Hand and soul, poema allegorico ambientato nell'Italia del XIII secolo, narra la storia di Chiaro dell'Erma, pittore immaginario aretino ispirato a Beato Angelico. Nell'opera, che può essere considerata il lavoro chiave della narrativa preraffaellita, emerge l'estetica di Gabriel Dante Rossetti e, in generale, di tutta la corrente preraffaellita.
All'età di nove anni Chiaro, dopo aver sentito parlare di un certo Giunta Pisano, decide di recarsi a Pisa per diventare suo discepolo. L'incontro con il maestro, tuttavia, non andò come previsto: il giovane pittore aretino, infatti, rimase molto deluso delle opere del Pisano, trovandole incomplete e prive di vita. Quello che doveva trasformarsi in un sodalizio tra i due pittori, sancendo la maturazione artistica di Chiaro, si rivelò un totale fallimento. Chiaro finì addirittura per dubitare della sua stessa arte, preferendo a essa i piaceri della vita. L'incontro con il celebre Bonaventura da nuova linfa creativa al giovane Chiaro, convinto di aver finalmente compreso quale sia l'essenza dell'arte. Il pittore aretino, nonostante la fama raggiunta «his name was spoken in all Tuscany» e un nuovo modo di concepire l'arte (una visione ascetica «a felling of worship» e allegorica del Cristo), non è felice dei risultati raggiunti, convinto che nella sua opera prevalga il senso estetico a quello mistico. Questo nuovo insuccesso, esasperato dalla distruzione di uno dei suoi dipinti in un conflitto tra due famiglie rivali, sfociò in una nuova crisi. ![]()
Ecco allora entrare in soccorso la donna-anima, personificazione dell'arte e della donna amata dal giovane pittore, a condurre Chiaro sulla retta via, svelandogli le linee guida dell'arte preraffaellita. Il giovane pittore comprende come l'arte debba essere spontanea, non ricerca ossessiva e divinizzazione del sacro come aveva pensato fino a quel momento. L'arte per Gabriel Dante Rossetti scaturisce dal cuore «seek thine own conscience and all shall approve the suffice» e solo intraprendendo un percorso interiore il poeta può riuscire a trasporre le proprie emozioni e il proprio io su tela.
Il nome “Chiaro” simboleggia, quindi, la spiritualità e il genio creativo del giovane pittore. Per tutto il racconto “l'aretino” ricerca la quintessenza dell'arte invano, senza mai essere del tutto soddisfatto del suo operato. Solo l'intervento divino, la donna-anima, incarnazione dell'arte, consente a Chiaro di comprendere la vera essenza dell'arte preraffaellita. Nel finale, il sonno di Chiaro rappresenta la morte del suo vecchio Io, mentre la rinascita del poeta (non compreso dagli artisti a lui contemporanei) avviene solo in termini artistici.
Immagini tratte da:
- Pre-Raphaelite Sisterhood
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Propizio è avere ove recarsi è l'ultimo libro di Emmanuel Carrère, finalmente portato in Italia da Adelphi dopo alcuini anni dalla sua prima uscita francese. Il titolo del libro di Carrère è tratto dall'I Ching: è una delle risposte che consiglia, a chi lo interroga, di intraprendere un viaggio. Che è un modo (forse il migliore) per scoprirsi e per scoprire gli altri. E il libro di Carrère è pieno di partenze e arrivi, di racconti di viaggi, di persone e di esperienze. La Russia, innanzitutto, in cui Carrère è tornato più volte e a cui lo lega una sorta di rapporto speciale. Ma anche i Balcani, la Transilvania (sulle orme del Dracula di Bram Stoker) e, naturalmente, la Francia. "Propizio è avere ove recarsi" è una raccolta di alcuni degli articoli pubblicati da Carrère nel corso della sua carriera. E' un insieme di storie interessanti e appassionanti, in cui spiccano personaggi e situazioni raccontati con una maestria unica. C'è la storia di Jean-Claude Romand, che Carrère aveva seguito quando era solo un semi sconosciuto giornalista di cronaca giudiziaria. Romand aveva ucciso la moglie, i figli e i genitori dopo essersi finto medico per oltre 18 anni. Carrère era stato profondamente scosso da questa vicenda, tanto da ispirarvisi per uno dei suoi libri, ''L'avversario''. C'è l'uomo dei dadi, uno scrittore americano che Carrère va a intervistare e da cui nasce un'intervista surreale e affascinante. C'è la storia dell'incontro con Limonov, uno degli intellettuali russi più influenti e controversi, in grado di essere allo stesso tempo poeta, scrittore, politico e combattente rivoluzionario. In questa galleria di personaggi e storie straordinarie ce n'è uno che spicca più di tutti, ed è proprio Emmanuel Carrère. La personalità dello scrittore francese traspare con forza tra le righe: alla fine del libro sembra di conoscerlo da sempre. Ci parla delle sue passioni, dei libri che gli sono entrati in testa e delle donne che lo hanno fatto innamorare, ci racconta di posti, persone e situazioni che lo hanno cambiato. Nel suo modo di scrivere Carrère mette tutto se stesso nella pagina: perché, sì, bisogna anche avere il coraggio di raccontare di aver saputo ridere prima del funerale di una bambina morta durante lo tsunami in Sri Lanka, essere in grado di raccontare il sesso e l'amore, saper parlare allo stesso modo (e con la stessa passione) di Philip Dick, di Flaubert e di uno sconosciuto fumettista russo. Carrère in "Propizio è avere ove recarsi" fa tutto questo. Parla di sé attraverso le sue passioni e le sue esperienze. E lo fa così bene che viene la voglia di continuare a leggere, pagina dopo pagina, per poter dire, alla fine, ''ecco: ho conosciuto Emmanuel Carrère''. Potrebbe interessarti anche: Immagini tratte da: - https://www.adelphi.it/libro/9788845931512 -http://duels.it/persone/emmanuel-carrere-il-cristianesimo-non-e-una-dottrina-e-una-narrazione/
Il celebre fumettista nato a Pisa chiude alla grande la terza edizione della rassegna "Fumetti e Popcorn" (a cura di Alessandra Ioalè e Maurizio Vaccaro) presentando il suo ultimo lavoro in cui si cala nei panni di "marito" del cinema.
Comincia parlando di "Fast & Furious 8". Nella sala del piccolo ma colmo Cinema Lanteri, si diffonde inevitabile una pioggia di sghignazzamenti tanto da parte dei suoi fans affezionati quanto di curiosi come il sottoscritto che di Leo Ortolani non conosce nemmeno il volto. È proprio il suo volto, dotato di una mimica facciale esilarante, ad accogliere con cordialità e volontà di fare una bella chiacchierata tutti quelli che gli stanno di fronte. Normalmente durante la presentazione di un libro, specialmente molto nutrita, si cerca quantomeno all'inizio di mantenere una certa distanza tra i relatori e gli ascoltatori, ai quali è concesso il classico momento delle domande alla fine dell'incontro. Nel caso della presentazione de "CineMAH - Il buio in sala", edito da Bao Publishing, tale distanza non è stata mai voluta veramente da nessuno, dal momento che sarebbe andata sgradevolmente in contrasto con lo spirito stesso dell'artista Ortolani, e della sua filosofia espressiva, e nondimeno con il suo rapporto vispo con i lettori. Dicevamo di "Fast & Furious", ma non dicevamo che Leo ha apprezzato "Fast & Furious 8" seppur tenendo ben presente il tipo di pellicola e i suoi alti limiti dal punto di vista della trama. Ha riconosciuto il miglioramento dell'intera saga di "F&F", un salto di qualità degno di nota negli ultimi capitoli dopo i primi pacchiani esordi. La sua analisi è stata candida e ironica al punto giusto, e soprattutto senza falsi pudori, senza alcun velo del prevenuto e vomitevole moralismo che al giorno d'oggi infetta il cittadino medio nell'approcciarsi a un film, come a una persona e a una scelta di vita. Certamente a Leo Ortolani non piacciono tutti i film del mondo. Come Yotobi dedica le recensioni alle boiate cinematografiche più assurde vedi i capolavori by Asylum, così Leo nei fumetti del suo ultimo libro, (del quale ha già annunciato un seguito in tempi non lunghissimi) mette in rilievo le diversissime reazioni che lui in prima persona, il suo fedelissimo "sodale" di cinema Marcello Cavalli, la figlia Johanna e non solo, istantaneamente hanno provato al buio della sala. Dallo schifo all'esaltazione, dalla delusione all'apoteosi. Dal terribile "Prometheus" al confronto con Ermanno Olmi, la dipendenza da "Star Trek" e "Star Wars", l'assetata scoperta della riproposizione dei supereroi Marvel.
Spalleggiato a colpi di amarcord, battute e popcorn dal collega Andrea Piatti, tuttavia il creatore di Rat-man ha guardato oltre gli schizzi di "CineMAH", e da vero "marito del cinema" come si autodefinisce, ha proseguito sul "Blue Tornado" a commentare in stretto contatto con il pubblico gli ultimi film che ha visto. E così alla domanda sull'ultimo lungometraggio che ha più adorato, senza indugi ha nominato "La La Land", la sua non appartenenza alla categoria dei "musical", il suo finale intriso. Dall'altro lato, una condanna secca l'ha riservata a "Life", il film di fantascienza uscito da pochissimo che da Marte lancia sulla Terra una pericolosissima stella marina, e ne ha approfittato per svelare il suo work in progress su una nuova storia propostagli dall'Agenzia spaziale italiana. Poi c'è "Passengers", altra perla futuristica, in cui ci si imbatte in una bizzarra giustificazione dello stupro, "Ghost in the Shell", con una Scarlett Johansson messa lì in nome del Dio botteghino, e l'appetito a 50 anni ancora furente di soggetti su soggetti, di fiaschi clamorosi e produzioni all'altezza. La curiosità di non lasciarsi scappare i grandi appuntamenti, di esserci lì a vedere coi propri occhi, e poi a ricostruirne il giudizio per gli occhi degli altri. "CINEMAH – Il buio in sala" vive di questa curiosità. E ho detto tutto, come il buon Totò, ora perso da più di cinquant'anni.
Per approfondire:
- Il blog di Leo Ortolani : https://leortola.wordpress.com/ - I socials di Leo Ortolani : Facebook - https://www.facebook.com/Leo-Ortolani-Official-and-Gentleman-280422748761332/; Twitter - https://twitter.com/leo_ortolani - Il sito ufficiale della Bao Publishing : http://www.baopublishing.it/ - La pagina facebook di Fumetti e Popcorn : https://www.facebook.com/Fumetti-Popcorn-905515006219365/ Immagini tratte da: - Immagine 1 da www.fumettologica.it - Galleria 1 da foto dell'autore - Immagine 5 da www.rat-man.org
Bertolt Brecht (1898-1956) rappresenta uno dei più importanti esponenti della letteratura tedesca del Novecento; ha spaziato dalla narrativa, alla saggistica, alla poesia ma la sua produzione più illustre è quella teatrale, tra cui si annoverano Leben des Galilei (1938-1956, in più versioni legate al suo esilio, “Vita di Galileo”) e Mutter Courage und ihre Kinder (1939, “Madre Coraggio e i suoi figli”).
La sua formazione luterana segnerà in modo particolare il suo stile e la sua lingua, a causa della lirica religiosa e della riflessione linguistica del grande riformatore tedesco. Come ho già evidenziato, Brecht è passato alla storia per la rivoluzione teatrale, enunciata nell’opera teatrale a contenuto saggistico Die Rundköpfe und die Spitzköpfe (1936, “Teste tonde e teste a punta”). Il drammaturgo dichiara definitivamente finita la drammaturgia aristotelica per delinearne una di impianto marxista. Si supera la catarsi (la purificazione dalle emozioni che gli spettatori vivevano nella rappresentazione) per arrivare al cosiddetto straniamento: il pubblico non è più invitato a partecipare emotivamente sulla scena, ma a riflettere su ciò che vede. Per ottenere ciò, Brecht si affida a canzoni o striscioni, i quali hanno uno scopo didattico e non più morale.
Il teatro brechtiano non è più classico-aristotelico, basato sui precetti della Poetica, ma è invece di ordine marxista-materialista: si assiste a una descrizione scientifica della realtà, con un’attenta rappresentazione dei contrasti e dei dissidi sociali. Questo nuovo ordine sociale si ritrova nella “Vita di Galileo”. Il dramma è stato soggetto a diverse riscritture, legate all’esilio dello scrittore e al suo rapporto problematico con la figura stessa di Galileo: se nella prima stesura lo scienziato italiano è rappresentato come vittima del sistema oppressivo della Chiesa romana, lo stesso non si può dire delle versioni successive, dove lo scienziato pisano è ormai diventato un codardo che, invece di sacrificarsi per il bene e per l’amore della scienza, preferisce salvare la pelle e abiurare di fronte alle torture del Sant’Uffizio.
In “Madre Coraggio e i suoi figli” i dolori e la tragedia della II Guerra Mondiale sono simboleggiati da un altro sanguinoso conflitto che vide protagonista un intero continente, la Guerra dei Trent’Anni. Ricorrendo alla sovrapposizione dei piani storici e a cartelloni, il messaggio di Brecht diventa potente: la guerra uccide tutti e ci rende tutti più poveri.
La tensione politica si respira anche in poesia, specialmente in “Domande di un lettore operaio”, dove lo scrittore fa sue la posizione di Walter Benjamin sul corso della storia: tutti si ricorderanno delle imprese di Giulio Cesare o Alessandro Magno, ma nessuno mai ricorderà il contributo dato ai trionfi dalle persone minori, come i costruttori delle porte di Tebe.
Ho scelto di parlare di Bertolt Brecht poiché rappresenta uno dei più importanti drammaturghi e intellettuali del Novecento, ma soprattutto perché il suo messaggio etico e politico è di fondamentale importanza, in un’epoca dove ci accingiamo a rivivere la minaccia della guerra o l’affacciarsi di dittatori spietati.
Immagini tratte da: https://pbs.twimg.com/media/CD2-hzPWIAMytwX.jpg http://oubliettemagazine.com/wp-content/uploads/bertolt-brecht.jpg http://www.einaudi.it/media/img/978880606296MED.jpg http://www.einaudi.it/libri/libro/bertolt-brecht/madre-courage-e-i-suoi-figli/978880606346 Angelo Agnello debutta con il primo giallo ambientato in uno storico mercato del capoluogo siciliano Tendoni cremisi che si aprono, come in un teatro, su un tragico fatto di sangue. Un giovane coraggioso che, in barba all’omertà diffusa, indaga fino a scoprire cose indicibili. Una splendida Palermo che diventa, ancora una volta, palcoscenico di un giallo fitto di misteri e di suspense mozzafiato. Uscirà nelle librerie a fine mese, “Tende rosse”, il secondo romanzo della collana Giallo/Nero edito da Bonfirraro, tutto giocato su queste sapienti caratteristiche, acutamente equilibrate, che contribuiscono a fare dell’opera d’esordio dell’autore Angelo Agnello un piccolo capolavoro del mistery formato siciliano. Sì, perché il noto architetto palermitano con la passione per la letteratura, ha concepito il suo giallo interamente ambientato in uno storico mercato popolare di Palermo, facilmente individuabile, raccontandolo con dovizia di particolari e pensando di poter catturare il suo lettore in un’esperienza di tipo sensoriale, proprio come nello storico quadro di Renato Guttuso. L’incipit è, infatti, tra i più accattivanti: proprio come fosse un lavoro cinematografico, la penna dello scrittore si ferma sui tendoni che ogni mattina si spiegano al sole caldo di Sicilia, custodendo odori, colori e sapori che si alternano e vivificano tra le storiche bancarelle, non molto dissimili da quelle orientali. È tra questi vicoli strettissimi, talmente angusti da mozzare il fiato, che incontriamo Giovanni, il giovane protagonista: un ragazzo come tanti, curioso e volenteroso, ma che a differenza di altri, insegue l’odore forte della libertà. Libertà che fa rima, purtroppo, con omertà, il muro davanti sul quale il protagonista si ritrova più volte a sbattere. Un giorno, infatti, diverrà involontario testimone di un fatto di sangue efferato: da semplice spettatore, il ragazzo si impegnerà a collaborare con le indagini, incurante delle conseguenze, spezzando così l’atmosfera omertosa e ribellandosi alla cultura mafiosa di cui il mercato è intriso. L’incontro, poi, con Valeria, ragazza cieca ma che saprà vedere “oltre”, gli cambierà la vita e i due inizieranno un’intensa e travagliata storia d’amore. Insieme, affiancati da un amico libraio, indagheranno autonomamente sui misteri di un losco traffico della malavita, scoprendo, tra un colpo di scena e l’altro, che “l’inferno” può davvero esistere. Un giallo ben congeniato, dunque, con uno stile semplice, piano e cadenzato, che si inserisce nel solco della triade selleriana Camilleri – Piazzese – Savatteri, ma dalla quale si distingue profondamente proprio per la scelta di parlare comunque della mafia, “cancro” che permea ogni angolo di questa Sicilia dolce- amara, in cui la giustizia fatica a fare il suo corso e applicare le leggi è molto complesso, a causa di un tessuto sociale intriso da quei mali che nel tempo sono diventati un vero e proprio ostacolo al cambiamento. Ed è così, infatti che lo stesso autore spiega le sue scelte: «Ho voluto raccontare così la mia città, anche in alcuni aspetti forse poco noti come la Palermo sotterranea e quella zona grigia dove la vita di ogni giorno può venire a contatto con la criminalità organizzata». Proprio per la sua appartenenza al filone nazionale del “Giallo sociale”, “Tende rosse” è entrato a pieno titolo nell’incipiente collana giallonero siglata Bonfirraro editore, che ha così voluto scommettere su una schiera di giallisti in ogni angolo d’Italia che potessero servirsi della propria scrittura per intrecciare il personale e il politico, pezzi di storia d’Italia, e in particolar modo di quella Meridionale, avvolti ancora da troppi misteri con l’ansia di rivolta e riscatto, e ancora brandelli di memoria e di vissuto tragico o comunque borderline, con denunce e ritratti a tinte fosche della realtà quotidiana. «Tutti conosciamo la storia ufficiale dopo le stragi del 1992 – ha dichiarato l’editore Salvo Bonfirraro – ma cosa c’è ancora da scoprire e da denunciare tra le pieghe nascoste della società attuale? Agnello è stata per noi una piacevole scoperta proprio perché ci ha condotto tra le nebbie attuali di una città solare che crea un mondo indistinto dove il coinvolgimento è sempre possibile, per chiunque, pur non negandoci un lieve barlume di speranza». “Dopo la sua bottega c’era Hassam, Assà per il mercato. Vendeva spezie di ogni tipo: pepe di ogni colore, curcuma, zenzero, cannella, paprika, sesamo, coriandolo, cardamomo e miscugli di spezie dai nomi esotici. Un’odorosa e infinita tavoloccia di colori…” Da “Tende rosse”, Angelo Agnello (Bonfirraro, 2017)
The divergent saga, trilogia distopica lanciata da Veronica Roth nel 2011, tratta di come, in un futuro non specificato, gli abitanti di Chicago sono gli unici superstiti di una civiltà che pare essersi estinta. In questo mondo dai confini temporali sconosciuti, i vertici della città decidono di ideare un metodo per difendersi dalle minacce esterne.
Uno stile narrativo asciutto, penetrante e incisivo, una protagonista forte e ribelle, le cui insicurezze riflettono le paure dell'età adolescenziale, e l'universo distopico sin dalle prime pagine conquistano il lettore, portandolo a domandarsi cosa si cela al di là di quel muro tanto misterioso. La scelta di lasciare sin da subito numerose domande aperte, che troveranno risposta nei libri successivi (Cosa ha portato alla distruzione della civiltà? Cosa è la grande pace? Perché sono solo loro, apparentemente, gli unici superstiti?), fa sì che il lettore si cali perfettamente in questo mondo in cui gli esseri umani, classificati in base alle proprie attitudini e suddivisi in cinque fazioni apparentemente equilibrate (Abneganti, Candidi, Pacifici, Intrepidi e Eruditi), si trovano a gestire una situazione post bellica.
Come accade in molti libri distopici, il giorno più atteso dalla protagonista, ossia quello del test attitudinale per scoprire la sua categoria d’appartenenza, avrà un esito sconvolgente. Lei, abnegante di natura e quindi portata ad aiutare il prossimo, non rientra in nessuna categoria. Divergente, dice il risultato. Una persona che non può essere controllata dalla società, una minaccia vivente perché esula da ogni schema di ordine gerarchico.
Confusa e spaventata, Beatrice si ritrova a scegliere, nell'incertezza più totale, la fazione al quale apparterrà per il resto della sua vita. "La fazione viene prima del sangue", dicono i vertici della società, una decisione che deve venire dal profondo del cuore e che può andare contro al test attitudinale. Coloro che non sanno cosa scegliere, o che abbandono la loro fazione dopo aver effettuato la scelta, vengono esclusi dalla società. Veronica Roth, pertanto, ci presenta un mondo apparentemente funzionale, ma fortemente crudele, in cui Beatrice non si riconosce. La donna, per ribellarsi a questa sorta di schiavitù mentale, sceglie la fazione forse meno conforme alla sua natura, quella degli intrepidi, i paladini della giustizia che passano il tempo a sfidare la paura e i propri limiti.
Da questo momento inizia per Tris (questo il nome che l’intrepida adotterà da ora in poi) una strada all'insegna della riscoperta di sé stessa, all'insegna del rischio e del pericolo che la vede, dopo un duro allenamento, superare le sue incertezze e le sue paure. Tris rinuncia alla sua vita, si abitua a nuove regole, nuovi compagni e nuovi princìpi morali; in un mondo che la porta a ragionare e compiere azioni non conformi all’universo degli intrepidi. La sua mente, elastica e superiore alla media, la porta a divergere dalle regole che disciplinano la società, proprio perché pericolosa e difficile da plasmare.
Un’opera, pertanto, accostabile per tematiche ai romanzi fantascientifici di H.G. Wells, il romanzo 1984 di George Orwell, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e Hunger Games di Suzanne Collins, uscito nel “lontano” 2009 ma diventato famoso al grande pubblico, grazie all’uscita del primo film, nel 2012. Un’opera moderna, metafora della decadenza di una società sempre più succube ai disastri ambientali e alle sperimentazioni causate dall’uomo e di un organo centrale che detiene sempre più il controllo della nostra esistenza. Immagini tratte da: loganbushey.com
Ritorna, attesissima, sulla scena editoriale la scrittrice siciliana Cinzia Nazzareno e lo fa con il romanzo “Lo Scarabocchio”, delicato e travolgente, in libreria dal 1° aprile. Dopo il sorprendente esordio Il sole in fondo al cuore, accolto da lusinghieri giudizi di pubblico e di critica, questa volta la penna delicata e intimista della niscemese ha immaginato un viaggio all’interno di uno spaccato storico e sociale che ricrea un contesto cieco e bigotto, pervaso da infiniti pregiudizi nei confronti della “diversità”, che sopprime con il biasimo e la critica qualsiasi afflato di libertà. Olmo è, infatti, un piccolo borgo siciliano degli anni ’70. È qui che vive la famiglia, apparentemente felice, di Filippo Aletta, un ex dongiovanni, adesso attorniato dalla stima sociale dei compaesani e da una ricchezza inestimabile. Soltanto il suo ultimogenito, lo strano e tormentato Gianni, detto “Genny”, gli desta alcune preoccupazioni. Ma il ragazzo vuol sentirsi libero e, al di là delle rigorose logiche familiari, manifesta la sua vera identità che lo vede donna intrappolato in un corpo di un giovane imberbe. Il padre, in preda a una crisi di nervi, lo caccia da casa e gli intima l’immediato trasferimento a Roma. È lì che, ingenuo, spera di incontrare il vero amore… La data d’uscita del libro non è di certo stata scelta a caso, proprio perché rinvia al notorio “scherzo” d’aprile. Per molti, infatti, Genny è soltanto uno “scherzo” della natura, ma quella della Nazzareno, che affronta tutto con delicatezza senza mai calarsi in descrizioni perverse e pruriginose, funge da forte denuncia di quell’atmosfera culturale ancora brancatiana, ossessionata dal sesso e dalla virilità da affermare e manifestare a tutti i costi, e prosegue con colpi di scena che sbaragliano anche i protagonisti, fino a giungere a uno struggente finale mozzafiato. Due, inoltre, le chiavi di lettura del romanzo, visto che l’autrice costruisce “Lo scarabocchio” con una particolare e straordinaria struttura a cornice, che apre, pervade e chiude il racconto e ne rivela il messaggio più profondo, non dimenticando mai l’impatto con l’attualità e invitando senz’altro a riflettere sull’infinita complessità del reale. Ricco di suspense, forte e struggente in alcuni momenti narrativi, il romanzo è addolcito dallo scavo psicologico nell’animo di un giovane innocente, tant’è che Emanuela Ersilia Abbadessa, una delle più note scrittrici del panorama nazionale, tra le prime ad aver letto il libro in anteprima, ha voluto dedicare un endorsement non indifferente. “La Nazzareno - ha scritto per la quarta di copertina - racconta con delicatezza un’intera epopea familiare, attraverso la difficoltà di una protagonista in absentia, intima e lieve, che vuole affermare la propria identità sessuale in una Sicilia ancora impreparata al cambiamento”. «La Nazzareno ci ha sorpreso ancora una volta – dichiara l’editore Bonfirraro – riconfermandosi grande affabulatrice di storie non facili da raccontare, vivificate dal suo animo delicato di scrittrice e dalla sua grande forza emotiva, caratteristiche che ci colpirono sin dal primo incontro». Un lavoro non indifferente per l’autrice, che ha approfittato dei due anni di lontananza dalla scena letteraria per approfondire e rielaborare la propria scrittura, diventata più matura e ariosa, che si incanala sulla linea della riflessione della complessità dei rapporti umani tra consanguinei, già toccata nel precedente racconto. Originale anche la scelta neorealistica della lingua, che la fa annoverare anche tra gli epigoni del maestro Camilleri, in questa Sicilia così barocca che permette pure di inventare il linguaggio.
Questa celebre citazione indica il carattere titanico e romantico di uno dei più importanti esponenti della nostra letteratura, Vittorio Amedeo Alfieri (1749-1803), nato, come egli stesso scrive nella sua autobiografia, Vita scritta da esso, da genitori nobili e onesti.
Nonostante i natali piemontesi, Alfieri nutriva una fortissima ammirazione per il toscano e per i grandi scrittori toscani, come Dante, Petrarca e Machiavelli, tantoché ebbe frequentemente a visitare la Toscana e Firenze. Al contempo, egli apprezzava anche l’Illuminismo e Voltaire, cosa che contribuì alla formazione di una mente razionale, laica, libertaria, unita al gusto per l’esaltazione tipicamente romantica del genio. Come tutti gli intellettuali di questo periodo, anche Alfieri si contraddistingue per la contraddittorietà e l’irruenza.
Alfieri è celebre per la composizione di diverse tragedie di argomento storico-religioso, come Saul (1782), dove il protagonista è il celebre re biblico, o Maria Stuarda (1778), la famosa regina di Scozia fatta giustiziare da Elisabetta I. Come procedeva l’autore nella stesura delle sue opere? Essa era articolata in tre fasi: ideare (predisporre il soggetto dell’opera e la caratterizzazione dei personaggi), stendere (organizzare il testo) e verseggiare (scrivere il tutto in endecasillabi sciolti). Alfieri rispettava rigorosamente le unità aristoteliche. Saul è probabilmente la tragedia più intensa dello scrittore astigiano: protagonista è il re del Vecchio Testamento, dilaniato da passioni opposte, ma dal forte senso morale ed etico. I suoi conflitti interiori possono soltanto acquietarsi attraverso un gesto estremo, cioè il suicidio. Dandosi alla morte egli non soltanto si libera dai suoi tormenti, ma anche dal male che lo circonda. Il Saul alfieriano è dunque simile al Bruto minore leopardiano, il quale sceglie la stoica etica del suicidio pur di non affrontare la fine della Roma repubblicana ![]()
Maria Stuarda, oltre allo scontro tra protestanti e cattolici romani, mette in scena il conflitto di due donne, la regina scozzese e quella inglese, gli intrighi e le trame di corte.
Vittorio Alfieri non fu soltanto tragediografo, ma si dedicò anche alla stesura di saggi di scottante argomento politico, come il suo attacco contro i governi dispotici contenuti nel saggio Della tirannide (1777-1790), dove lo scrittore attacca la tirannide ritenendola la peggior forma di governo:
« Tirannide indistintamente appellare si deve ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto eluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono o tristo, uno, o molti; ad ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammetta, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo ».
Alfieri preferisce un governo democratico e fondato sulla libertà e, nel Misogallo (1799, l’altro scritto politico) emerge il suo disprezzo per gli esiti della Rivoluzione francese, sintetizzando che i francesi saranno sempre schiavi e gli italiani un giorno saranno liberi Nel nostro tempo, privo di qualsiasi valore o riferimento, l’atteggiamento titanico di Vittorio Alfieri ci ricorda quanto sia importante vivere e combattere per un ideale. Forse se gli italiani conoscessero meglio il drammaturgo di Asti avrebbero anche una diversa consapevolezza di loro stessi.
Immagini tratte da:
http://biografieonline.it/biografia-vittorio-alfieri http://eshop.comics.it/store/index.php?manufacturers_id=438&sort=6a&page=6 https://www.amazon.it/Maria-Stuarda-Vittorio-Alfieri-ebook/dp/B00685DXL4 http://www.anobii.com/books/Della_tirannide/01754db2bbc9b6ddd3
In Homo videns c'è una grande protagonista (o, per meglio dire, antagonista): la televisione. Nelle nostre vite, la televisione (e qui, nel 2017, sarebbe meglio aggiungere anche internet e i social media) è una presenza ingombrante e fastidiosa. Se ne è reso ben conto Giovanni Sartori: da intellettuale e grande uomo di cultura qual è stato, attento a interpretare i cambiamenti sociali e a scavare sotto la superficie delle mode e delle correnti culturali, non poteva sfuggirgli che qualcosa stava cambiando, all'alba degli anni 2000. Non un cambiamento di poco conto, ma una mutazione che avrebbe portato conseguenze per decenni. La tesi di Sartori, in Homo videns, è che la televisione non solo abbia causato un impoverimento culturale senza precedenti ma, soprattutto, stia cambiando, negativamente, il modo in cui l'uomo interpreta e comprende la realtà.
Le nuove generazioni crescono di fronte allo schermo del televisore, familiarizzando con il video ancor prima di imparare a leggere. La conseguenza inevitabile è che il modo di pensare dell'uomo del terzo millennio si conforma a questo nuova modalità di ricevere informazioni, passando dal primato della parola a quello dell'immagine. La caratteristica principale dell'homo sapiens è la sua capacità di astrazione: è l'unico animale in grado di interpretare il mondo attraverso il ragionamento logico; l'uomo formato dalla televisione, invece, si limita a guardare. Per lui l'unica cosa importante è l'immagine: ma l'immagine è piatta, non si spiega da sola, non richiede l'uso di una capacità di pensiero più o meno raffinata per essere interpretata (perché spesso non vi è nulla da interpretare). L'homo videns è questo: un uomo disabituato a pensare in maniera logica, che ha perso la possibilità di formulare pensieri astratti e che galleggia nel vuoto del video-vedere. È un eterno video-bambino incapace di crescere. Eppure, l'influsso del mezzo televisivo non si ferma qui: l'homo videns smette di essere un animale politico. Si può parlare, semmai, di video-politica, della politica fatta a misura di uno schermo televisivo, che non forma cittadini in grado di compiere scelte elettorali responsabili e sensate, ma una folla di menti atrofizzate e conformate. È una conseguenza che non poteva lasciare indifferente il Sartori politologo. Il rischio è di avviarsi verso una massificazione culturale, una regressione cognitiva e antropologica nel senso pieno del termine. Homo videns è un libro a metà strada fra un saggio divulgativo e un pamphlet rabbioso e caustico. Il libro risale al 1999, e a volte rischia di risultare un po' sorpassato. Si parla poco di multimedialità, che viene comunque vista con sospetto; Internet è una frontiera, ma negativa; l'informatizzazione è inevitabile, ma non auspicabile. Non si mette in discussione l'uso sbagliato che si fa del mezzo televisivo, quanto piuttosto il mezzo in sé. Non c'è distinzione fra televisione utile o dannosa: entrambe, a lungo andare, portano all'homo videns. Sta qui forse il punto controverso dell'argomentazione del saggio. Le critiche di Sartori alla ristrettezza mentale causata dal mezzo televisivo, e alle conseguenze che esso ha portato, sono fin troppo condivisibili: ma siamo sicuri che non esista uno spiraglio per un uso positivo delle nuove forme di comunicazione? Davvero è impossibile trovare un modo per approcciarsi ai nuovi media, digitali o meno che siano, che incoraggi il pensiero invece di anestetizzarlo? Homo videns è un libro interessante per i problemi su cui porta a riflettere. In alcuni passi si avverte qualche anacronismo inevitabile, ma il nucleo della discussione (per l'homo sapiens che non ha disimparato a leggere e a pensare) rimane attualissimo: il video-bambino prospettato è anche, e forse soprattutto, il figlio dell'era dei social network in cui viviamo. E Sartori di ciò se ne era accorto ancora prima che nascesse Facebook. Altri articoli che potrebbero interessarti:
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Ghost in the shell, l’opera più famosa di Shirow Masamune, è ambientata in un ipotetico XXI secolo in cui tutti gli aspetti della vita umana sono completamente informatizzati (sebbene popoli e nazioni continuino a esistere, come viene specificato nelle prime pagine), dove impianti cibernetici, cyborg e I.A. avanzate rappresentano ormai la norma. Tutti, esseri umani e non, sono collegati a un complesso di reti informatiche attraverso il proprio ghost (un concetto molto simile a quello di “anima” o “spirito”) che ne racchiude l’identità e la memoria. Come specificato nella prefazione del manga, tutti questi cambiamenti sono stati resi possibili dall’avvento e dallo sviluppo delle micromachine (o nanomacchine), grazie alle quali è stato possibile riprogrammare il cervello umano alla stregua di un computer, con la possibilità di connetterlo e riprogrammarlo a piacimento. In un siffatto universo, a rappresentare una minaccia per l’ordine pubblico sono i ghost tracking, individui in grado di hackerare i ghost altrui per manovrarne il corpo o alterarne le esperienze. Ed è in casi del genere che entra in gioco la cosiddetta “Sezione 9”, capitanata dalla protagonista della storia, Motoko Kusanagi. L’opera di Shirow è di fatto un poliziesco di stampo cyberpunk, come andava di moda nel periodo a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, ma possiede una profondità capace di trascendere il tempo e i generi (come tutta la fantascienza “buona”, in fondo). Partendo dal rapporto uomo-macchina, che da sempre ha ispirato e tormentato l’uomo, Shirow non lesina riflessioni di tipo psicologico e sociologico, in temi quali la riproducibilità dell’essere umano e il principio di autodeterminazione, sfociando nelle battute finali della storia, in una digressione quasi esoterica sulla natura dell’universo. Nel manga sono inoltre presenti numerosi appunti dell’autore, utili per meglio calare il lettore nella storia, nella sua ambientazione e nella sua filosofia di fondo; ma, anche così, Gits resta una di quelle opere che meritano più di una rilettura per essere capite e metabolizzate. Nel 1995, Ghost in the shell è stato trasposto in un lungometraggio animato diretto da Mamoru Oshii. Sono molte le differenze che si notano mettendo a confronto le due opere. Prima di tutto, per forza di cose, quello di Oshii è un adattamento, che riporta in maniera più o meno fedele (a volte di più, a volte molto meno) la storia principale del manga, quella che vede la Sezione 9 contrapposta al Burattinaio, uno dei più grandi ghost-tracking del mondo; storia che nel manga tocca solo alcuni capitoli (gli altri sono per lo più slegati). Cambia molto anche il tono generale della storia. Nel manga Shirow ricorreva spesso a gag e personaggi superdeformed (ovvero rappresentati in maniera caricaturale) per alleggerire il tono generale della narrazione; Oshii opta invece per un registro più serioso e cupo, con dei protagonisti più apatici, quasi a voler sottolineare la loro condizione di alienazione e di essere non completamente umani. Infine, per quanto Oshii riprenda più o meno tutti i temi presenti nel manga, la vera differenza risiede nell’insistenza del regista giapponese verso la sessualità e la riproduzione in un essere post-umano. Motoko, che nel manga è addirittura protagonista di un’improbabile gang bang lesbo, nel film diventa una specie di paradosso vivente: possiede un corpo perfetto e per buona parte del film va in giro nuda, ma è anche quasi del tutto asessuata e non vi è nulla di erotico in lei; parla di mestruazioni per giustificare il suo cattivo umore, ma essendo dotata di un corpo del tutto sintetico, lo spettatore capisce subito che non può sanguinare. Da questo punto di vista, il film può essere visto come un tentativo di descrivere nuove forme di riproduzione e di nuovi tipi di “essere” che, per forza di cose, emergeranno con l’aumentare dell’informatizzazione del mondo. Che si parli del manga o del film, si tratta in entrambi i casi di due cult: l’eredità con cui Rupert Sanders deve fare i conti è pesantissima. Immagini tratte da: -Immagine 1: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/en/c/ca/Ghostintheshellposter.jpg -Immagine 2: http://cc-media-foxit.fichub.com/image/fox-it-mondofox/dfda1db7-c866-450a-b2da-fda4f4703bdc/ghost-in-the-shell-manga-1200x630.jpg -Immagine 3: https://s-media-cache-ak0.pinimg.com/564x/03/08/10/030810c75ba48fbfd40572741e71de52.jpg - Immagine 4: https://errantcritic.files.wordpress.com/2015/06/ghost-in-the-shell.jpg |
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Febbraio 2023
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