiepide passioni, la disgusta. Eppure non riesce ad uscirne (e, soprattutto, non può). È una donna perennemente insoddisfatta, invischiata in un matrimonio infelice e in un ambiente che la opprime. La sua unica via di fuga sono i romanzi: quelle storie d'amore, passionali e tragiche, la fanno sognare. Quanto è diverso il sentimento inarrestabile e appassionato che provano i protagonisti dei libri rispetto alla sua vita coniugale, intrisa di meschine banalità!
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 La psicologia di Emma si basa su questo senso di mancanza, sul contrasto tra la realtà che la circonda e aspirazioni che le sembrano irraggiungibili. È una donna intelligente, colta, raffinata, ma il suo ambiente la stritola. Proprio per questo cerca di evadere, a costo di infrangere quelle convenzioni sociali che la vorrebbero rassegnata e contenta del suo status. E lo fa nell'unico modo che le è possibile: cercando il brivido delle avventure amorose.
Emma è innamorata di un ideale, di una certa idea dell'amore. Suo marito la ama teneramente, ma lei lo disprezza. I suoi amanti, prima o poi, l'annoiano; eppure Emma rimane legata a loro anche se il sentimento che credeva di provare all'inizio si è ormai spento: sono l'unico modo che lei ha per evadere dalla propria vita, semplici illusioni con cui può avvicinarsi alle eroine dei romanzi che tanto ammira. Niente di più che un mezzo per riuscire a fingere, almeno per poco, di essere un'altra persona. Sull'altare di quell'ideale, che rincorre continuamente, è pronta a sacrificare tutti gli affetti. La girandola di tradimenti e di bugie in cui rimane invischiata è per lei una necessità. Una sorta di placebo per le proprie aspirazioni frustrate. Ed è indicativo che, a un certo punto, Emma trovi questo placebo nella religione: ma anche la fede, alla fine, la lascia indifferente, non riesce a colmare il vuoto.
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Si è detto che Emma non può uscire da quella vita che la deprime e la consuma a poco a poco. E questo, semplicemente, perché è una donna. Il suo tempo non riusciva a concepire che potesse avere delle aspirazioni. Di fronte alle esuberanze di Emma, i suoi amanti le muovono tutti la stessa critica: ''lei si compromette''. Ciò che importa, all'interno del metro di valori della società borghese, è mantenere una facciata di rispettabilità. Poco conta che, in realtà, sia tutta ipocrisia e finzione.
Emma Bovary è questo: la tensione infinita e disperata verso un ideale che non potrà mai raggiungere. È stato ingenuo accusare il romanzo di indecenza; ancora più ingenuo è pensare che sia semplicemente il ritratto di un'epoca e di una mentalità ormai superate. Dietro quelli che sembrano i capricci di una giovane donna del XIX secolo si nasconde un abisso. Si dice che durante il processo Flaubert abbia detto: ''Madame Bovary c'est moi'', madame Bovary sono io. Si sbagliava: Emma Bovary siamo tutti noi. Lo siamo quando siamo costretti a rinunciare ai nostri sogni, quando dobbiamo fare i conti con le delusioni di una vita che ci sta stretta e non ci permette di esprimerci, quando vorremmo poter essere altro da quello che siamo.

Immagini tratte da:
  • https://www.flickr.com/photos/mbell1975/6341819464
  • https://wordsgroupie.wordpress.com/tag/madame-bovary/

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24/3/2017

Un modello per il nostro tempo: Erasmo da Rotterdam

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​di Andrea Di Carlo
Desiderio Erasmo (meglio noto come Erasmo da Rotterdam, 1466/1469-1536) è uno dei più importanti protagonisti dell’Umanesimo europeo, fine teologo e raffinato intellettuale, noto per il suo celebre Elogio della Follia (1511). 
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Nato a Rotterdam dalla relazione tra la figlia di un medico e un sacerdote, egli perse i genitori nel 1483 a causa della peste e iniziò a frequentare una scuola gestita dai Fratelli della Vita Comune. Ritengo opportuno soffermarmi su questo dettaglio, in quanto questo periodo di studio forgerà in modo indissolubile l’atteggiamento intellettuale e umano di Erasmo. I Fratelli della Vita Comune evitavano qualsiasi tipo di religiosità esteriore (per esempio niente digiuni o niente pellegrinaggi) ma, coerentemente col messaggio evangelico, si concentravano sull’imitazione di Cristo e sulla lettura della Bibbia, rigorosamente letta nella lingua del popolo affinché tutti potessero comprenderla.
Questo modo di concepire la vita religiosa causò dei contrasti col suo ordine (gli agostiniani) e lo spinse a rapportarsi in modo diverso con la cultura classica; per questo motivo egli scrisse gli Antibarbarorum Libri, dove sostiene la necessità imperativa di ricercare una conciliazione tra cultura classica e cristiana, in quanto l’antichità aveva anticipato l’avvento del cristianesimo (si veda, per esempio, la quarta egloga delle Bucoliche di Virgilio, dove si annuncerebbe la venuta di Cristo).
L’altra grande opera fondamentale di Erasmo è l’Enchiridion militis christiani (1515, “Manuale del soldato cristiano”). Il richiamo alle epistole paoline (specialmente alle due epistole a Timoteo) e l’influenza dell’ideologia dei Fratelli della Vita Comune, rendono quest’opera molto vicina a quell’esperienza che sarà la Riforma protestante. L’autore attacca le pratiche religiose prescritte dalla Chiesa romana, che niente hanno a che fare con la purezza del Vangelo e l’insegnamento di Cristo. Erasmo, inoltre, prende di mira il culto delle reliquie, dei santi e la messa, in quanti riti e pratiche esclusivamente esteriori non vissuti interiormente.
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L’intellettuale olandese è famoso per il suo Elogio della follia (1511). Il libretto vuole essere un atto di accusa nei confronti dell’uomo da parte della Follia stessa: ella conclude che l’unica attività a cui l’essere umano si dedica senza sosta è il bene terreno e caduco, dimenticando di coltivare l’interiorità e la spiritualità. Non manca la critica alla Chiesa di Roma e ai suoi atteggiamenti terreni e poco spirituali.
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Erasmo da Rotterdam è un intellettuale a tutto tondo che si è impegnato anche nel riconoscere la validità delle istanze promosse dalla Riforma protestante ma, da umanista animato da una profonda fiducia nell’essere umano, non poteva accettare le posizioni luterane e calviniste, tanto da polemizzare con Lutero sul libero arbitrio.
Ho intitolato questo articolo “un modello per il nostro tempo” perché credo che la statura intellettuale di Erasmo sia quella che serve alla contemporaneità: egli non avrebbe mai desiderato un’Europa tecnocratica, ma quella che l’Unione europea ha saggiamente delineato col celebre progetto Erasmus (di cui si celebrano quest’anno i 30 anni), che meglio risponde alla saggia apertura dell’intellettuale di Rotterdam. Il suo esempio intellettuale e umano vale più di mille parole e di tanti discorsi.
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Immagini tratte da:
-http://www.studentville.it/orientamento/erasmus-plus-studiare-all-estero-gi-dalle-superiori.htm
-http://pietromelis.blogspot.it/2017/01/erasmo-da-rotterdam-e-gli-animali.html
-http://luna.folger.edu/luna/servlet/detail/FOLGERCM1~6~6~199362~112191:Enchiridion-militis-Christiani,-sal
-http://www.anobii.com/books/Elogio_della_follia/9788804354482/01f8672ee5dddc4af4

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18/3/2017

Il teatro di Eduardo De Filippo

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​di Ludovica Delfino
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“Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male”.                                  Indubbiamente uno dei più importanti registi, attori, poeti e sceneggiatori italiani del Novecento, Eduardo De Filippo nacque a Napoli nel 1900 da una famiglia di attori. Eccellente drammaturgo, come testimoniano le sue numerosissime opere teatrali di successo, delle quali è stato autore e interprete, Eduardo si distingue nel panorama teatrale della seconda parte del Novecento per la sua umiltà e per il coraggio nel portare in scena disagio e dolore, elementi in cui, come lui stesso dichiara, si trova la verità della vita. Particolare a tal proposito, nel lavoro di ricerca teatrale di Eduardo, l’importanza data all’“ostacolo”, che lui stesso creava a sé stesso e agli attori, uno strumento che consente di dar luce creativamente a sfumature d’emozione altrimenti sconosciute.  Le sue commedie, raccolte nei volumi “Teatro di Eduardo”, risentono di numerosi stimoli che vanno dai canovacci della Commedia dell’Arte del padre Eduardo Scarpetta al teatro del grottesco di Luigi Chiarelli e Luigi Pirandello. Eduardo prende spunto proprio da Luigi Pirandello per descrivere al meglio i suoi personaggi, soprattutto nell’aspetto psicologico, per creare il giusto accordo tra comicità e tragicità. Tuttavia egli segue un suo personale itinerario, conferendo dignità artistica e risonanza nazionale al teatro napoletano.                                                                             
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Le sue opere si basano su un’attenta osservazione e su una dettagliata descrizione della società italiana del secondo dopoguerra, dal punto di vista storico e quotidiano e in particolare della sua città natale: Napoli. Emblematiche:
- “Natale in casa Cupiello”: legata in parte alla tradizione farsesca dall’antica Commedia dell’Arte, in cui l’atmosfera e i temi (la solitudine, la volontà dell’individuo di reagire all’indifferenza e al male, la sconfitta dell’uomo buono), indicano la vocazione umoristica di Eduardo e, nel contempo, anticipano l’amara riflessione sulla vita delle sue opere più mature;  
- “Napoli milionaria”: un affresco della povertà materiale e morale della Napoli del dopoguerra, atto di accusa contro la guerra e contro le ricchezze conquistate con il cinico sfruttamento del prossimo. La famosa battuta finale “Ha da passa’ a nuttata” (“Deve passare la notte”) suona come un augurio che dopo un periodo buio possa ricominciare per tutta l’umanità una nuova vita basata sulla comprensione reciproca e sull’onestà.
La famiglia è il centro d’interesse dell’artista, in quanto specchio della società, sentita come luogo di comunicazione e di fiducia. La spiccata attenzione ai legami che intercorrono tra i membri di una famiglia non è casuale ma atta a voler scandagliare e analizzare, senza risparmiarsi, i rapporti controversi con il padre Scarpetta e con i fratelli Titina e Peppino. 
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È nel teatro, infatti, che l’animo inquieto di Eduardo ha forse trovato quella serenità e “serietà” che tanto cercava nel quotidiano; un quotidiano interrotto bruscamente da vicende tragiche, come la morte in tenera età di Teresa, la sua secondogenita. Ha sempre visto, infatti, nella finzione teatrale una maggiore verità di quanto riusciva a vedere nella vita, dove spesso, incastrati nel portare tante maschere, gli uomini non vivono nell’“essere”, ma nell’“avere”. Secondo Eduardo, gli uomini, etichettati in ruoli ben definiti, finiscono con il non portare sul palcoscenico della vita tutte le parti più autentiche del sé, e questo alla lunga, se esasperato, può portare alla separazione, alla patologia: “I fantasmi non esistono. I fantasmi siamo noi, ridotti così dalla società che ci vuole ambigui, ci vuole lacerati, insieme bugiardi e sinceri, generosi e vili”.     L’essenza di questo grandissimo uomo di teatro è racchiusa nel suo ultimo discorso pubblico tenuto al Teatro Antico di Taormina nel 1984: “[…] è stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa teatro. Così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere! E l’ho pagato, anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato.”
Immagini tratte da:
http://www.burcardo.org/fondi/defilippo.asp
http://www.lostivalepensante.it/2013/12/04/tutte-le-opere-di-eduardo-de-filippo-su-youtube-gratis/
http://danteact.org.au/il-personaggio-eduardo-de-filippo/

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18/3/2017

Dylan Dog: la zona del Crepuscolo e il Mesmerismo

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di Lorenzo Vannucci

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Nella Zona del crepuscolo facciamo la conoscenza della cittadina lacustre di Inverary, incantevole borgo scozzese adagiato sulle sponde del Loch Fyne dove l’abitudine, la convenzione e l’ordinarietà dominano su tutto. A differenza di Mark, il belloccio con la decappottabile, del signor Belknap e di Padre Flanagan (consapevoli di essere dei morti viventi dopo aver accettato passivamente di condurre la stessa esistenza vuota e insignificante in cambio della vita eterna), Mabel si accorge che la sua esistenza è sempre uguale, che si ripete all'infinito e che la visione del viso sfigurato del signor Belkramp nella biblioteca non si tratta soltanto di un sogno.
Sospesa tra sogno e realtà (“sembrava così reale … anche l'iniezione … ho sentito davvero l'ago entrare … è impossibile come i sogni più assurdi possano sembrare veri”), Mabel tenta di porre fine alla propria esistenza gettandosi nelle gelide acque del lago. Il risveglio nel proprio letto (“un altro incubo! È così reale! Mi sembra davvero di essere sott'acqua […] ma un momento, alghe, le alghe del lago”) permette alla giovane ragazza di comprendere il suo triste destino: “Dio mio … voglio piangere, ma non ci riesco. Non ho lacrime […] se tutto è avvenuto realmente… significa che anch’io… anch’io sono una di loro!”. Mabel, in preda alla disperazione, decide di tagliarsi le vene con un frammento di vetro: “Niente sangue … il mio polso non batte … non ho respiro… ecco come mi sono salvata dal gorgo…non potevo morire… perché io non sono viva!”.
Ecco allora che Dylan, contattato dalla stessa Mabel per indagare sui misteri di Inverary, scopre presso il cimitero della cittadina la tomba della ragazza e viene a conoscenza del dottor Jacob Xicks, fratello del primario del General Hospital, il quale conduceva esperimenti umani nella Germania nazista di Hitler. Attraverso il racconto di Edgar Alan Poe, Testimonianza del caso del Signor Valdemar, Xicks spiega il significato della Zona del Crepuscolo e la triste realtà che permea tutti gli abitanti di Inverary.



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Dylan scopre come le paure di Mabel fossero fondate e di come le persone vivano in uno stato di trance, sospesi tra la vita e la morte. Xicks, attraverso il racconto del caso Valdemar, racconta a Dylan gli effetti del mesmerismo: “provai ancora a domandargli se dormiva, ma non ottenni risposta. Nel mio amico non c'era segno di vita e, concludendo che era ormai deceduto, ci apprestammo a lasciare il suo capezzale […] improvvisamente una voce che sembrava giungere da grande distanza parlò, rispondendo alla prima domanda: si … no … ho dormito … e ora … ora … sono morto”. Il mesmerismo, quindi, consiste in un processo di suggestione mentale che consente a un corpo di non auto degradarsi dopo la morte, entrando in uno stato di autoconservazione che termina solo allo svanire della mesmerizzazione.
Xicks rivela a Dylan che, dopo aver recuperato gli scritti di un certo Vergeus dalle macerie di Inverary, ha iniziato a produrre un siero in grado di impedire la putrefazione della materia organica. È proprio Xicks ad avere ordinato a Mabel di dimenticare tutto, ad accettare la realtà senza farsi domande, di restare “una diciottenne che ogni giorno va a studiare in biblioteca flirtando con Mark”, facendo sprofondare Inverary in una dimensione dove tutti i giorni sono uguali e gli abitanti sono sempre in procinto di decomporsi.
Dylan, allo stesso modo di Guy Montag in Fahrenheit 451, su invito dello stesso Xicks, ha la possibilità di distruggere i mostri di Inverary con il fuoco purificatore. La scelta iniziale dell’Old Boy di dimenticare tutto (“voglio solo andar via di qui”) è solo apparente perché, tornato a Londra, si rende conto che lui stesso è una creatura del crepuscolo: “l'orrore di Inverary mi fa sentire vivo … mi rende ancor più cosciente della mia vita”.



Fonti

-Dylan Dog  La zona del Crepuscolo, Sergio Bonelli Editore
-Edgar Alan Poe, The facts in the case of M. Valdemar
-Ray Bradbury, Fahrenheit 451
Immagini tratte da:
www.cravenroad7.it

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11/3/2017

Almanacco degli accidenti

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di Stefano Pipi


In Italia, forse, non sono molti a conoscere il nome di Stefan Agopian: poeta, saggista e narratore, Agopian (di origini armene ma nato a Bucharest nel 1947) è uno dei più importanti autori rumeni contemporanei. La pisana Felici Editori ha portato per la prima volta l'opera dello scrittore nel nostro Paese, pubblicando e traducendo Almanacco degli Accidenti (che potete trovare nel catalogo di Istos Edizioni)
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Descrivere il libro di Agopian non è per nulla facile. Non lo è per la sua apparente assurdità, condita di un'ironia dissacrante e allucinata. I protagonisti sono Ioan Marin, geografo alla perenne ricerca della fantomatica Anglia, e Zadic l'Armeno, l'uomo dagli innumerevoli mestieri; due vagabondi un po’ scombinati e fanfaroni che si ritrovano, non si sa bene per quale motivo e in quale tempo, a girovagare assieme nella Romania dei primi anni del XIX secolo. I due si scontrano con i casi più assurdi, invischiati in situazioni paradossali in cui non sembra esserci logica alcuna.
Il libro di Agopian è, appunto, un almanacco, una raccolta di vicende fantasiose e bizzarre. A una prima lettura si rimane spiazzati di fronte alla mancanza di senso delle avventure raccontate in questo libricino di poco più di 100 pagine. I capitoli si susseguono senza soluzione di continuità, tra le astruse riflessioni filosofico-religiose dei due protagonisti e la descrizione delle loro tragicomiche peripezie. Eppure, a un lettore attento, il libro di Agopian si rivela per quello che è davvero: un divertissement, certo, ma colto e ragionato. Le pagine sono ricche di citazioni letterarie, metafore bibliche, rimandi ad altre opere (lo stesso nome Zadic è un chiaro rimando a Zadig o il destino di Voltaire) e riferimenti ironici e velati alla situazione politica rumena (il libro è uscito per la prima volta nel 1984, durante la dittatura di Ceaucescu).
L'opera di Agopian non è classificabile. Troppo densa e allo stesso tempo troppo leggera nei toni per rientrare in qualunque genere letterario. In Almanacco degli Accidenti l'umorismo picaresco e un po' sgangherato di Cervantes convive con il citazionismo di Borges, il tutto calato in un'atmosfera surreale, quasi onirica. Un libro eccessivo nella sua assurdità, ma che nasconde una ricchezza di sensi e di metafore che affascina e stupisce.


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- www.istosedizioni.com

 

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11/3/2017

L’Ercole tedesco: Martin Lutero 

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​di Andrea Di Carlo
Il 2017 rappresenta il cinquecentenario di uno degli eventi più significativi della storia europea, la Riforma protestante, e senza ombra di dubbio del suo protagonista, il monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546).
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Questo articolo non vuole tracciare un’analisi socio-storica della Riforma e delle sue conseguenze, ma delineare i tratti stilistici e retorici dei suoi scritti, in quanto l’Ercole tedesco si contraddistingue per la sua variegata produzione. È dunque opportuno iniziare con la sua prima opera di rilievo: le 95 Tesi.
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Lutero è ormai conscio della gravissima corruzione che impera in Vaticano e, soprattutto, disapprova totalmente il meccanismo delle indulgenze, dei documenti firmati dal pontefice che rimettono i peccati e riducono la permanenza dell’anima in Purgatorio. La sua posizione è tuttavia ambigua e lo vediamo attraverso due delle tesi:
 
Tesi 1: Il Signore e maestro Gesù Cristo dicendo: «Fate penitenza, etc.», volle che tutta la vita dei fedeli fosse un sacro pentimento.
 
Si potrebbe a pieno titolo pensare che il monaco tedesco aderisca pienamente al sacramento cattolico romano della confessione, invitando i fedeli a una vita di pentimento, amministrata e controllata dal parroco, anche attraverso l’acquisto di indulgenze. È davvero così? In realtà è lecito dubitarne:
 
Tesi 43: Si deve insegnare ai cristiani che è meglio dare a un povero o fare un prestito a un bisognoso che non acquistare indulgenze
 
La posizione luterana appare chiara: non è un comportamento ortodosso e retto acquistare delle indulgenze, ma è preferibile fare l’elemosina a un povero o fare un prestito a chiunque sia in difficoltà economiche. Il monaco tedesco inizia così a tuonare contro la Chiesa di Roma e il Papa.
 
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Se le 95 Tesi e scritti successivi sullo stesso argomento servivano a insinuare il dubbio (esse ebbero un’eco notevole grazie alla loro traduzione in tedesco), nel 1520, nella Cattività babilonese della Chiesa, il monaco di Wittenberg inizia ad attaccare fortemente le istituzioni ecclesiastiche, utilizzando quel linguaggio forte, sarcastico e, a volte volgare, che contraddistingue il suo stile robusto:
 
Sulle indulgenze ho già scritto più di due anni, ma in modo tale che […]mi pento di aver pubblicato quel libretto. A quel tempo […]aderivo ancora alla grande tirannia della superstizione romana, per cui anche le indulgenze non credevo di doverle rifiutare completamente, vedendole approvate da un consenso così grande. Ma in seguito […] ho compreso che le indulgenze non sono altro che pure e semplici imposture dei cortigiani romani, con cui essi mandano in rovina la fede di Dio e dilapidano la fede della gente.
 
Le indulgenze non sono altro che, a giudizio di Lutero, dei perfidi inganni di una Chiesa più simile a un complesso sistema affaristico che a un’istituzione votata alla misericordia e all’aiuto degli ultimi.  La prosa luterana è lo specchio di un uomo, ma anche di un’epoca in rivoluzione: un oscuro monaco tedesco, fino ad allora devoto alla Chiesa romana e ai suoi insegnamenti, si trova, di punto in bianco ad attaccare l’istituzione di cui fa parte, ricorrendo non soltanto a un’evidente capacità linguistica e retorica, ma anche all’invenzione della stampa, che permette di diffondere al maggior numero il contenuto della sua protesta. Nell’anno di Lutero ricordiamoci anche della sua prosa forte e limpida!

Immagini tratte da: 
http://www.altra-citta.net/10-novembre-1483-nasceva-lutero-riformista/
http://www.claudiana.it/scheda-libro/martin-lutero/la-cattivita-babilonese-della-chiesa-1520-9788870166071-397.html
http://www.viaggio-in-germania.de/lutero-95tesi.html

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4/3/2017

Historia calamitorum: le catene del docente 

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La scuola di ieri e di oggi

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di Lorenzo Vannucci
1859. Con la Legge Casati la “Scuola” italiana sanciva l'obbligo scolastico per il grado inferiore  elementare, obbligo che, a causa della disomogenità tra lo stato Sabaudo – in via di sviluppo sociale ed economico - e il meridione – in forte stato di arretratezza, non portò benefici alla lotta all'analfabetismo. La scelta di privilegiare gli istituti a indirizzo umanistico, a scapito di quelli tecnici, fu superata nel 1877 dalla riforma Coppino, che vedeva nelle esperienze e nelle osservazioni dirette, insieme al lavoro manuale, una tappa fondamentale per avvicinare il bambino a una forma di autonomia nel campo del lavoro.
Alla fine del XIX secolo, sulla scia dei risultati ottenuti dal positivismo e dalla diffusione dell'herbaritismo, si sviluppò un movimento di rinnovamento pedagogico, denominato scuola nuova. Il ritorno al contatto diretto con le cose, la riscoperta dell'esperienza, tappa fondamentale nel processo di crescita del bambino, trovò nel metodo di Boschetti Alberti e delle sorelle Agazzi una risposta significativa alle esigenze della scuola italiana. L'insegnante, fino a quel momento figura secondaria nel processo di apprendimento, diventò il fulcro del processo di crescita, una figura attiva che doveva guidare il bambino nella sua libera e spontanea attività. Con Maria Montessori il metodo agazziano trovò un fondamento scientifico, passando dalla spontaneità dell'ambiente e dei materiali – non strutturati scientificamente – a una civilizzazione del bambino, portandolo verso il rispetto delle regole sociali.
Questa figura emergente dell'insegnante-educatore,  attiva nel processo di crescita dell'allievo, trovò un primo ostacolo nel 1923 con la Riforma Gentile, che faceva della scuola un canale di trasmissione delle idee e dei principi del fascismo. Il maestro era il sacerdote, l’interprete, il ministro dell’essere divino, colui che doveva trasmettere la dottrina fascista, colui che doveva inculcare il credo a giovani ancora privi di capacità critiche. Il maestro, pertanto, diventò una figura di  secondo piano, una pedina del governo fascista che, attenendosi al Sussidiario, un libro di testo unico per tutte le scuole elementati, adeguato nel 1928 alle direttive del governo, doveva formare le giovani masse.
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Con Gentile, in un certo senso, la scuola ritornò a quel lontano 1859, imprimendo  un’idea di scuola severa, selettiva, destinata solo all’élite. Una scuola dall'ordinamento gerarchico e centralinistico, che aboliva, di fatto, tutte le rappresentanze elettive e in cui solo gli uomini migliori, coloro che sarebbero andati a far parte della classe dirigente, avrebbero avuto diritto al proseguimento degli studi. Se la riforma Gentile vide drasticamente calare il numero di analfabeti, aumentando l'obbligo scolastico a 14 anni, dall'altra portò la scuola a essere un mero e semplice strumento di riproduzione dell’adesione ideologica al regime dal punto di vista ideologico, strutturale e amministrativo.
Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale ebbe ripercussioni enormi sulla scuola italiana: l'inefficienza del governo, la distruzione dei fabbricati e dei luoghi di istruzione riportarono l'istruzione nel caos. Nonostante la caduta del fascismo e l'avvento al potere delle forze democratiche, i governi di centro-sinistra degli anni '60 proseguirono con una visione della scuola in linea con il periodo fascista. Se la scuola primaria e di istruzione secondaria inferiore intrapresero negli anni '70 un significativo passo in avanti verso la scuola moderna, la scuola superiore continuò a proporre programmi in linea con la riforma Gentile.
Se il 1974 sancisce il primo passo per la riacquisizione dell'autonomia didattica e curricolare, bisogna aspettare il 1998, la riforma Berlinguer, affinché il docente goda di totale autonomia. L’insegnante, senza alcun tipo di vincoli, ha finalmente il compito di guidare l’alunno, con le sue esperienze e con la sua cultura, non solo nell’acquisizione di nozioni, ma anche di educare “alla vita”.

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Tuttavia la scuola, in particolare dopo la Riforma Moratti, è stata caricata di pretese e aspettative enormi. La scuola ha il compito di formare, proteggere e indirizzare gli studenti, facendo dell'insegnante-educatore una specie di parafulmine. Non più docenti, ma macchine computazionali alle prese con schede di valutazione, piani di offerta formativa, programmi strettissimi e con un’autonomia di scelta sui contenuti ridottissima. Della libertà di insegnamento tanto auspicata nel 1998 se ne è, di fatto, parlato abbastanza senza ottenere risultati. Il lato “umano”, il libero scambio tra docente e allievo, è stato inglobato e schiacciato dalla macchina del Metodo, un apparato burocratico complesso che rischia di soffocare e vanificare gli sforzi fatti a fine secolo con la Riforma Berlinguer. Se è vero che il sapere non si può contenere in un libro e che devono essere immessi nuovi canali e metodi di acquisizione delle conoscenze, la libertà del docente viene messa in discussione in quanto, oggi, non è più l'unico detentore. Questo dimostra da una parte la caduta del modello fascista e dall'altra il fatto che ciascun insegnante deve mettere il suo sapere a disposizione dell’allievo perché diventi punto di partenza per un ulteriore arricchimento culturale e autonomo. L'insegnante, oggigiorno, è il parafulmine di tutti i malatempora culturali, civili, etici, economici. Subisce pressioni e stiramenti che nemmeno un collaudo di recipienti sferoidali in ghisa, ma, allo stato dell’arte, è il vaso di coccio.

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Sitografia

http://www.ilsileno.it/2013/01/20/il-nuovo-ruolo-del-docente-da-depositario-assoluto-del-sapere-a-guida-propositiva/
Livia Giacardi (a cura di), Da Casati a Gentile. Momenti di storia dell’insegnamento secondario della matematica in Italia, Lugano, Lumières Internationales, 2006, p. 54. 
http://lascuoladiunavolta.altervista.org/breve-storia-della-scuola-italiana/
A. Visalberghi, Aspetti generali del sistema scolastico italiano sua storia e organizzazione, in “Scuola e città”, 1981, 10, 417-429
G. Ricuperati, Scuola, in Storia d'Italia, F. Levi U. Levra N. Tranfaglia, Firenze, La Nuova Italia, 1978, 1195 - 1209
www.ecucazionewaldorf.it/news/download.php?id=305. 
G. Talamo, Scuola, in La cultura italiana del Novecento, a cura di C. Staiano, Roma-Bari, Laterza, 1996, 653-686



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wixite.com





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4/3/2017

Le straordinarie avventure di Pentothal di Andrea Pazienza

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​di Marco Messina
La prima avventura di Pentothal era stata in parte disegnata nel febbraio del 1977, ma le tumultuose giornate di marzo, con l’uccisione dello studente Pier Francesco Lorusso, militante di Lotta continua, avevano contribuito a inasprire il clima (di per sé già abbastanza pesante) che si respirava per le strade di Bologna, la quale sarebbe ben presto diventata teatro di guerra di uno scontro parimenti politico e generazionale. Erano gli anni delle rivolte studentesche, dei gas lacrimogeni, dei passamontagna, dei raid e delle vetrine infrante: “Ero convinto di disegnare uno sprazzo, sbagliando clamorosamente perché invece era un inizio!”, scriveva un giovanissimo Andrea Pazienza in un’improvvisata tavola conclusiva posta alla fine del primo episodio di Pentothal, pubblicato originariamente a puntate sulla rivista Alter alter, il supplemento di Linus che, ai tempi, rappresentava anche la più importante vetrina del fumetto italiano contemporaneo. Pazienza manifestava così la propria intenzione di protrarre il racconto, aggiornandolo alla luce degli eventi recenti, con particolare riguardo vero dell’atmosfera di sfiduciata violenza che si era venuta a instaurare: “Ne avessi sentito il sentore, avrei aspettato e disegnato questo bel marzo”.
Ne Le straordinarie avventure di Pentothal, la realtà irrompeva nel racconto, con un esperimento da considerare estremamente d’avanguardia, visto il decennio di pubblicazione. In Italia il fumetto popolare aveva (e continua ad avere) un lunga e prestigiosa tradizione, fatta di generi, eroi inossidabili e storie all’insegna dell’Avventura più sfrenata; ma negli anni Settanta il giornalismo grafico, le autobiografie illustrate, i romanzi a fumetti e, in generale, tutti quei volumi che hanno invaso le librerie di varia più o meno a partire dal fenomeno Zerocalcare , erano bel al di là dal venire. Per usare le parole di Luca Raffaelli: nel fumetto la realtà “latitava”.
Di contro, Pentothal (come i molti personaggi che Pazienza avrebbe creato nel corso degli anni), aveva molto del suo creatore. Di più: Pentothal, che non a caso ha lo stesso nome del siero usato da Diabolik per assumere l’identità delle proprie vittime, ERA Andrea Pazienza, il suo alter ego immaginifico. Ed ecco quindi le interminabili file della mensa universitaria, le disastrose sbornie post-concerto, un letto sfatto in cui svegliarsi, dormire, sognare e rollarsi una canna (non necessariamente in quest’ordine); ecco che già nelle prime pagine Andrea viene lasciato da Lucilla, la quale gli rinfaccia la sua pigrizia e la sua scarsa dignità.
 Il linguaggio-fumetto diventava un gioco di specchi in cui Pazienza allo stesso tempo raccontava, si raccontava e dissimulava, giocando a confondere le carte in tavola, in un flusso di coscienza joyciano che, per stessa ammissione dell’autore, doveva molto al Moebius de Il garage ermetico. Ai passaggi prettamente pseudo-biografici se ne affiancavano infatti altri, di carattere onirico-lisergico che per stessa ammissione dell’autore si rifacevano, dal punto di vista grafico e narrativo, alle sperimentazioni dal maestro francese compiute anni prima sulla rivista Mètal Hurlant, con lo scopo di destrutturare le regola della classica narrazione sequenziale (i cosiddetti fumetti “a forma di elefante”, privi di vignette ordinatamente disposte e di trame lineari).
Le straordinarie avventure di Pentothal era anche l’opera d’esordio di uno dei più importanti e geniali fumettisti che abbiano mai calcato la scena italiana, ricordato con affetto e ammirazione ancora oggi, a quasi 30 anni dalla prematura scomparsa, avvenuta nel 1988.
Pentothal è un inno alla giovinezza e alla fantasia, ma anche al desiderio di affermarsi e di essere amati; sul viaggio come sogno, e il sogno come fuga dalla realtà. È il canto del cigno una generazione interna, destinata a scontrarsi contro l’onda grigia del riflusso, contro un futuro talmente stronzo da pretendere di avere la meglio su quanto c’è di bello nell’animo umano.

Per chi volesse approfondire la figura di Andrea Pazienza, consiglio la visione di questo bellissimo speciale di Rai5, oltre che di PAZ!, film del 2002 diretto da Renato De Maria con Claudio Santamaria nei panni di Pentothal:
 http://www.rai5.rai.it/articoli-programma/andrea-pazienza-prima-parte/27326/default.aspx
http://www.rai5.rai.it/articoli-programma/andrea-pazienza-seconda-parte/27325/default.aspx
Immagini tratte da: 
​Immagine 1: http://www.slumberland.it/public/gallerie/pentothal_prima_tavola.jpg
Immagine 2: http://www.badcomics.it/wp/wp-content/uploads-badcomics/Le-straordinarie-avventure-di-Pentothal-Alter-Alter-n.4-1977.jpg
Immagine 3: http://artemade.altervista.org/wp-content/uploads/2016/05/paz_penthotal.jpg
Immagine 4: http://www.fumettologica.it/wp-content/uploads/2016/05/pazienzalorusso.jpg

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