di Lorenzo Vannucci Sin dagli albori della civiltà, l’uomo si è interrogato sulla questione del tempo, una misteriosa forza che scorre inesorabile, costante, senza mai fermarsi, impossibile da fermare. Lo stesso Eraclito parlava di pantarei, dell’instabilità della condizione umana che, nel tentativo di trovare un’isola di felicità, si deve ogni giorno confrontare con la propria finitezza. Al tempo fugace, sfuggente, impossibile da catturare, Orazio invita la dolce e giovane Leucònoe a non sprecare il proprio tempo a disposizione su cose effimere, interrogandosi sul domani, ma di godere del presente, cercando di cogliere la positività in ogni singolo attimo. Marziale, un secolo dopo, nella poesia Come vivere sereni, sostiene, in linea con Orazio, che la felicità si coglie nelle piccole cose. Dato che «le gioie non restano ferme, ma fuggono e volano» il poeta “romano” invita ad assaporare gli istanti felici senza mai rimandare al domani che è indefinito «un patrimonio non acquisito con la propria fatica ma lasciato in eredità, un campo buono, un focolare sempre acceso, mai litigi, rare visite ufficiali, mente rilassata, forza da uomo libero, corpo sano, una cauta schiettezza, amici della tua stessa condizione sociale, commensali poco esigenti, cucina senza ricercatezze, notti non folli ma libere da affanni ... un sonno tale da rendere brevi le tenebre, voler essere ciò che sei e non preferire nient'altro e non desiderare né temere il giorno supremo». Guardare al proprio orto, essere grati a quello che la vita ci ha dato, non essere invidiosi degli altri, questa la ricetta della felicità secondo Marziale. «Quanta è bella giovinezza […] Del doman non v’è certezza». Espressione di gioia, strozzata e offuscata da un sentimento di angoscia. Anche per Lorenzo dei Medici il tempo scorre rapido, senza sosta, inesorabile. L'unica soluzione alla finitezza dell'uomo è cogliere la bellezza in ogni singolo attimo, riprendendo il messaggio oraziano del carpe diem. Tema, quello della felicità, caro anche all'Ariosto che, a differenza del fiero e dignitoso Dante, nel componimento a Messer Annibale Malagucio prende le distanze da una vita fatta di onori e ricchezze, perseguendo una vita modesta e tranquilla. Meglio per Ludovico pertanto una vita modesta, foss'anche una rapa, che essere “sotto una vil coltre”, debitore a qualcuno. Anche nell'Orlando Furioso possiamo vedere la ricerca di Angelica come metafora di una felicità che non è raggiungibile con i valori rinascimentali della cavalleria e dell'eroismo, come un labirinto (castello di Atlante) in cui ognuno ricerca il proprio sogno illudendosi di poterlo perseguire. La vita per l'Aristo non è altro che l'inseguimento di immagini vane. Orlando impazzisce una volta resosi conto che l'oggetto del suo desiderio non è come l'idea che lui aveva di esso, da qui il messaggio di Ariosto di godere solo delle cose che abbiamo. Nell'Ottocento-Novecento italiano, nonostante nuove soluzioni all'inesorabile scorrere del tempo - l’uomo ha bisogno, per essere felice, dell’attesa speranzosa in un avvenire, che poi si rivelerà deludente (Il sabato del Villaggio, Leopardi), di rifugiarsi in un ricordo di fronte al grigiore del presente (A Silvia, Leopardi), il carpe diem oraziano permane. Nella poesia Io vivere vorrei Sandro Penna di fronte alla malvagità del mondo, fatto di pregiudizi e stereotipi, dichiara che la felicità nelle banali circostanze della quotidianità. Il «dolce rumore della vita» non è altro che la voglia del poeta di abbandonarsi alle emozioni, godere delle gioie dell'esistenza. Immagini tratte da: http://www.rossovenexiano.com/65linesorabile-scorrere-del-tempo https://www.kaercher.com/it/inside-kaercher/newsroom/kaercher-stories/tempo-e-felicita.html https://exploringyourmind.com/wealth-doesnt-equate-happiness/
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Al Teatro Era di Pontedera è andato in scena lo scorso 5 Marzo l'adattamento della play del drammaturgo statunitense Arthur Miller per la regia di Armando Pugliese con un cast eccezionale di attori, tra cui i protagonisti Elena Sofia Ricci, Maurizio Donadoni e Gianmarco Tognazzi (Una produzione Erretiteatro). di Enrico Esposito e Alessandro Rugnone Vetri rotti è uno spettacolo intenso e spietato, una secca e coinvolgente analisi delle crepe nascoste o inaspettate che possono sconvolgere le vite degli uomini. Arthur Miller, uno dei più importanti autori di teatro del Secondo Novecento, mise in scena questa pièce nel 1994 intitolandola "Broken Glass" , in un esplicito riferimento agli orrori della Notte dei Cristalli, che tra il 9 e il 10 Novembre del 1938 trascinarono con una ferocia spaventosa il mondo nell'incubo dell'Olocausto. Le foto delle vetrine dei negozi giudei ridotte in frammenti, delle innumerevoli violenze perpetrate, delle deportazioni di 30000 Ebrei nei Lager solcarono rapidamente gli oceani raggiungendo gli States e i loro quotidiani come il New York Times, aprendo anche agli Ebrei americani le porte di una delle due epoche di maggior sofferenza della loro storia ultramillenaria. Sylvia Gellburg (Elena Sofia Ricci) donna di mezza età ebrea brillante e dal grande fascino, è stata da sempre un'attenta osservatrice e lottatrice per i diritti degli uomini e in particolare per gli abitanti del suo quartiere nella Grande Mela. L'impatto con le bestialità della Notte dei Cristalli ha rappresentato per lei un evento devastante sia sul piano morale che nella dimensione fisica, dal momento che dopo aver visto gli scatti incriminati ha subito una paralisi pressoché totale delle gambe senza alcuna spiegazine. Sylvia non riesce più a condurre in casa le normali facccend perché non è in grado di stare in piedi. È costretta a una sedia a rotelle o a letto, e di conseguenza si sente nel morale fiaccare completamente, di sente sepolta e incapace di guarire da un male oscuro perchè non riconducibile a problemi di salute di alcun genere. Le analisi a cui la donna è stata sottoposta non hanno evidenziato valori sballati oppure gli effetti di malattie improvvise. Sylvia Gellburg clinicamente gode di ottima salute e questi questa scoperta non fa altro che accrescere le inquietudini del marito Philip (Maurizio Donadoni) ma anche del medico curante Harry Hyman (GianMarco Tognazzi). Philip e Harry sono due uomini completamente diversi l'uno dall'altro per non dire opposti. Philip è un agente immobiliare irascibile e irruento, un uomo dall'io spiccato e dominante che nel corso della vita matrimoniale ha ottenuto sempre da Sylvia ciò che desiderava. È riuscito a far sì che lei smettesse di lavorare nonostante stesse percorrendo una brillante carriera nel campo finanziario, e a convincerlo a mettersi a fare la casalinga e a dargli un figlio. Dal primo giorno in cui di sono incontrati, quando l'uomo era giunto a farsi le ossa nell'azienda in cui Sylvia ricopriva giovanissima un ruolo di dirigenza importante, Philip aveva sviluppato un'assuefazione bruciante nei confronti della donna, un asservimento alla sua grazia che tuttavia era arrivato a cozzare nel tempo con un'intrattabità acuta e spietata. Philip si era reso protagonista in pubblico di spiacevoli escandenze nei riguardi della moglie, e da anni ormai aveva smesso di toccarla, interrompendo del tutto i rapporti sessuali. Scheletri nell'armadio enormi, incomprensioni sepolte e fuoriuscite adesso in maniera pericoloso grazie al confronto da parte dei due coniugi con il dottor Hyman, un medico cordiale e in passato superbo dongiovanni, un seguace affermato del rilievo cruciale del dialogo e dell'indagine psicologica. Hyman sa come prendere tutti i suoi interlocutori e ottenere da loro ciò che intende ascoltare. Da tutti, compresi Philip Sylvia e Barriera sorella di quest'ultima, eccetto che dalla moglie Margaret, donna sensuale e molto astuta che conosce benissimo le debolezze del suo uomo e intuisce l'innamoramento galoppante che questi subisce da parte di Sylvia. Dopo aver appurato che la sua paziente dal punto di vista clinico apparentemente non si è imbattuta in alcun trauma, Hyman è fermamente convinto della natura psicosomatica delle condizioni di salute di Sylvia. Se è pur vero che le sue gambe non funzionano e non le sollecitano alcuno stimolo, Sylvia avverte soprattutto una crisi di nervi. È fiaccata nell'animo, stanca, demoralizzata e ha un chiodo fisso: la Notte dei Cristalli. Passa le giornate intere a riguardare le foto sui giornali o a cercarne nuove perché è rimasta scioccata da un evento che secondo lei corrisponde all'antico ma di una piaga molto più grande. Sylvia avverte la sensazione perturbante che qualcosa di orribile sta per abbattersi sul sul popolo ebraico, diventa una sorta di medium che tuttavia proietta il fenomeno universale all'interno del suo microcosmo personale. Le sedute continue con il Dottor Hyman portano a galla un quadro familiare complesso e imperfetto per Sylvia e Philip. L'amore non esiste da molto tempo, e in passato i due hanno addirittura rischiato di separarsi. Sylvia vive come un automa, non prova gioie nel corso delle sue giornate ancor prima della situazione estrema che sta vivendo ora. L'abbandono del lavoro ha rappresentato per lei il colpo definitivo alla sua vitalità. Hyman giunge a vestire davanti ai suoi occhi i panni di un confessore cortese e romantico, a risvegliare in lei sensazioni di tenerezza e piacere sopite e probabilmente mai ricevute da Philip. Il dottore è completamente avvinto da lei, scambia con lei lunghe conversazioni volte a smascherare i suoi traumi irrisolti e a emettere una sentenza fondamentale: è Philip il suo tormento, e in parallelo con i fatti dela Notte dei Cristalli appare come il nazista assalitore. Sylvia fa progressi pian piano nella comprensione della verità mentre Philip, ebreo anch'egli, che ha sempre minimizzato le notizie provenienti dalla Germania perché si sente protetto dall'oceano che si frappone tra l'America e l'Europa, va incontro a un declino assoluto. È stato licenziato dal suo capo per un affare sbagliato, sta perdendo la sanità fisica e mentale, ha smarrito il controllo su Sylvia. Il castello di sabbia su cui per decenni aveva costruito una vita per lui perfetta, viene spazzato via d'improvviso sotto gli assalti di un destino disumano come nella Notte dei Cristalli e gli anni lunghissimi di angherie inflitti a un intero popolo.
Foto tratte da: foto gentilmente fornite dal Teatro Era. di Lorenzo Vanni ![]() Se c'è un sentimento che in questi anni avvertiamo tutti fortissimo è quello della nostalgia per gli anni '80. Era iniziato negli Anni Zero e si è protratto anche in questo decennio che ha visto riscoperte in ogni ambito: dal cinema alla musica, alla letteratura. È proprio su quest'ultima che vogliamo concentrarci, con un romanzo attualmente fuori catalogo ma che merita una decisa riscoperta perché inquadra il decennio dell'edonismo come in pochi hanno fatto di recente. Il romanzo si intitola La Linea della Bellezza e il suo autore è Alan Hollinghurst, pubblicato da Mondadori nel 2004. Hollinghurst non compare dal nulla, ma fino a quel momento non aveva fatto che accumulare premi con i suoi romanzi precedenti e la vittoria al Booker Prize sembra la degna coronazione di una carriera di successi. Questo è il romanzo che rappresenta la piena maturità artistica di uno scrittore che è il miglior rappresentante di quella che una volta veniva chiamata “letteratura borghese”, ossia opere in cui si scavava l'umano attraverso situazioni di convivialità e dove si univano in perfetta armonia pettegolezzi e cultura “alta”, ma in ogni caso dando sempre un'impressione di elitismo. Anche per questo è un romanzo complesso, con una trama lineare assente e concentrata quasi interamente sulle dinamiche messe in atto dai personaggi. La trama si può riassumere brevemente: Nick Guest è ospite fisso del suo amico dell'università, Toby Fedden, la cui famiglia è a stretto contatto con membri del Parlamento inglese dal momento che il padre, Gerald, è Ministro dell'Interno a stretto contatto con il Primo Ministro, Margaret Thatcher. Nick è omosessuale e nel corso del romanzo avrà due relazioni importanti: la prima con Leo, che incontriamo nella prima parte del libro, con cui scoprirà la sessualità per la prima volta; la seconda con Wani, in realtà bisessuale: la loro è una relazione clandestina da tenere nascosta alla ragazza che Wani dovrebbe sposare.
Queste le linee principali che segue il romanzo e che diventa così l'occasione, data dall'omosessualità del protagonista e dello stesso autore, per indagare sui rapporti tra il potere e la sessualità. I personaggi che circondano la famiglia Fedden sono alla ricerca del potere e del prestigio sociale in modo disperato tanto quanto Nick è alla ricerca della bellezza, elemento su cui verrà fatta ironia da parte dei genitori di Wani che lo definiscono un esteta. Il titolo del libro viene da un concetto artistico espresso dal critico d'arte settecentesco William Hogarth in un suo volume del 1753, The Analysis of Beauty. Hogarth individua nell'ogee l'ideale assoluto di bellezza artistica in cui vengono riassunti i principi cardine che il critico riteneva fondamentali in un'opera d'arte visuale. L'ogee è chiamata anche linea della bellezza e con la sua forma sinusoidale costituisce il modello per ogni opera d'arte; ogee sarà anche il nome che prenderà la rivista d'arte che vorrebbero fondare Wani e Nick. È stato inoltre notato che la figura di Margaret Thatcher viene evocata spesso nel testo per poi comparire alla fine alla serata organizzata appositamente per lei a casa Fedden; questo ha portato molti, a ragione, ad associare la Thatcher letteraria al Kurtz di Cuore di Tenebra. Il suo nome ricorre costantemente nel romanzo e di volta in volta i personaggi che la menzionano non possono fare a meno di prendere una posizione del tutto a favore o del tutto contraria al suo modo di condurre la politica. Quando comparirà nel finale, l'immagine che verrà data di lei dovrà essere confrontata con le aspettative ambivalenti create dall'autore nel corso della narrazione. Foto tratte da: https://www.esquire.com/uk/culture/news/a17873/alan-hollinghurst-on-the-books-the-shaped-his-life/ https://www.amazon.it/linea-della-bellezza-Alan-Hollinghurst/dp/8804590297 di Eva Dei “La porta della locanda si spalancò sotto la spinta di uno straniero incappucciato che avanzò nelle tenebre mostrandosi a suo agio, seguito da una ragazzina con i capelli corti rossi e tagliati malamente.” Ci troviamo in Germania, una delle tante del multiverso spaziotemporale, in un periodo che ricorda più o meno il nostro Medioevo. I due sconosciuti che varcano la soglia della locanda sono i personaggi principali e sicuramente i più interessanti del primo romanzo di David Giuntoli, scrittore nato a Lucca, ma da sempre pisano d’adozione. Già autore di diversi racconti, Giuntoli si è avvicinato con “Il Segnato” a quel mondo fantasy da cui sempre è stato attratto. Con una scrittura molto scorrevole veniamo catapultati in un mondo parallelo; come spesso accade ci troviamo davanti a una dicotomia: bene - male, dio - demoni, ma i confini che separano queste due forze appaiono fin da subito confusi. La religione dell’Unico Dio è la fede dominante, uscita vittoriosa dall’ultima feroce battaglia, che ha visto però la sparizione del Bastione, il più valoroso guerriero che si ricordi. Se questa Chiesa ci appare indebolita e forse anche un po’ corrotta sembra che invece il Male, Azathoth, abbia raccolto nuove forze e sia pronto a tornare, mietendo vittime innocenti. Soltanto quel misterioso viandante potrà opporsi alla sua venuta: si chiama Kaspar ed è uno degli ultimi preti guerrieri sopravvissuti alla grande battaglia. Astuto e incredibilmente forte, sembra fin da subito nascondere dei segreti, tanto da celarli per lungo tempo anche alla sua compagna di viaggio, Isabelle, ragazzina per metà umana e per metà demone che ha deciso di salvare da una triste sorte e a cui sta insegnando a dominare i suoi istinti. I capitoli si snodano in un susseguirsi di passato e presente, dove si inseriscono avventure secondarie. Se inizialmente questo andamento può sembrare scollegato e confusionario è invece funzionale a far scoprire nuovi particolari sulla vita e sul passato di questo misterioso personaggio. Un po’ alla volta l’autore ci svela qualcosa di Kaspar fino ad arrivare all’antecedente di tutto. Scopriamo così che il prezzo della sua forza è stata la progressiva perdita della sua identità, o per meglio dire del controllo su sé stesso. Ogni nuova battaglia non è più soltanto una battaglia contro il nemico, ma contro sé ciò che è diventato, sacrificandosi durante l’ultima battaglia. Questo quello che possiamo anticiparvi riguardo alla trama. Ma il progetto “Il Segnato” non si chiude qui: è in corso infatti sul sito dell’editore Bookabook il crowdfounding per l’uscita del secondo volume “Il Segnato II: I Pirati del Multiverso”. Come ci ha anticipato l’autore “questo secondo volume sarà molto diverso dal primo, meno cupo e più avventuroso. Si viaggerà molto e ci saranno molto nuovi personaggi. Non mancheranno epica e humor e…colpo di scena: ci saranno persino le astronavi”. In parallelo a breve è prevista l’uscita del film “Il Bastione”, un fantasy urbano ispirato all’universo creato da Giuntoli. Tra gli attori: Federico Guerri, Valerio Cioni, Tommaso Menchini Fabris, Orazio Cioffi e Margherita Masetti. La vicenda si svolge in una Pisa contemporanea, tutta la storia ha un’impronta molto ironica, ma non per questo priva di contenuti. Ci dice lo stesso Giuntoli: “È una sorta di caccia al tesoro per gli spettatori visto che è disseminato di indizi per capire la verità (amara) che il finale svelerà” Foto tratte da: https://www.amazon.it/segnato-David-Giuntoli/dp/8899557764 Il disegno è realizzato da Michele Milia. 17/3/2018 All'alba della Seconda Guerra Mondiale Montale tra alfieri, scacchi, e una sinistra coltre di neveRead Nowdi Lorenzo Vannucci «Hitler e Mussolini a Firenze. Serata di gala al teatro Comunale. Sull’Arno, una nevicata di farfalle bianche». Nel giorno della visita del fuhrer a Firenze, nel maggio 1938, scende nella città una nuvola di falene, che stende sulle strade una coltre di ali bianche che scricchiolano sinistramente sotto i piedi dei passanti. L'estate imminente sprofonda, improvvisamente, in un gelo notturno, in una stagione morta, come se la presenza di Hitler avesse portato il gelo della morte che la guerra porta con sé. In verità, già nelle Nuove Stanze il poeta accenna alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, più precisamente all'incontro tra Mussolini e Hitler che avrebbe dato vita al patto d'acciaio. «Io non sono fascista e non ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie in cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata», con queste parole Montale rimarca la non appartenenza al movimento fascista. Il poeta genovese, intellettuale apparentemente quasi avulso dalla realtà, con occhio ermetico e impassibile descrive come l'ombra sinistra della Seconda Guerra Mondiale si stava proiettando minaccioso sul mondo. Gli scacchi e gli alfieri non sono altro che una simulazione della guerra, una macabra rappresentazione in scatola celebrata su un quadrato di 64 caselle, un’analessi del conflitto visibile una volta che la finestra della stanza in cui si trovano il poeta e Clizia si spalanca improvvisamente. La città ideale che appare un attimo tra le languide spirali viene spazzata via da un esercito di pedoni che, senza conoscere lo scopo né il demiurgo che li governa, si dirigono verso il campo di battaglia «batte il suo fioco / tocco la Martinellaì […] luce / spettrale di nevaio». ![]() Storia, cultura. Queste le risposte del Montale a questa ondata di violenza. Gli uomini non sono altro che pedine, ignare del perché si trovino nel campo di battaglia. Solo chi, come Clizia, ha adottato uno sguardo critico, cercando la verità nascosta delle cose opponendo gli occhi d’acciaio della cultura allo specchio ustorio della disumanità e della scelleratezza della guerra, è riuscito a sopravvivere. Nella Primavera hitleriana il poeta invita a reagire in modo attivo al “pessimismo cosmico”. Non è più possibile, infatti, guardare la guerra incombere passivamente dal microcosmo di una stanza con uno spirito critico “occhi d'acciaio”, ma invita ad andare oltre, a immergersi in esso. La visita di Hitler, ricevuto a Firenze da Mussolini nei primi mesi del 1938, è vissuta dal poeta con orrore e sdegno: «da poco sul corso è passato a volo un messo infernale tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso e pavesato di croci a uncino l'ha preso e inghiottito [...]». Hitler viene descritto come un demone, e l'incontro del teatro comunale non è altro che una “tregenda”, un convegno di demoni. Convegno descritto come una «processione di croci e uncini», un luogo grottesco in cui gli scherani, gli uomini del Fuhrer complici di omicidi, giurano fedeltà al duce come un branco di ignavi gridando il saluto fascista alalà. Danza macabra che lascia il posto alla "sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue" per un "sozzo trescone d'ali schiantate, / di larve sulle golene". Una scena, dunque, che vede gli inconsapevoli manifestanti recitare la messa in scena della morte. Pedine, pedoni di una farsa che sarebbe divenuta tragedia. Inconsapevoli pezzi di una scacchiera di 64 pezzi sterminati «dai cannoni» e dai veri «giocattoli di guerra». Ecco allora che Clizia, “Cassandra” in Nuove Stanze e emblema di valori da coltivare, diviene la nuova Beatrice assumendo una visione salvifica «i rintocchi che salutano i mostri nella sera della tregenda si confrontano già col suono che slegato dal cielo, scende, vince- col respiro di un’alba che domani per tutti si riaffacci, bianca, ma senza ali». In un mondo irrazionale e violento la donna amata dal poeta, emblema, della poesia, incarna una speranza biblica e un’alternativa di salvezza di fronte al messo infernale e all’irrazionalità storica. Immagini tratte da: Historia Project di Eva Dei “A mensa non riuscivo a mandar giù quasi nulla, mi sforzai. Non era per timore delle SS: speravo nel veleno. Se soltanto ne avessi ingoiato un boccone, sarei stata consegnata alla morte senza dovermela procurare, esonerata almeno da questa responsabilità. Ma il cibo era sano e io non morivo.” Non sapremo mai se Margot Wölk abbia mai pensato qualcosa di simile. Lei che ha aspettato di arrivare a novantasei anni prima di riuscire a confessare di aver lavorato da giovane per Adolf Hitler. Nonostante la sua non fosse stata una scelta personale, si era sempre vergognata di quel lavoro. Trasferitasi dai suoceri a Gross-Partsch, nella Prussia orientale, dopo il bombardamento della sua casa, era stata scelta come assaggiatrice del Führer, che aveva il suo quartier generale nei boschi, “Wolfsschanze”, la Tana del Lupo, proprio lì vicino. Margot e altre donne dovevano assaggiare ogni piatto destinato a Hitler, in modo da assicurarsi che non fosse avvelenato. A questa donna si è ispirata Rosella Postorino per la sua “berlinese”, protagonista del suo romanzo, Rosa Sauer. Uscito a gennaio, edito per Feltrinelli, il libro è già alla sua quarta ristampa. Lo spunto della storia è sicuramente interessante, non solo perché ci racconta un aspetto del nazismo e della Seconda Guerra Mondiale diverso, a molti sconosciuto, pur partendo da una verità storica, ma anche perché la voce narrante è divisa, combattuta, lacerata: la Postorino mette a nudo con Rosa Sauer la contraddizione dell’animo umano. Se ovviamente il romanzo prosegue con un intreccio narrativo che riguarda Rosa, gli altri personaggi del racconto e anche una parte di eventi storici realmente accaduti, quello che emerge in modo più interessante è la voce interiore della protagonista. Sì perché dietro alla forestiera, alla “berlinese” dagli abiti alla moda e dall’aspetto distaccato, si nasconde una lotta interiore mai sedata. Vivere lavorando per il Führer: essere una prescelta, ma al tempo stesso una vittima; sì perché Rosa viene pagata profumatamente per il suo lavoro, ma in realtà quello è il prezzo della sua vita. Una vita chiusa e controllata in una mensa insieme ad altre donne, gustando dolci, carne e prelibatezze, mentre le persone fuori faticano per mettere insieme un pasto. Il privilegio del cibo, che può rivelarsi ad ogni boccone il preludio della morte. Senso di colpa, paura e incertezza sono i sentimenti dominanti, quelli che continueranno a muovere le azioni di Rosa, confinandola in un’ambiguità in cui il lettore è sempre in bilico nel suo giudizio verso di lei. L’identificazione non è possibile, ma è impossibile non provare quel minimo di empatia che non ci permette di discostarci inorriditi davanti a questa donna. “Accadeva da mesi. Uno scollamento fra me e le mie azioni: non riuscivo a percepire la mia presenza”, forse questa è la frase che esprime al meglio il comportamento di Rosa. Un’altalena che va dal desiderio di sopravvivere e fuggire, a quello di non provare più dolore, di ribellarsi e morire. Una repulsione per il regime e per colui che al massimo lo incarna nella sua quotidianità, il tenente Ziegler, che si scontra con una maternità desiderata e mai arrivata, con il desiderio di sentirsi ancora voluta. Le pulsioni e i desideri di una vita qualunque resistono alla Storia e se da una parte è un bene, perché sono un simbolo di speranza e la testimonianza di un’umanità che sopravvive alla crudeltà dei fatti, dall’altra spesso appaiono egoistici e futili in un momento simile. Una protagonista che non ha niente dell’eroina, un libro che fa riflettere su quanto sia lecito fare per sopravvivere e su quanto questo sia spesso poco eroico, ma forse, non per questo, meno umano. Foto tratte da: http://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/le-assaggiatrici/#descrizione I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/ Potrebbe interessarti anche: di Lorenzo Vanni Ian McEwan è a oggi un'istituzione della letteratura inglese. Non c'è dubbio che la sua opera sia stata influente sul secondo Novecento specie per quanto riguarda la riflessione sul decadimento dei costumi sociali e dei valori etici in un mondo che, dopo il crollo del muro di Berlino, aveva cominciato a giustificare i propri atteggiamenti più moralmente discutibili usando l'espressione “post-ideologico”, come se al di fuori dell'ideologia esistesse solo la barbarie (morale e non solo). L'analisi sociale di McEwan arriva in un momento in cui questo tema non viene ancora preso sul serio fino in fondo; nel 1998 il romanzo, che oggi è considerato il capolavoro dell'autore inglese, arriva come un fulmine a ciel sereno a illuminare una zona della vita sociale che non si credeva realmente esistere. Il romanzo è Amsterdam e all'uscita si ritenne che avesse toni troppo grotteschi per poter essere reali, che McEwan avesse avuto una caduta di stile e che, in breve, il Booker Prize che vinse quell'anno non lo meritasse davvero. Si diceva che Ian McEwan era indubbiamente un autore da Booker Prize, ma che era stato premiato per il romanzo sbagliato. Oggi sappiamo che gli anni '90 sono stati l'inizio di un processo di involgarimento della politica e della stampa le quali si giustificavano in modi diversi: la prima sosteneva di volersi avvicinare maggiormente al popolo riducendo apparentemente le distanze tra classe dirigente e classi subalterne, la seconda svendeva il principio della Verità per soddisfare le esigenze di un popolo affamato di scandali. La trama di Amsterdam ruota attorno a un pianista, Clive, e un giornalista, Vernon, che si incontrano dopo tanto tempo al funerale di una donna che avevano entrambi amato. Il giornale di Vernon sta affrontando tempi duri e rischia di fallire se non riesce ad aumentare il numero di copie vendute; l'idea per risollevarne le sorti viene dal direttore di quello stesso quotidiano, George Lane, che mostra a Vernon foto che ritraggono il Primo Ministro in ambiente privato vestito da donna. Vernon ne approfitta per costringere Garmony alle dimissioni.
Clive invece sta lavorando a una composizione di pianoforte da eseguire ad Amsterdam, ma è alla disperata ricerca di quella melodia finale che darebbe il tocco di genio all'opera. Mentre sta camminando nella natura per riflettere sulla melodia, vede una donna che viene aggredita dal suo uomo. Quando sembra che per lei sia finita, Clive si allontana e ritorna sui suoi passi; da allora sarà oppresso dal senso di colpa e soprattutto dal suo possibile fallimento nel trovare la parte conclusiva della propria melodia. Quel che allora veniva considerato grottesco era il ritrovamento delle foto. Sembrava del tutto inverosimile che un uomo integerrimo come si supponeva dovesse essere un Primo Ministro potesse avere un comportamento del genere, seppur privato, e sembrava eccessivo che un giornalista potesse approfittarne per demolirne la credibilità. Il mondo è cambiato molto dagli anni '90 e pratiche che una volta ci sembravano eticamente discutibili oggi vengono accettate di buon grado aggiungendo cinicamente che “è sempre stato così”; ma non è vero, tanto che si era scambiato il capolavoro di uno dei più grandi scrittori inglesi per un libro qualunque. Ma erano altri tempi, appunto. Immagini tratte da: https://www.abebooks.com/book-search/title/amsterdam/author/ian-mcewan/first-edition/signed/http://oubliettemagazine.com/2016/12/22/le-metier-de-la-critique-bambini-ossessivi-e-disadattati-un-approccio-pedagogico-nellanalisi-dellopera-di-ian-mcewan/ 3/3/2018 L'influenza del Macbeth e dell'infanzia del poeta nell'immaginario di Tolkien degli EntRead Nowdi Lorenzo Vannucci Macbeth non sarà vinto fino a quando di Birnam la foresta non moverà verso il colle di Dùnsinane contro di lui». Gli alberi, per Tolkien, non sono solo simbolo di vita, ma un vivido ricordo nel suo universo fatto di luci, suoni e colori. Sarehole, piccola cittadina nei pressi di Birmingham, è il cuore dell'immaginario del celebre scrittore britannico. Quelle piccole radure, rotte solo dal rumore dell'acqua di un ruscello che sgorgava nei pressi della sua casa, vengono cancellate dagli avidi speculatori «nulla gli interessa di ciò che cresce, se non gli serve una occasione immediata». Chi sono Barbalbero e gli Ent? Una Metafora dell'industria, di una società inglese sempre più industrializzata che distrugge la natura invece di salvaguardarla. In un mondo grigio, dominato dalla sofferenza, il compito di Aragorn, Gandalf, Galadriel, e dello stesso Sam è ricomporre quel microcosmo dalla sua origine, così da plasmare una società vivente all'interno di una società morente. Tema, quello della distruzione della natura, reso, anche se in chiave diversa, in Macbeth di William Shakespeare. Tolkien, leggendo Macbeth, rimase profondamente deluso dall'assenza di epicità nella celebre scena in cui l'esercito di Malcolm marcia contro il castello di Dunsinane. Quello che in Macbeth è il coronamento di una profezia «reggendo i rami degli alberi, innumerevoli soldati rassomigliano al bosco di Birnan che avanza verso Dunsinane» - un esercito che si mimetizza con rami di alberi tagliati per attaccare il castello di Dùnsinane di Macbeth - diviene in Tolkien molto di più della semplice profezia «Macbeth non sarà vinto fino a quando di Birnam la foresta non moverà verso il colle di Dùnsinane contro di lui».
Tolkien, che nelle Lettere si ritiene «profondamente amareggiato» dalla scelta di William Shakespeare, rende così giustizia all'idea stroncata sul nascere dal poeta di Stradford proponendo nel Signore degli Anelli la rivolta degli Ent, alberi senzienti e mobili, guardiani del mondo vegetale, che sotto la guida del saggio Barbalbero si ribellano a Isergaard riprendendo la supremazia sulla macchina, ristabilendo così all’interno dell’opera, il proprio predominio. Immagini tratte da: http://www.councilofelrond.com/moviebook/3-09-flotsam-jetsam/ |
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Febbraio 2023
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