di Cristiana Ceccarelli Pelham Grenville Wodehouse è stato forse il più celebre scrittore satirico del secolo scorso. Nacque nel 1881 nei pressi di Londra, per essere poi naturalizzato americano dopo un soggiorno in Francia durante la seconda Guerra Mondiale. I suoi romanzi, con un totale di quasi 96 libri, si riconoscono per il carattere umoristico delle vicende. Un humour particolare, arguto, esente da tracce di sarcasmo. Un umorismo innato, fine a se stesso, particolare nel suo ottimismo. Wodehouse è infatti un autore non impegnato e non impegnativo, che scrive per il piacere di raccontare bizzarrie in chiave divertente e in iperbole. Quello che capita ai protagonisti è un susseguirsi di eventi all’interno del febbrile mondo moderno, eventi veloci ma cercati per gioco e per questo vissuti con calma, nonostante la velocità del loro avvenire e della narrazione. Molto spesso il suo lavoro è stato sottovalutato proprio per questo disimpegno e per la ripetizione sistematica di uno schema narrativo a esito certo e la costruzione psicologica caratteriale dei personaggi. Leggendo prevedi già come il romanzo possa terminare ma è l’intermezzo a essere ogni volta diverso, con colpi di scena sempre nuovi e attenti nel loro essere presentati in un certo momento sulla pagina. Nonostante tutto, sebbene la rappresentazione oggettiva del contesto non abbia fini politici o sociologici, è indiscutibile che i suoi scritti siano un’affidabile rappresentazione e descrizione della società nella quale ha vissuto; il genere e lo stile poi, come sempre, possono piacere o meno. Nei suoi racconti non trovano spazio melodrammaticità e introspezione, difficoltà o profonda serietà, sebbene il linguaggio risulti tutt’altro che spiccio. La visione che propone della vita è leggera, “incantata” quasi; i personaggi infatti sono per la maggior parte appartenenti alla upper class inglese o americana, dove le difficoltà sociali ed economiche non si incontrano se non nella noia dovuta alla loro assenza. Ed è proprio la noia a dare vita alla vicenda che coinvolgerà sempre più strettamente il giovane Psmith, protagonista indiscusso del libro Se sei saggio ridi! Psmith è uno studente universitario inglese dalla dialettica sicura e a tratti pedante, un ragazzo che indossa monocolo e cappello e cerca nella New York, nella quale sta passando un periodo di tempo, quel brio che nella sua Londra sembrava essergli sfuggito. Troverà di che impiegare il tempo convincendo un direttore di un giornale, in carica per l’assenza del superiore, a reinventare e stravolgere completamente il quotidiano Cosy moments per cui lavora. Il giornale subisce un’accelerata importante, sia in termini di contenuti che di venditi, ma il nuovo approccio causerà loro non pochi problemi con le gang newyorkesi.
Leggendo il libro uno si fa una idea delle manipolazioni che dilagano e costruiscono la nostra esistenza; ma è compito nostro scorgere possibili tematiche e spunti di riflessioni, perché Wodehouse altro non scrive che fatti, i sentimenti sono cacciati indietro. Come se facesse pratica per una buona obiettività giornalistica. Il giornalismo è il tema fondamentale a cui tutto intorno ruota, un giornalismo che si ritrova e che viene difeso anche a costo della vita perché garante di libertà e informazione. Un giornalismo che non si piega al denaro o alle minacce, ma che ha come scopo l’utile per la società, il combattere le ingiustizie e porre all’attenzione le differenze. Un giornalismo che combatte, che rispetta la personalità e che “non può essere imbavagliato”. Ma nonostante la gravità di alcune situazioni, le scene che lo scrittore propone sono divertenti nella loro semplicità e nel loro concludersi come se niente fosse successo veramente; l’espediente perfetto è proprio Psmith, che sembra essere perfetto e fuori luogo contemporaneamente in ogni situazione. Per lui è normalissimo chiedere alla polizia di essere risarcito del cappello, dopo che una sparatoria lo ha fatto volare via, anziché denunciare i gangster per l’attentato alla propria vita. Per voi?
0 Commenti
di Cristiana Ceccarelli Vi avevo già scritto di lui, Joёl Dicker, il giovane scrittore diventato (a ragione) famoso col suo più celebre romanzo La verità sul caso di Harry Quebert. Questa settimana è il turno di La scomparsa di Stephanie Mailer, non meno meritevole di elogi, pubblicato nel 2018. Anche in questo thriller le pagine contraggono la percezione del tempo, che si fa elastico per poi ritirarsi di un colpo e far scoprire al lettore di aver già letteralmente divorato più di metà libro; a essere catturati non sono solo i personaggi. Ed è questo che rende un poliziesco, un giallo estremamente affascinante: attrarre chi lo legge e imprigionarlo in una storia chiusa come la cella di un carcere, dentro la quale sembra svilupparsi un universo infinito ma in realtà concatenato, limitato; confinato in uno spazio e tempo precisi che però si ripercuotono in eterno per chi li ha vissuti. Spesso questo genere letterario, prescindendo dagli amanti e seguaci, è purtroppo sottovalutato e declassato rispetto ad altri scritti più di “spessore”; lo dice anche uno dei personaggi del libro: “il poliziesco è il penultimo sulla lista, prima solo dei romanzi rosa, d’amore”, (parafrasando). La verità è che i gialli sono incommensurabilmente affascinanti nonché specchio arguto della società nei quali sono scritti, senza tralasciare l’aspetto umano e disumano che si ripresentano, scontando l’ergastolo, proprio perché insiti e immancabili compagni dell’esistenza umana. Anche in questo romanzo si ritrova il gioco degli sbalzi avanti indietro nel tempo. Presente e passato si intrecciano per far rivivere la schiacciante presenza del secondo sull’immediato. E’ un passato buio, che sembrava terminato con gli strascichi relegati nel subconscio ma che torna a chiedere lo sconto di pena o la libertà vigilata. E’ un passato prepotente che però, con la sua mole, sembra tornare anche per far riscattare i protagonisti dai loro fallimenti o blocchi personali, torna per farli andare avanti. Il romanzo è costruito sul racconto in prima persona dal punto di vista di diversi personaggi che si alternano, con un costante cambiamento di prospettiva e collocazione temporale. Il racconto risale a venti anni prima, il 1994, poi al 2014, per coinvolgere anche gli anni vicini, in un costante salto di ricordi e rimandi, espediente perfetto per una sapiente capillarità dei colpi di scena e segreti da svelare. Anche l’ambientazione cambia, passa da New York a Orphea, graziosa e tranquilla cittadina alle porte dell’isola di Manhattan; un luogo di relax. Scenario di un quadruplice omicidio. Quattro cadaveri a Orphea durante la prima manifestazione teatrale, due investigatori, Jesse e Derek, alle prese con il primo caso, un sospettato e un evento che sconvolgerà la vita e la carriera dei due poliziotti: siamo nel 1994. Venti anni dopo: una giornalista, Stephanie Mailer, che indaga su quel caso a distanza di un ventennio, scompare. La vicenda sembra non essersi conclusa davvero e allora i due investigatori tornano a far luce su quell’indagine coadiuvati da Anna, la seconda vicecomandante della polizia della cittadina. Gli indizi e il materiale raccolto da Stephanie lasciano presupporre un finale diverso ed errori del passato. Cosa nascondono gli abitanti di quel posto così apparentemente pacifico? Chi è il vero colpevole? Cosa si nasconde nella città che si affaccia sul lago? La trama è tessuta sapientemente e il gioco è molto complesso. I personaggi coinvolti sono molti e molte sono le vicende che si intrecciano in un passato che è tutto tranne che dimenticato. Agli eventi si mescolano le vite personali dei protagonisti, spesso difficili e segnate da errori che non lasciano spazio al perdono di se stessi ma solo alla sopravvivenza. È un thriller carico di colpe e non solo penali. Sono colpe umane, facili perché leggere nella decisione di attuarle, istintive. Sono scelte per amore, per avidità, per vendetta; sono purtroppo scelte umane che però chiedono ovviamente un prezzo da pagare, non sono giustificate se non per essere un “malgrado”. Lo stille dell’autore rende il libro molto scorrevole e semplice nella ricezione e comprensione dello sviluppo, ma richiede molta attenzione poiché i nomi e gli avvenimenti sono molti, ed essendo intervallati da flashback spesso sono spezzati e discontinui. E tra gli omicidi, un assassino ancora a piede libero e un nuovo festival da preparare sembra davvero prospettarsi “La notte buia” di cui tanti hanno ancora timore dopo le vicende e i messaggi per la città del 1994. Oltre alla storia però, si scorgono anche temi molto attuali come l’omosessualità, il cyber bullismo, la visione del ruolo sociale della donna e la disparità di trattamento in ambito lavorativo dovuto al genere, il rapporto genitori -figli nella frenetica contemporaneità, la corruzione, il sentimento di sopraffazione per la ritmicità imposta dalla città e il rifugio verso la natura. Senza contare i sogni che non ci abbandonano nonostante le circostanze sfortunate, che si addossano, l’insoddisfazione personale e la pressione sociale e familiare. Sembra che un thriller sia solo un colpevole che deve essere individuato, ma non è così. Sarò di parte? Forse. A dimostrazione però che non sia un lavoro semplice è che pochi sanno costruirne di veri. Perché il thriller che colpisce è quello che riproduce il possibile, un possibile che nell’atrocità continua comunque ad attirarti. Perché? Avete mai fatto caso che spesso, nonostante ciò cui assistiamo sia penoso o raccapricciante al buon senso o razionalità, non riusciamo a smettere di guardarlo? Questo è possibile è perché l’uomo ne è capace, ed essendo uomini ne siamo attratti e condizionati perché simili, sebbene poi per fortuna ce ne discostiamo. I thriller però, altro non fanno che portare fuori ciò che risiede dentro e che alcuni non hanno la forza di controllare; magari ricorrendo all’iperbole. Ma rappresentano una parte che esiste, in un’analisi della psiche e della frammentazione umana che lascia spazio al dubbio e all’angoscia paradossalmente uniti a un senso di adrenalina e desiderio di scoprire, di vedere giustizia e al tempo stesso di scoprire il perché dell’innesco, una possibile motivazione plausibile. È molto più facile arrendersi al male che lottarci, sfidarlo; la notte buia esiste per tutti, solo che la maggioranza ha imparato a bilanciarla con il giorno che immancabilmente le fa seguito. Immagini tratte da foto dell'autore Comunicato stampa, note libro da Giovane Holden Edizioni “Tutto cominciò quando smisi di parlare con dio e, di conseguenza poi, disperatamente, cominciai a parlare con me. Ciò che scrivo si srotola da quel nodo fatidico, e giunge fino alle quotidiane richieste di comprensione di buchi vorticosi dell’umano. Non è stato un processo di scrittura delicato: si sono improvvisamente rotti gli argini, e l’acqua ha invaso tutto, diventando fango, trascinando con sé detriti di altre ere. È per questo che razionalizzare ciò di cui scrivo mi è estremamente arduo. Spesso rileggendo le mie poesie non ricordo perché le ho scritte, quale fosse il punto. L’eruzione imperscrutabile di un momento. Ma ne colgo le note emotive, i miei mostri, rintraccio le mie carezze, e mi capita di commuovermi, per un’emozione che riconosco, come se provassi empatia per una parte di me, per un momento di me. Questo è ciò che spero possa succedere anche al lettore.” (dall’Introduzione) Presentazione libro
19 aprile ore 18:30, Caffè Letterario Volta Pagina (Pisa) di Cristiana Ceccarelli Con il suo ultimo romanzo L’assassinio del commendatore, Libro primo, Idee che affiorano Murakami sembra aver raggiunto un equilibro tra surreale e prospettiva realista. E’ un libro sulle cui pagine aleggia sempre un’ombra di mistero, qualcosa di sfuggevole, che è e rimane tale perché incompreso dallo stesso protagonista. Il personaggio principale, il perno su cui la storia ruota o la calamita che attrae gli eventi, rappresenta questa prospettiva; dopo un po’ che leggiamo ci chiediamo: ma qual è il suo nome? Un nome ce l’ha ma non viene mai svelato. Attraverso lo scorrere della storia il lettore conosce la sua vita, i suoi pensieri, il suo passato, il dolore, l’amore, il sesso occasionale, i suoi segreti, ma non scoprirà il suo nome: come se non fosse importante, come se non fosse necessario per scoprire l’altra persona nella sua quotidianità di solitudine; tema centrale nelle opere dello scrittore giapponese, che qui trova l’ennesima declinazione. Quando qualcuno sa il tuo nome non sei più solo mentre il protagonista sembra rimanerlo costantemente, solo con le sue tele che aspettano solo un nuovo volto da ospitare. Solo con i propri pensieri e le idee da voler sviluppare, nonostante le conoscenze, in un circolo mnemonico e cognitivo a tratti ripetitivo, che però non stanca nella sua rappresentazione dell’effettivo svolgersi del pensiero umano. E’ una solitudine goduta quella del pittore, cercata e a volte questionata quando la tristezza torna a farsi risentire tra i ritmi di una quotidianità acquisita. E’ una solitudine dolce e per questo pesantemente presente, a cui è facile arrendersi ma dalla quale, allo stesso tempo, è possibile trarre conclusioni e risvolti molto positivi. Il protagonista è infatti un pittore, che inizia a raccontare la storia in prima persona partendo temporalmente dal suo divorzio, per poi tornare spesso, con la memoria, a eventi passati e a volte dolorosi. La moglie Yuzu decide di lasciarlo e lui, non sapendo come reagire e come non pensarci, si mette in viaggio verso le zone fredde della costa. Dopo un mese torna e decide di accettare l’offerta dell’ex compagno di Accademia di pittura Masahiko che gli propone di andare ad abitare nella casa di suo padre Amada Tomohiko, adesso in casa di riposo. Il padre dell’amico è il famosissimo pittore giapponese dello stile nihonga, adottato dopo gli studi a Vienna e i primi anni artistici improntanti sullo stile occidentale. Ecco che anche in questo libro la globalizzazione, l’europeo tornano, questa volta in veste storica, accompagnato da riferimenti a Kafka e alla musica classica viennese e italiana. Il quadro infatti che il pittore trova nel solaio, intitolato proprio L’assassinio del commendatore, ricorderà al protagonista il Don Giovanni di Mozart (ne consiglio l’ascolto durante la lettura). Riferimenti esterni sempre però bilanciati da continui rimandi alla tradizione e ai luoghi giapponesi, che qui si rivelano nella meravigliosa descrizione della pittura e del mondo che la circonda. Questo è solo però il primo degli eventi strani in cui il ritrattista si troverà coinvolto: un quadro nascosto in una casa di un pittore senza quadri alle pareti. Il protagonista solo nella casa, decide di abbandonare la professione di ritrattista con la quale era riuscito a mantenersi di sola pittura, nella convinzione che non riuscisse a esprimere la sua vera essenza e creatività nonostante il suo oggettivo talento. Ma poi, una telefonata per una commissione anonima e ben pagata lo porteranno a incontrare Menshiki, l’uomo che scoprirà abitare nella villa bianca dall’altro lato della valle. Menshiki è un uomo singolare che suscita nel pittore dubbi ed empatia, in un continuo contrasto di emozioni; con lui scoprirà una misteriosa campanella seppellita in un pozzo nel bosco, che aveva sentito suonare durante la notte. La campanella porterà al culmine del climax ascendente di mistero, che punteggia la narrazione con frasi ambigue e dichiarazioni dalle mille interpretazioni che lasciano il protagonista quanto il lettore in sospeso. Con un irreale che si mescola alla realtà quotidiana, che sembra essere accettato più di quanto non lo siano eventi apparentemente banali della vita “reale”, da una frase a una decisione. Nella sua esperienza, col suo trascorso, il pittore sembra propenso ad accettare l’idea manifestatasi davanti a lui come non più strana di altre cose sperimentate nella realtà con persone e oggetti reali. Il pittore, dopo un primo momento di scetticismo, accoglie infatti l’idea e si fida di lei, l’aspetta, le parla anche in sua assenza; in passaggi di testo tanto densi da poter prender forma fuori dalla carta. Quanto qualcosa di così astratto, come ci appaiono le idee, può avere effetti materialmente tangibili sulla nostra vita? L’idea che viene percepita surreale non è poi tanto diversa da quella che si materializza su tela come linee e accostamenti di colore o che si trasforma in accordi o musica oppure in parole e poi frasi, è qualcosa di insito che trova il modo di manifestarsi, non è fondamentale sotto quali spoglie. Non è autonoma, ci dice, ha dei paletti, per palesarsi deve necessariamente fare uno sforzo ed è onnipresente: non è forse così tutti i giorni? Pensiamo, immaginiamo, ideiamo e tutto questo trova poi il modo di fuoriuscire, di concretizzarsi in qualche modo. Quanto ciò che immaginiamo ci fa vivere? E quanto ciò che viviamo ci fa’ immaginare? Quanto è labile questo confine? Davvero esiste? E come l’idea che spunta nel romanzo, sebbene la forma acquisita possa risultare bizzarra e fantasiosa, è lì, vera; come vere sono le idee che abbiamo ogni giorno, con le quali dialoghiamo. Ed è si onnipresente, e solo nostra. Fino a quando non troviamo il modo di esprimerla; ma anche a quel punto nessuno vi vedrà la stessa cosa, pur riconoscendosi. Ognuno manterrà le proprie idee, solo a se stesso visibili, per poi invitarle in presenza di altri, con la consapevolezza o la speranza di potersi almeno fondere o perlomeno incontrare. Magari di nuovo. Fino ad arrivare all’ultima pagina con l’ultimo sogno, che sembra proporre una visione del pittore diversa da quella creatasi durante la dura del racconto. Ma alla fine era solo un sogno no? Non ci resta che attendere il secondo libro. di Cristiana Ceccarelli Dov’è che risiede il bene? Ce la facciamo a essere dalla parte giusta della vita? Sulla costante di queste domande si regge il romanzo Dalla parte del bene di Martin Fahrner, pubblicato nel 2018 da Keller editore. Copertina del libro Dalla parte del bene, Martin Fahrner Il libro è il viaggio nei ricordi, di un arco temporale che ricopre quasi 20 anni, di un uomo che racconta la sua vita in prima persona senza però svelarci il suo nome; nel quale la storia personale si intreccia agli eventi storici nella definizione di una famiglia che non si abbatte davanti alle difficoltà ma che al contrario si reinventa, dandosi un’altra possibilità. Una storia di vita ed eventi quotidiani, fatta di affetti, incomprensioni, amicizia e amori.
I suoi ricordi d’infanzia sono legati a un piccolo paese al confine della Polonia dove la vita scorre tranquilla e la crescita è associata al passaggio tra le varie tipologie di biciclette: dal triciclo alla Piony, dalla Eska fino ad arrivare alla Favorit, la bicicletta più ambita, quella che sancisce il traguardo della maturità. Queste sono le tappe intermedie che conducono all’età adulta, dove la bici è sostituita dai mezzi pubblici, in particolare dal treno, che con le sue fermate nelle stazioni e i suoi vagoni sembra caricarsi di un particolare significato: quello della ricerca di sé stessi o del tornare a casa. Una storia alla riscoperta del passato attraverso il racconto e la descrizione delle persone che hanno segnato la vita del protagonista, con un attenzione particolare sulla figura paterna, quasi da complesso di Elettra. Le pagine sono cariche di aneddoti circa le gesta eroiche del padre e la sua perseveranza di agire sempre dalla parte del bene; nonostante all’occhio esterno del lettore alcune vicende possono apparire discutibili, per il protagonista è una figura intoccabile, sempre giustificabile. Il padre, capitano della squadra di calcio Kostelec che deve poi “appendere gli scarpini al chiodo”, ha dedicato tutta la sua vita a questo sport e sulle orme di tutti suoi gol e le vittorie scopriamo le paure del figlio. Un figlio che procede a tentativi nel capire da che parte stare, che trova fatica a trovare la squadra giusta con la quale intraprendere la partita della vita. Una cosa però accumuna questi tentativi: per quanto l’impresa risulti ardua e faticosa, il protagonista la porta fino alla fine, incurante del dolore; con la sola vergogna di non voler ancora deludere suo padre. E alla fine trova nell’arrampicata il senso di liberazione e capacità e nella lealtà la sua caratteristica migliore. Il ragazzo risulta negato, se non terrorizzato, nel calcio ma anche in altri sport, non sembra dimostrare particolare interesso verso qualcosa se non il desiderio di studiare ceramica. La scuola però è a numero chiuso e costosa, quindi desiste, parte come soldato. Ma ancora continua a presentarsi questa sensazione di impotenza dovuta allo stallo, al limbo tra bene e male, conseguenza del non essersi ancora riconosciuto veramente in qualcosa; un’insofferenza che si ripercuote nel paragone con gli altri, con gli amici, che sembravo aver trovato quel qualcosa a cui dedicare l’esistenza, quel qualcosa da plasmare perché tutto acquisti un senso, che diventi un’arma con la quale scendere e contribuire sul campo di battaglia; qualcosa di cui essere fieri e per cui lottare e alzare in aria il braccio e la mano. Dopo la leva, il lavoro come macchinista teatrale e poi l’università in drammaturgia. Nel mentre le visite alla nonna, l’incontro con una ragazza; la meravigliosa scena del vagone che nei pensieri del momento risultano un’epifania. Immaginiamo due binari di una stazione. Il sinistro è libero, sul destro è fermo un treno. Su di un vagone salgono due ragazzi. Si stendono, abbracciati. Si baciano e il treno parte, si assopiscono. E poco importa se il bene sembra essere sull’altro binario che parallelo non incontra quello su cui abbiamo deciso di prendere il treno. Perché alla fine chi decide cosa è giusto o sbagliato? Le cose migliori, quelle belle, quelle che se anche fugaci ci schiariscono la mente sulla possibile bellezza del mondo, capitano anche quando ci sentiamo dalla parte sbagliata, non ancora arrivati. E questo passaggio del libro lo dimostra benissimo. Non importa che la vita sia sempre un eterno essere dalla parte giusta, è impossibile. La vita deve essere colta nella sua imperfezione, nel crescere mentre fa il suo corso, anche se ci sembra di aver preso la direzione sbagliata, anche se magari addormentandoci abbiamo mancato la nostra fermata. Non si sa mai, cosa ci riserva. E allora dovremmo imparare ad allentare la tensione del dover sempre perseguire qualcosa, di dimostrare agli altri che anche noi l’abbiamo trovato, e vivere; perché è vivere che è quel qualcosa. Capiremo poi il modo di perdere meno treni possibili, il modo di provare piacere durante il viaggio, aiutare gli altri a salire, essere gentili e cedere il posto e fare meno ritardi; ma ricordando che ci sono sempre quei cinque minuti di margine, scusabili. Il protagonista lo capisce, e il finale è da scoprire. Immagine tratta da: ibs.it |
Details
Archivi
Maggio 2023
Categorie |