IL TERMOPOLIO
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30/3/2019

La mia famiglia e altri animali

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di Cristiana Ceccarelli
Proprio in questi giorni in cui la famiglia è soggetto e centro di dibattiti su cosa davvero stia a significare e da chi è rappresentata, il libro che propongo è quello di Gerald Durrell, dove la famiglia è la vera protagonista, dove è quello che è, nonostante le difficoltà, nonostante l’amore.
La mia famiglia e altri animali è stato pubblicato per la prima volta nel 1956 ed è un’autobiografia dello stesso autore. Il libro, come un diario di memorie, racconta le vicende della sua simpatica famiglia; con la storia che inizia dal loro trasferimento dall’Inghilterra alla Grecia, dove hanno vissuto tra il 1935 e il 1939.
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Copertina del libro “La mia famiglia e altri aniamli”, di Gerarld Durrell
Gerald Durrel, diventato poi un famoso zoologo e naturalista, ci trasporta, con la narrazione intima della prima persona, nella soleggiata Corfù, alla scoperta del suo mondo naturale e dei segreti della sua famiglia.
“Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso con la mia famiglia nell’isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell’isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina, non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno [..]”
Così inizia il libro, con un titolo che attraverso la semiotica della disposizione, vuole già veicolare l’ironia del racconto e dei personaggi coinvolti: sono infatti animali anche i membri della famiglia.
La famiglia che conta la mamma, il fratello maggiore Larry , il medio Leslie, la sorella Margo e il fedele Roger ci apparirà in tutta la sua franchezza vitale, in un turbinio di vicende quotidiane quanto  particolari, tra condivisione e litigi, tra scoperte e delusioni. I personaggi vivono sulla pagina e su di essa crescono, si arrabbiano, perdono; e noi siamo spettatori coinvolti del loro percorso, tanto da immedesimarci nel contesto e sentirsene parte, affezionandosi a tutti loro.
A questo avvicinamento contribuisce la tecnica stilistica di Durrel: la sua scrittura non sembra influenzata dalla parentela e tutti sono presentati per come sono, con i pregi e i difetti.
La prosa è di una minuziosità importante, quasi poetica nelle parti che descrivono il mondo naturale, che coglie in modo spontaneo le peculiarità di ognuno e ci cattura con la sua costanza ritmica, tra il finto fastidio per la vicinanza e la personalità ingombrante dei familiari e il legame di amore che trasuda anche dalle virgole, a rappresentanza di tutti quei sentimenti contrastanti che in una famiglia è normale provare.
I Durrel sono una famiglia unita nelle differenze, che mostra accettazione per le diversità che caratterizzano i componenti, che le esalta nonostante l’esasperazione che comportano. E’ una famiglia che insegna a superare le difficoltà con l’unione, che si accontenta di quello che ha ma non dell’assenza di condivisione.
E’ una storia di integrazione in un contesto diverso, di apertura verso il nuovo e di fiducia nel prossimo, in una famiglia che allarga i suoi confini immaginari per includere tutte le persone e gli animali incontrati, come  in un concetto di famiglia che prescinde dalla materialità e fisicità delle persone ma si basa sull’appoggio reciproco, sulla sopportazione, sulla fiducia e sull’amore e la voglia di stare insieme e aiutarsi, che può sembrare banale ma è l’essenza della famiglia stessa: sapere di poter essere chi si è, e insieme essere ripresi ed accettati per questo, sapere di avere qualcuno su cui contare e al quale affidarsi, in una piene condivisione.
E questo i Durrel ce lo insegnano nel loro simpatico modo di stare insieme e coinvolgere gli abitanti dell’isola, in una grande famiglia con uno zoo in giardino.
Dal libro è stata tratta anche una serie televisiva in onda dal 2016, che ripropone fedelmente le vicende descritte nel romanzo, con una scelta degli interpreti che ben si adatta a ciò che un lettore può essersi immaginato.
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I protagonisti della serie tv “I Durrell”

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23/3/2019

Come una canzone triste in un giorno di sole

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di Cristiana Ceccarelli
Sono tanti i libri che ci vengono definiti come imperdibili. Ma alcuni libri per me hanno un tempo, non nel senso che smettono di essere fruibili fuori dal contesto o tempo di produzione, ma piuttosto che devono essere letti quando si sente essere arrivato il momento giusto; io devo sentire di averne bisogno così da poterli rendere anche un po’ miei.
Come un sesto senso, mi sveglio la mattina con un’idea precisa, in testa un titolo, vado in libreria e lo compro.
Così mi è successo per Norwegian Wood, un romanzo di Haruki Murakami del 1987, pubblicato in Italia anche con il titolo Tokyo Blues; un titolo che riprende una canzone dei Beatles e con esso la tinta malinconica che lo caratterizza.
Murakami lo ha scritto tra la Sicilia e Roma, ed è ispirato a un suo precedente racconto “La lucciola”, insetto che ritroviamo nel libro in una scena di tacito addio, in un grazie regalato per il tempo trascorso e per ciò che è stato accettato nell’altro.
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Il romanzo è narrato in prima persona, in lungo flashback del protagonista Tōru Watanabe, innescato dall’epifania creata proprio dalla canzone dei Beatles sentita sull’aereo in fase di atterraggio; a quella canzone Watanabe associa un particolare ricordo, che credeva essersi impolverato sotto lo strato degli anni, e da quello ricorda il periodo e le persone che hanno caratterizzato la fine dell’adolescenza e gli anni universitari, in un climax che porta alla scoperta dei personaggi attraverso la loro crescita.
Siamo tra la fine degli anni ’60 e il 1970, tra le proteste studentesche in un Giappone che rivela l’apertura e l’apprezzamento per la cultura occidentale, soprattutto anglofona.
Questa nuova apertura e conseguenti influenze nella caratterizzazione, vengono anche implicate nella descrizione di Kizuki, l’amico del protagonista al tempo dei 16 anni, che assume le sembianze adolescenziali di Dick Diver, personaggio di “Tenera è la notte” romanzo di F.S Fitzgerald, con la sua padronanza delle situazioni, la sua dialettica, l’abilità nello scovare le potenzialità dell’altro, nel rendere tutto appetibile di conversazione e saper dirigere e cadenzare quest’ultima come un arbitro contento di ricoprire quel ruolo.
Un rimando a canzoni e testi stranieri che però non vuole rifiutare o negare le proprie tradizioni, come si nota dalla continua comparsa di cibi, luoghi e usanze chiamate col nome giapponese.
Questo è un romanzo che sembra descrivere un tradimento verso se stessi; un tradimento però necessario che si allontana dal rispetto per avvicinarsi alla scoperta, al procedere per tentativi nell’attesa di prendere finalmente coraggio, qualunque sia l’azione che vogliamo compiere, o nell’attesa di qualcosa o qualcuno di meraviglioso, da incontrare o già conosciuto.
Un tradimento che è riflesso dell’incapacità di capirsi veramente nei desideri e negli interessi, nell’essere costantemente indecisi, riflessivi, e per questo vivere in un mondo interiore che appare all’altro inafferrabile.
Un ermetismo annoiato che cerca di essere contrastato da un’implacabile sincerità e trasparenza dei dialoghi, delle espressioni; quasi come se i protagonisti volessero raccontarsi a se stessi, per comprendersi, o al limite essere accettati per quello che sono, nella speranza che qualcuno ascolti e riconosca i loro bisogni.
Non c’è ombra di menzogna ma solo di contrasto tra le riflessioni, dovuta proprio a questo cambiamento incerto a cui tutti siamo soggetti nel passaggio tra la vita e la morte, e che il libro percorre sul binario della crescita.

In questo possiamo ritrovare l’attitudine e le emozioni de “Il giovane Holden” di J.D Salinger, solo rese in maniere diversa: in Norwegian Wood questa condizione è causa di un dolce assopimento, tenue e a tratti magico, in un’atmosfera che nonostante le agitazioni e gli avvenimenti rimane gentilmente pacata, lenta; mentre Salinger la lascia uscire in tutta la sua angosciante e nervosa portata.
In Norwegian Wood l’indecisione è raccontata dall’abbandono all’evidenza: la vita è un mistero che va scoperto vivendolo o decidendo di abbandonarlo, arrendendosi alla vastità del mondo e delle sfaccettature che lo abitano.

È un libro che racconta dell’adolescenza, delle passioni, dei sentimenti e dell’amore anche nella sfera dell’eros , che lo fa vivere tra le pagine senza vergogna o esitazione nell’essere vissuto nelle declinazioni forti come in quelle delicate, dispiegato nelle relazioni di Watanabe con Naoko e Midori e che attraverso di loro parla della morte, del suicidio e dell’abbandono, che vanno a mescolarsi alle azioni più comuni e quotidiane, per far capire che anche le prime purtroppo lo sono.

È un libro che si affaccia delicato al realismo magico, dove non si questiona sulla veridicità del contesto ma sulle reazioni a volte troppo disincantate dei personaggi, che si traducono in dialoghi e pensieri che sembrano non poter appartenere alla quotidianità come l’abbiamo sperimentata.
Quel modo però che hanno le loro parole di alzarti e farti sospendere, per un secondo, nell’incertezza della probabilità, per poi riportarti giù alla triste realtà non ti lascia il tempo di riflettere su quanto possano essere insieme vere o false, vorresti solo che qualcuno, all’improvviso, ti parlasse così, per quanto strano possa sembrare, nonostante tutta la malinconia che esiste; in un gioco continuo di un presente che sogna o scappa, che risulta vero nonostante quest’aura di magica impossibilità che a volte lo avvolge.
È qui che risiede l’incanto, la magia di una lettura intensa che non ha peso se non sul cuore.

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16/3/2019

Avere sempre ragione

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anche nel torto
di Cristiana Ceccarelli
Il presupposto è che tutti vogliono avere ragione, sempre. Non importa quanto sia vero quello che viene detto, l’importante è che venga creduto da chi ascolta e che l’interlocutore non sappia come contro argomentare, non sappia trovare falle di ragionamento nelle quali insinuarsi per distruggere quanto proposto.
La verità qui non importa, importa il modo con cui le idee e le credenze vengono proposte.
La verità oggettiva e la validità conseguente all’approvazione sono due cose diverse.
Quante volte ci siamo accorti di aver supportato una tesi credendola vera per poi scoprire il contrario, mantenendo comunque la posizione iniziale? Quante altre invece sapevamo a priori di dire il falso, cercando comunque di convincere l’altro?
Chi non vorrebbe sempre avere ragione? E come fare per ottenerla?
Ce lo insegna Arthur Schopenhauer, filosofo tedesco, considerato uno dei maggior pensatori del XIX secolo con  “L’arte di ottenere ragione”,  un libro sulla dialettica, redatto nel 1830-31, che con i 38 stratagemmi proposti renderà imbattibile chiunque si cimenti nella studio e nella messa in pratica delle direttive del maestro; perché avere ragione è un’arte e come tale deve essere rispettata e coltivata.

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Copertina del libro “L’arte di ottenere ragione”, Arthur Schopenhauer.
 

La dialettica è l’arte di disputare, e di farlo per ottenere la ragione: non importa con quali mezzi, se leciti o meno, quello che conta è portarla dalla propria parte, convincere il pubblico.
E la sua esistenza, per il filosofo, è da attribuire alla cattiveria del genere umano, perché se fossimo leali ci importerebbe solo di portare alla luce la verità, senza curarci se questa è conforme all’opinione propria o di altri.
Il libro quindi non solo insegna l’arte di ma fa’ molto riflettere sul bisogno dell’uomo di primeggiare costantemente sull’altro, con un comportamento egoista e vanesio che eclissa la possibile ricerca di un benessere comune; non importa infatti se la verità viene trovata, a meno che non siamo stati noi a scovarla.
Ma per farlo, per riuscire sempre ad avere ragione e abituarsi alla slealtà come asso nella manica, bisogna fare esercizio, perché la dialettica naturale è un bene distribuito in modo diseguale.
Astuzia e destrezza, spesso innate, sono in quest’arte necessarie per sostenere la propria tesi o demolire quella dell’avversario; ci vogliono prontezza e riflessione, e la dialettica deve insegnare come sferrare attacchi o difendersi da quest’ultimi, senza preoccuparsi della verità, percepita nella contemporaneità come sostegno al proprio argomento e mai come fine ultimo.
Come se affermare di dire il vero lo rendesse tale, senza bisogno di prove.
Ma la dialettica, oltre alla conquista della ragione, ci permette di essere più consapevoli di ciò che ci circonda e dell’altro che parla, ci rende più liberi nella possibilità di comprendere ciò che viene detto, discernendo tra menzogna e verità. Ci permette quindi di essere meno manipolabili, meno influenzabili, perché grazie ad essa, avendo imparato come combattere per le proprie idee a ogni costo o poter mentire dicendo apparentemente il vero, sappiamo riconoscerla e decidere di non farlo; possiamo combattere la slealtà.
Ecco quindi 38 buoni motivi per imparare a vincere in quella che è stata definita la scherma mentale.

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9/3/2019

Butterflies' effects

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di Cristiana Ceccarelli
La festa della donna è appena passata. L’evento a cui si ricollega e le modalità con cui viene ricordata e festeggiata sono svariate e non immuni da trite ripetizioni nelle proposte e nelle critiche.
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Per la ricorrenza vorrei proporre la lettura di questo thriller in cui mi sono imbattuta durante una delle mie infinite ricerche tra le proposte ebook.

Il libro è Il giardino delle farfalle di Dot Hutchison, pubblicato nel 2017 da New Compton.; è il primo capitolo della The Collector Strategy e per settimane è rimasto in vetta alla classifica dei thriller più venduti di Amazon.
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​La storia delle ragazze rapite e tatuate come lepidotteri dal Giardiniere, l’uomo che le collezionava e le segregava nell’immenso giardino vicino alla sua villa, è raccontata attraverso la voce di Maya, una delle Farfalle sopravvissute all’incendio che quattro mesi prima aveva distrutto il giardino.

La storia della segregazione viene ripercorsa in flashback durante l’interrogatorio di Maya con i due agenti di polizia che si occupano del caso, ed è quindi intermittente nel ricordo frastornato della ragazza ancora traumatizzata dall’esperienza, a cui si legano eventi della sua vita precedente, digressioni e racconti sul rapporto con le altre.

Maya però non è il suo vero nome, così come non lo sono nemmeno quelli delle altre ragazze: è la specie delle farfalle che lui ha scelto per ognuna di loro.

È un thriller che cattura per la novità della storia, per l’inventiva del contesto e del rapporto tra i personaggi, per la precisione della descrizione del mondo e delle procedure inventate dal Giardiniere: un mondo con regole proprie, talmente acute da risultare reale, possibile. Nessun aspetto è omesso o dimenticato, ogni minimo dettaglio è spiegato, ogni situazione è calcolata, prevista, a specchio della mente malata e ossessiva dell’uomo che lo ha progettato.

È un modo per ricordarci quanto la nostra persona sia stata e sia ancora troppe volte associata e scambiata a mera figura, piana, senza spessore, da spostare nell’ambiente a piacimento secondo regole decise da altri; e nel libro le ragazze sono scelte per il loro essere figura rappresentativa di una bellezza che tale deve rimanere, sia questa fisica o interiore, che non può essere altro oltre che bellezza, che essendo però soggetta a caducità e alle regole del tempo deve essere colta e immediatamente preservata, cristallizzata; come un ritorno eterno alla crisalide.

“Le creature bellissime hanno vite molto brevi, così mi aveva detto al nostro primo incontro.
Lui se ne assicurava e si forzava di dare alle sue Farfalle una strana specie di immortalità.”

Un thriller asfissiante, e non solo per la prigionia cui le ragazze sono costrette, in un giardino immenso antitetico allo stereotipo del luogo di prigionia tetro e desolato,ma per la condizione e le procedure cui sono sottoposte e obbligate; ma soprattutto paralizzante per il destino ineludibile che le aspetta. C’è chi ha già deciso per loro, ha già deciso tutto; anche quando devono morire.

E il sapere quando condiziona la vita ha un certo amaro torpore, che stona così tanto con la libertà delle farfalle, da rendere le ali tatuate sulle loro schiene una grottesca simbologia della libertà perduta, della vita negata.

Qui si parla di donne costrette da un uomo a vivere sapendo quando moriranno senza la possibilità di decidere come spendere e a cosa dedicarsi durante questo tempo, se non vedersi costrette alla routine imposta e scandita dall’esaudimento dei suoi piaceri e desideri.

Ma nonostante questo il focus non è sul Giardiniere, che compare ma non viene demonizzato, ma sulle ragazze che si rivelano capaci di sopportare la situazione con il sostegno reciproco, che si incoraggiano e si curano, pur consapevoli dell’ineluttabile destino che le aspetta. Il centro sono proprio loro, forti anche nelle debolezze riconosciute, nella ricerca e richiesta di aiuto che è la perseveranza del non volersi mai davvero abbandonare a ciò che è già stato deciso, nonostante il terrore, il dolore e l’agghiacciante consapevolezza delle condizioni.

Le Farfalle trovano il modo di vivere anche all’interno del più cupo e atroce dei contesti, provano a carpire da questo un qualche barlume di vera esistenza, aggrappandosi a sensazioni, piccoli eventi, a se stesse, alle altre.
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Nonostante sia l’uomo che innesca la storia con il loro rapimento, le donne sono qui protagoniste, contrariamente a ciò che potrebbe sembrare, non perché qualcuno le ha scelte, ma per quello che sono e possono essere: amiche, coinquiline, amanti, lavoratrici, vittime, suicide, rivali, leader, confidenti, forti, coraggiose oltre il possibile; cioè persone, persone straordinarie.​

Immagini tratte da:
amazon.it

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2/3/2019

Un Ulisse inedito in scena al Teatro del Giglio di Lucca

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di Enrico Esposito
Un calzolaio. Innominato, che si muove tra i pascoli in compagnia di un remo e di un ragazzo che non pronuncia una sola parola. Un calzolaio che sembra celare dietro di sé ben altro. Un giovane capraio (Vittorio Cerroni), curioso, insolente lo nota. Lo mette sotto torchio, gli offre una capra in cambio di un racconto. L'uomo sconosciuto traballa, si consulta con il ragazzo muto, si lascia convincere. Inizia a raccontare. Ha conosciuto la guerra di Troia, le peripezie di Ulisse nel tentativo di ritornare a Itaca, è il calzolaio di Ulisse. 
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Marco Paolini e la Compagnia, sotto la direzione di Gabriele Vacis e i testi di Francesco Niccolini, omaggiano uno dei più grandi romanzi della storia dell'uomo allestendo "Nel tempo degli dei - Il calzolaio di Ulisse" uno spettacolo denso e sinestetico, un musical senza paure che ripercorre le gesta del leggendario eroe acheo ricoprendole di un'inedita versione contemporanea. Sullo sfondo e nelle parole dei personaggi in scena l'Italia di oggi nelle sue crepe e contraddizioni, smascherata dalle considerazioni del Paolini/ calzolaio. Un calzolaio solo in apparenza scorbutico, ma in realtà desideroso di liberarsi dal peso esorbitante del suo passato. Un passato lungo un ventennio e oltre, che prosegue dopo Itaca, in compagnia di suo figlio. Telemaco (Elia Tapognani) e con lui Ulisse, vertebra e colonna vertebrale, muti, che continuano a vagabondare nonostante le sofferenze dei decenni precedenti. Marco Paolini da narratore poliedrico quale è, riesce con fermezza mista a ironia e drammaticità, a strutturare una figura intrappolata nella maledizione divina, obbligata a scontare per il resto della vita il prezzo dei suoi errori.
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​Ulisse è un assassino. A dirla tutta, è osannato per la sua astuzia fuori dal comune, per la sua lucidità e perspicacia. Ma Ulisse è anche l'uomo che consigliò a Neottolemo, figlio di Achille, di gettare dalle mura di Troia il piccolo Astianatte, figlio di Ettore. Il responsabile del massacro dei 108 Proci con le loro ancelle. Colpe che Ulisse stesso si ripete in continuazione, ombre che ottundono la mente come i ricordi e le voci del suo incredibile pellegrinaggio. La Compagnia compone e conferisce volto e fiato attraverso canti in italiano, greco antico, inglese scritti dal maestro Lorenzo Monguzzi, accompagnato al violino da Elisabetta Bosio, alla chitarra da Vittorio Cerroni, e alla voce e alla danza da Saba Anglana. Attraverso la musica e echi provenienti dalle sue spalle, il calzolaio si spoglia con veemenza delle sue pelli, appare nudo, pieno di piaghe al punto tale che sembra crollare a un certo momento. A sorreggerlo accorre il ragazzo che non ha pronunciato una sillaba per lungo tempo, un Telemaco sornione ma maturo. Non più un semplice esecutore dei comandi del padre. Ma un'ancora necessaria cui il vecchio condottiero si appoggia insieme a quel remo che poggia sulle spalle come Atlante con la Terra.
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​Ulisse è giunto nella valle per cercare un riposo che non vuole ottenere. Ha deciso di sua spontanea volontà di abbandonare ancora Penelope, Sente dentro di sè l'incapacità di sfuggire all'errare che prima gli era stato imposto. Ma questa scelta inattesa rappresenta uno schiaffo finale al potere degli dei. Un sopruso alla loro arroganza.


  Immagini tratte da:


- Immagine 1-2 da https://www.jolefilm.com/
- Immagine 3 da sconfinare.net

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2/3/2019

Un giallo più colorato

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Un romanzo di Joёl Dicker
di Cristiana Ceccarelli

La verità sul caso di Harry Quebert è un giallo di Joёl Dicker, pubblicato per la prima volta nel 2012, con il quale lo scrittore ha vinto il Grand Prix du roman de l’Académie Française e il Prix Goncourt des lycéens.

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Copertina del libro La verità sul caso Harry Quebert

E’ un romanzo ricco di intrecci che fa del giallo il pretesto per incastonare verità e riflessioni su stereotipi e modelli contemporanei. La storia stessa però, si presenta come complessa pur nella semplicità dell’ambientazione e il numero contenuto dei personaggi coinvolti.
Proprio queste caratteristiche rendono il romanzo coinvolgente, perché il lettore ha la possibilità con Marcus Goldman, il protagonista del romanzo, di seguire e recuperare dettagliate analisi e ricerche sui personaggi.
E’ il 2008 e il giovane Marcus, dopo la pubblicazione del primo libro, con il quale ha riscosso un grande successo, si incaglia nel famigerato blocco dello scrittore. Decide per questo di accettare la proposta del suo ex professore, nonché amico, Harry Quebert di passare un po’ di tempo nella sua casa ad Aurora, cittadina tranquilla del New Hampshire, affacciata sull’oceano.
Un cadavere però viene ritrovato nel giardino della casa di Harry, Goose Gove. Il cadavere è di Nola Kellegan, scomparsa nel 1975, del cui omicidio verrà accusato proprio Quebert, lo scrittore più rinomato di America per il libro Le origini del male, già sospettato al tempo della scomparsa. A fugare ogni dubbio sulla sua colpevolezza, la copia originale del suo romanzo che viene estratta insieme ai resti.
Marcus però crede nell’innocenza dell’amico e per questo inizia a indagare, un’indagine che porterà a scavi dolorosi quanto sorprendenti, al suo secondo libro; nella speranza di poter utilizzare lo stesso insegnamento del professore per aiutarlo a risollevarsi: l’arte del saper cadere.
Tipologie di relazioni nuove e spesso codardamente non sperimentate in precedenza si presentano nell’intreccio con tutta la carica emotiva dei loro rituali e della loro unicità, a volte anche opprimente, cieca, che esclude il resto.
Nella narrazione interna, in prima persona, risiede uno dei punti di forza: Marcus Goldman si fa conoscere a fondo, e con lui ci permette di perlustrare le coscienze e le prospettive degli altri, le loro debolezze, i loro passi falsi, ma anche le loro virtù legate spesso a sogni infranti da prigionie astratte; ovviamente con i tempi da lui studiati affinché l’effetto sorpresa sia sempre in agguato, rendendo il ricredersi e il ristabilire opinioni il leitmotiv del romanzo.
Il romanzo ci lancia il guanto di sfida, ci interroga: Qual è il nostro rapporto con l’errore, il fallimento? Come siamo in grado di gestire le sconfitte? Abbiamo il coraggio di affrontarle, cedere alle situazioni che le comportano? Perché ne abbiamo così paura? Cosa siamo disposti a fare pur di non fallire?
Buona parte del tempo di lettura è impiegato dal lettore per metabolizzare la relazione che viene alla luce insieme al cadavere della ragazza scomparsa 33 anni prima; una relazione che porterebbe il lettore a desistere nel proseguire la scoperta del racconto se non ne fosse già stato catturato irrimediabilmente.
E’ una relazione che può dare fastidio, per ciò che ci è stato insegnato e mostrato come giusto o sbagliato, e che non smette di ripresentarsi fastidiosa fino a quando la necessità di proseguire non riprende il sopravvento.
Ma qui si presenta il vero giallo: come può una relazione primeggiare nella scala delle forti reazioni su un omicidio?
E’ una provocazione, è una prova. Quanto gli stereotipi e le credenze possono essere sfidate? Supportate, sopportate? Quanto sono radicate in noi? Quanto la curiosità individuale vince sulle credenze collettive? Cosa è giusto o sbagliato? Esiste la verità? Quante ne esistono?
Quesiti come questi si legano alla vicenda, riportata nel dettaglio delle indagini miste a riflessioni personali, rette parallele destinate ad incontrarsi nel labile confine tra oggettivo e oggettivo, tra razionalità e sentimento.
Il romanzo è un incessante suspence che mitiga l’attesa con maestria di descrizione e attenzione al dettaglio interno, un’attesa che non tedia ma che contribuisce a creare tempo per la costruzione di trame dai nuovi significati, tutti da ricercare e scoprire; prima che venga svelato l’ennesimo tassello che innesca nuovamente il circolo narrativo.
E’ un romanzo letteralmente travolgente che fa’ percepire le 700 pagine come collassate in un insieme consumato velocemente, tanto incita la foga della lettura.
Scorrevole, coinvolgente, deviante, conciliante, trasporta il lettore nella cittadina, lo rende partecipe dell’analisi dei personaggi e delle scoperte, svelate pian piano, non senza false piste, cambiamenti nel punto di vista. Perché i colpi di scena sono proprio questi cambiamenti, queste diverse prospettive concesse nel turno della parola, del segreto.
E’ un giallo che si muove tra i fili delle psicologie umane, che evita dettagli o scene macabre e rende il senso dell’orrore non con la morte ma con lo scandalo di ciò che è avvenuto prima: non banale.
Un’altra caratteristica distintiva è l’apertura di ogni capitolo, che si presenta come un dialogo o una riflessione del professore per l’allievo, quasi come fossero, consigli da seguire; che a ben leggere possono essere percepiti come anticipazioni nascoste dietro la lezione del maestro, quasi fosse lo schema che lo scrittore ha seguito per costruire il romanzo, condividendolo con il lettore: al colpo finale corrisponde il colpo di scena, al saper cadere la caduta; o come se lo scrittore stesso presentasse le sue stesse speranze, comunicando implicitamente gli effetti che ha desiderato trasmettere con le sue parole.

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767 Apertura dell’epilogo
Questi incipit ricorrenti sembrano dolcemente insicuri, quasi come se lo scrittore avesse avuto paura che le frasi non bastassero da sole nel loro intento, non senza una previa preparazione e influenza del lettore.

Immagini tratte da:
Foto autore


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2/3/2019

Al Teatro Era va in scena "La Scortecata" di Emma Dante

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SABATO 2 MARZO ore 21
“LA SCORTECATA”
regia di EMMA DANTE

Con Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola
Elementi scenici e costumi Emma Dante
Luci Cristian Zucaro
Assistente di produzione Daniela Gusmano
Assistente di produzione Daniela Gusmano assistente alla regia Manuel Capraro Manuel Capraro
Regia Emma Dante
Produzione Festival di Spoleto 60, Teatro Biondo di Palermo
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La Stagione del Teatro Era (Pontedera) sabato 2 marzo porta in scena uno degli spettacoli più attesi: Emma Dante dirige “La scortecata”, una favola senza tempo, grottesca e affascinante, rivisitazione della celebre novella della raccolta Lo cunto de li cunti di Giovambattista Basile. È la storia di due ‘vecchie’, interpretate da due uomini, Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola e di un re che s’innamora della voce di una delle due e la invita a passare la notte con lui. Il sovrano appena si accorge dell’inganno, la butta giù dalla finestra, ma un incantesimo muterà le sorti dei protagonisti. Una produzione Festival di Spoleto 60, Teatro Biondo di Palermo.
“Lo cunto de li cunti overo lo trattenimiento de peccerille”, noto anche col titolo di “Pentamerone” (cinque giornate), è una raccolta di cinquanta fiabe raccontate in cinque giornate. Prendendo spunto dalle novelle popolari, Giambattista Basile crea un mondo affascinante e sofisticato partendo dal basso. Il dialetto napoletano dei suoi personaggi, nutrito di espressioni gergali, proverbi e invettive popolari, produce modi e forme espressamente teatrali tra lazzi della commedia dell’arte e dialoghi shakespeariani. Come una partitura metrica, la lingua di Basile cerca la verità senza rinunciare ai ghirigori barocchi della scrittura.
La scortecata è lo trattenimiento decemo de la iornata primma

La scortecata è lo trattenimiento decemo de la iornata primma e narra la storia di un re che s’innamora della voce di una vecchia, che vive in una catapecchia insieme alla sorella più vecchia di lei. Il re, gabbato dal dito che la vecchia gli mostra dal buco della serratura, la invita a dormire con lui. Ma dopo l’amplesso, accorgendosi di essere stato ingannato, la butta giù dalla finestra. La vecchia non muore, perché riesce a restare appesa a un albero. Una fata, lì di passaggio, fa un incantesimo e la trasforma in una bellissima giovane. Il re, allora, la prende in moglie.

In una scena vuota, due uomini, a cui sono affidati i ruoli femminili come nella tradizione del teatro settecentesco, drammatizzano la fiaba incarnando le due vecchie e il re. Basteranno due seggiulelle per fare il vascio, una porta per fare entra ed esci dalla catapecchia e un castello in miniatura per evocare il sogno. Le due vecchie, sole e brutte, si sopportano a fatica, ma non possono vivere l’una senza l’altra. Per far passare il tempo nella loro misera vita inscenano la favola con umorismo e volgarità, e quando alla fine non arriva il fatidico: “e vissero felici e contenti…” la più giovane, novantenne, chiede alla sorella di scorticarla per far uscire dalla pelle vecchia la pelle nuova.

Dopo lo spettacolo si terrà un incontro con la compagnia, aperto al pubblico, coordinato da Anna Barsotti. L’incontro è inserito nel progetto di formazione “Scritture sulla Scena” che prevede un ciclo di approfondimenti critici sulle differenti funzioni e forme che drammaturgia e regia assumono sulla scena contemporanea, con il coordinamento scientifico di Anna Barsotti, ed Eva Marinai, docenti di discipline dello spettacolo dell’Università di Pisa. Costo biglietti 20 intero, 17 ridotto. Tutte le info su www.teatroera.it
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​Emma Dante: nata a Palermo nel 1967, esplora il tema della famiglia e dell’emarginazione attraverso una poetica di tensione e follia nella quale non manca una punta di umorismo. Drammaturga e regista si è diplomata a Roma nel 1990 all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Nel1999 costituisce a Palermo la compagnia Sud Costa Occidentale con la quale vince il premio Scenario 2001 per il progetto “mPalermu” e il premio Ubu 2002 come novità italiana. Nel 2001 vince il premio Lo Straniero, assegnato da Goffredo Fofi, come giovane regista emergente, nel 2003 il premio Ubu con lo spettacolo “Carnezzeria” come migliore novità italiana e nel 2004 il premio “Gassman” come migliore regista italiana e il premio della critica (Associazione Nazionale Critici del Teatro) per la drammaturgia e la regia. Nel 2005, vince il premio Golden Graal come migliore regista per lo spettacolo “Medea”.

Ha pubblicato “Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana” con una prefazione di Andrea Camilleri (Fazi 2007) e il suo primo romanzo “via Castellana Bandiera” (Rizzoli 2008), vincitrice del premio Vittorini e del Super Vittorini 2009. Nell’ottobre del 2009 le viene assegnato il premio Sinopoli per la cultura. Il 7 dicembre del 2009 inaugura la stagione del teatro alla Scala con la regia di Carmen di Bizet diretta da Daniel Barenboim.
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Dal gennaio 2011 gira in Italia e all’estero lo spettacolo “la trilogia degli occhiali”, pubblicato da Rizzoli, costituito da tre capitoli: Acquasanta, il castello della Zisa e Ballarini. Nell’aprile 2012
debutta a Parigi all’Operà Comique “La muta di Portici” di Auber diretta da Patrick Davin che viene ripresa nel marzo 2013 al teatro Petruzzelli di Bari con la direzione di Alain Guingal con grande successo di pubblico e di critica. Con “La muta di Portici” vince il premio Abbiati nel 2014. Nell’ottobre 2012 debutta, al teatro Olimpico di Vicenza, “verso Medea” tratta da Euripide, con musiche e canti composti ed eseguiti dal vivo dai fratelli Mancuso. Nel 2013 Presenta in concorso alla 70 edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film “Via Castellana Bandiera” tratto dall’omonimo romanzo, a conclusione della quale Elena Cotta vince la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile.

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