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28/4/2021

Antonio Machado: Il cammino sono le tue impronte.

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​di Agnese Macchi

“Caminante no hay camino” è una tra le più note poesie di Antonio Machado, più generalmente anche una tra le più ricordate della letteratura spagnola. Per la precisione questa poesia è la ventinovesima della raccolta Campos de Castilla (1912), in particolare appartiene alla sezione proverbios y cantares. L’incipit, famosissimo, ci introduce da subito nell’essenza del componimento:

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“Caminante, son tus huellas                                                                                       “Viandante, sono le tue impronte
el camino, y nada más;                                                                                                    il cammino, e nulla più;
caminante, no hay camino:                                                                                            viandante, non esiste sentiero:
se hace camino al andar.”                                                                                               si fa strada con l’andare.”
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Il cammino che ci illustra Machado non ha mete, scopi, obiettivi: non culmina in un luogo da raggiungere. Non c’è un criterio da seguire, un passaggio più sicuro, una strada più ombreggiata, magari anche un po’ in discesa. Non ha importanza la partenza, non ha rilievo l’arrivo, ma il percorso che ci lasciamo alle spalle. Quella serie di piccole impronte che si susseguono tra loro, in alcuni tratti più forti e marcate, in altri più rade e lacrimanti. Il cammino infatti non è mai uguale e anche per questo non dovremmo guardare quello degli altri. C’è chi va per un sentiero pianeggiante e corre veloce e fiero nei prati dipinti di verde; c’è chi invece deve proseguire lento, in un tratto scosceso, aguzzo e franabile. C’è anche chi stanco della salita si ferma un attimo a sedere su un masso ed ecco venirne fuori una vipera. C’è chi parte ai piedi della montagna e arriva in cima non ancora appagato; c’è chi invece nasce sulle vette e decide di rotolare senza fine verso il basso. Si può trovare un bastone d’appoggio in salita oppure uno sgambetto in discesa: l’importante, una volta caduti, è rialzarsi e continuare a camminare. Mai fermarsi, soprattutto dove si è stati colpiti, feriti, spintonati per terra.

“Al andar se hace camino,                                                                                                    “Nell’andare si segna il sentiero,
y al volver la vista atrás                                                                                                           e voltando lo sguardo indietro
se ve la senda que nunca                                                                                                       si scorge il cammino che mai
se ha de volver a pisar.”                                                                                                           si tornerà a percorrere.”

Questo camminare senza mai arrivare è quel perpetuo movimento che caratterizza la vita. Il prodotto tra l’andamento che assumiamo e quello che ci propone il contorno. L’unico cammino che esiste è quello percorso, tutti i passi che si sono allineati e le impronte delle mani, di quella volta che si è caduti; le cicatrici di quando non si è scelto bene dove camminare, di quella volta che, affamati, ci si è accontentati del primo vegetale per poi ritrovarsi rannicchiati per terra, con uno di quei grandi mal di pancia che dà a volte la vita. Solo i più fortunati, camminando, trovano una mano tesa e l’afferrano. Poi ci sono i solitari, a cui basta il loro riflesso in uno stagno, sempre meglio di chi incontra per la strada un inganno.

Ne risulta una matassa di cammini intrecciati, annodati, incidentati o mai incontrati. Perché ognuno ha il proprio percorso, ciascuno ha un passo diverso, ma la verità è che siamo tutti chiamati a camminare nello stesso posto.
“Caminante no hay camino” è un invito a non fermarsi, a correre forte oppure camminare piano godendosi il paesaggio circostante. Un invito a non lasciare che uno sgambetto, un tubero velenoso, una mano tesa per inganno, una vipera sibilante ci lascino per terra.

Una riflessione su questa grande metafora del vivere, che fa capire che la vera sfida non è non cadere, ma rialzarsi sempre e continuare a camminare.
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Immagini tratte da ​​https://images.app.goo.gl/hpfS7t69FQgAVCxf6

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21/4/2021

Insofferenze non finzionali. Ovvero la nostalgia del romanzo

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di Tommaso Dl Monte
 Da più o meno un anno, per motivi di interesse e di studio, le mie scelte di lettura sono ricadute quasi esclusivamente su autofiction, biofiction e non-fiction novel. Termini piuttosto abusati in ambito di critica letteraria, ma che meritano qui una spiegazione che non può essere che sintetica.
Nell’autofiction l’autore, il narratore e il protagonista del libro sono la stessa persona, secondo il modello di una normale autobiografia; tuttavia, ad osservare il testo da vicino, si notano senza difficoltà tecniche narrative romanzesche e la presenza di episodi chiaramente finzionali. La biofiction assomiglia molto a quest’ultima, ma oggetto del racconto non è più l’autore, bensì un'altra persona realmente esistente. Limitrofo a questi due generi è il non-fiction novel, una forma narrativa inaugurata da Truman Capote con A sangue freddo, in cui si raccontano fatti di cronaca, solitamente nera, in maniera romanzesca.  
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 Le mie letture hanno esplorato vari autori: le autofiction di Walter Siti (Scuola di nudo, Un dolore normale, Troppi paradisi, Exit strategy), Michele Mari (Leggenda privata) e Tiziano Scarpa (Kamikaze d’Occidente); le biofiction sempre di Siti (La natura è innocente) e Mari (Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, Rosso Floyd) e poi quelle del francese Emmanuel Carrere (Limonov), di Emanuele Trevi (Due vite) e di Paolo Sortino (Elisabeth); infine i non-fiction novel di Carrere (L’avversario), Nicola Lagioia (La città dei vivi) e Truman Capote (A sangue freddo).
Tutte queste opere fondono (e confondo) elementi finzionali e elementi referenziali, tratti di peso dal mondo e trasportati all’interno del testo. Certo, ci sono casi in cui il fattore finzionale è preponderante come in Io venìa pien d’angoscia a rimirarti dove si allude ad una presunta licantropia di Leopardi; altri testi invece, come Due vite o A sangue freddo, sono biografie e cronache piuttosto fedeli ai fatti realmente accaduti. Va anche detto che, dal punto di vista della buona critica, ridurre l’argomento della finzionalità alla presenza nel testo di eventi inventati è quanto meno limitante. È buona norma, infatti, non soffermarsi troppo sul livello tematico, ma approfondire l’analisi delle tecniche narrative utilizzate: la penetrazione psichica dei personaggi, la riproduzione dei dialoghi, la costruzione dell’intreccio con analessi e prolessi per creare suspense, sono tutti indizi di una narrazione finzionale, che prescinde della realtà degli eventi narrati – i quali, tra l’altro, sono in molti casi non verificabili.
Insomma, anche l’autore di testi non finzionali ha ampi margini di invenzione e può agire con una certa libertà, quando non proprio sul versante dei fatti, almeno su quello delle reazioni, impressioni e moventi intimi dei protagonisti. Tuttavia non riesco a tacere un’insofferenza crescente verso questo genere di racconti.  
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 Intanto è innegabile che, nella maggior parte dei casi, l’autore sia costitutivamente limitato nella possibilità di costruire le trame dalla realtà contingente della storia che racconta. Il lettore, di conseguenza, sa di non potersi aspettare eventi stupefacenti o intrecci indirizzati ad un fine precostituito. Limitarsi al racconto della realtà, in qualche modo, appiattisce la possibilità che la letteratura crei storie significative, le quali, pur cedendo sul piano della realtà, potrebbero avvalorarsi su quello della verità. Certo è prerogativa dei grandi artisti sapere scorgere, anche nella realtà circostante, indizi e storie singolari che ci parlano di noi e del nostro tempo, ma il mondo, per quanto vasto, è pur sempre più limitato dell’immaginazione. Inoltre, soprattutto nei casi più scadenti di non-fiction novel, l’apporto autoriale è davvero minimo, e il testo si riduce ad una resa artisticamente elaborata di contenuti giornalistici. Mi capita poi, anche quando non conosco la storia raccontata, come nel caso di Limonov o della Città dei vivi, di percepire un senso di delusione nel realizzare che quella storia che sto per leggere non è nata e non esista grazie al libro che ho in mano, ma è frutto del mondo esterno.
La mia reazione può sembrare superficiale perché, di base, riduce l’opera al suo contenuto, quando invece si sa che la forza della letteratura sta proprio nella forma e nello stile. Ma quel senso di curiosità e di meraviglia che si prova durante la lettura di un romanzo, cioè un’opera nella quale ogni pretesa di referenzialità esterna viene meno, non è un elemento che entra a far parte della mia esperienza di lettura di opere non finzionali. Le grandi costruzioni ottocentesche dei romanzieri francesi e inglesi, gli autori del modernismo con la loro forza inventiva, la loro capacità di padroneggiare un’ampia costruzione proteiforme e il loro saper accompagnare il lettore: ecco che cosa mi manca.
Credo che il potenziale del romanzo sia più alto rispetto a quello di tutti gli altri generi di cui ho parlato, ma che al contempo esponga al rischio di ridurre la letteratura a mero intrattenimento e fuga dalla realtà. Sta dunque allo scrittore, di volta in volta, dosare gli elementi per produrre un artefatto che risponda a più esigenze e possa rappresentare un vettore di senso non riconducibile né succube di altre forme di sapere.


  Immagini tratte da:
- Immagine 1
: Artribune
- Immagine 2: Wikipedia (Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=539444)

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14/4/2021

Destroy

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di Beatrice Gambogi
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Un attore e un’attrice sono davanti all’ingresso di un teatro, in attesa di fare un provino. L’attore sta ascoltando una canzone col cellulare, a basso volume.
ATTRICE Che canzone è? Mi pare di averla già sentita…
ATTORE “Destroy everything you touch” dei Ladytron.
ATTRICE Che vuol dire? Scusami, ma io sono proprio una pippa in inglese.
ATTORE “Distruggi tutto ciò che tocchi”. (pausa) Un po’ come me…
ATTRICE In che senso, scusa?
ATTORE Rovino tutto ciò che faccio, non mi va mai bene niente. È tutto una merda… non me ne va bene una.
ATTRICE Io di solito non giudico le persone che non conosco, ma credo che nella vita di ognuno ci sia qualcosa di buono. C’è sicuramente anche nella tua, magari sei tu che non lo vedi.
ATTORE No, non c’è.
L’attrice, imbarazzata, inizia a frugare nella borsa e tira fuori un pacchetto di sigarette.
ATTRICE Sigaretta?
ATTORE No, grazie. Se comincio a fumare adesso, come minimo tra un anno muoio di cancro ai polmoni.
L’attrice fa uno scongiuro senza farsi vedere dal ragazzo. Segue un breve silenzio.
ATTRICE Ma per caso ti ha lasciato la fidanzata?
ATTORE Anche. Ma non è quello. Cioè, quello è solo uno dei problemi.
ATTRICE Quindi… e scusami se te lo dico… se sei convinto che ti vada tutto male, sei venuto qui a fare un provino pensando che NON ti prenderanno?
ATTORE Esatto.
ATTRICE E allora che sei venuto a fare?
ATTORE Se voglio diventare un attore devo fare provini, non si scappa.
ATTRICE Immagino, però, che tu pensi che non ce la farai mai, a diventare un attore.
ATTORE Pensi bene.
ATTRICE Me lo immaginavo.
Si sente una voce in lontananza che urla “Ginevra!”.
ATTORE Ginevra è la ragazza prima di me, è meglio se entro.
ATTRICE In bocca al lupo, anche se non servirà a niente…
ATTORE (sorridendo) Ma davvero ci hai creduto?
ATTRICE A… a cosa?
ATTORE A tutte le cazzate che ho sparato! (ride divertito) Allora vuol dire che sono proprio un bravo attore! Mi stanno troppo sulle palle quelli che si piangono addosso e che si lamentano di tutto. Comunque grazie per aver dato un po’ di supporto morale a un povero disperato, ciccia! (Entra in teatro, sghignazzando)
ATTRICE Ma vaffanculo te… e tutto quello che tocchi, o come cavolo si dice in inglese, va’!
​

Immagini tratte da pexels

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7/4/2021

Deserto bianco

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di Lorenzo Vanni
Che cosa sappiamo noi di chi vive in altre terre distanti e apparentemente inaccessibili? Che cosa sappiamo noi del Medioriente di cui abbiamo solo un pallido riflesso nei notiziari che puntualmente parlano di guerre, scontri e terrorismo? È veramente questo quell’altrove che i media descrivono o non è forse che un utile vademecum per il turista occasionale per poter evitare i luoghi di guerra?
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Gian Stefano Spoto risponde da giornalista a queste domande con una sua cronaca dal campo, proprio sulla Striscia di Gaza, tra Israele e Palestina: il titolo è Deserto Bianco, pubblicato da Graphofeel Edizioni. Il deserto del titolo è il deserto del Negev dove tra 2014 e 2015 cade la neve ricoprendolo di un manto bianco; un evento insolito per il luogo, tanto da poter suscitare speranza. Improbabile come che la neve cada nel deserto è la fine di un conflitto che si protrae da decenni e di cui è veramente arduo distinguere torti e ragioni di una parte e dell’altra. Si potrebbero fare considerazioni di geopolitica, e invero si sarebbe tentati, ma la direzione intrapresa da Spoto è invece diversa: in mezzo ad un conflitto che ci sembra di conoscere benissimo attraverso i notiziari, ci sono le vite di chi quelle terre le abita. C’è l’umanità e la riscoperta di uno spirito di solidarietà di cui non si ha contezza dal lontano occidente europeo.
La cronaca fornita da Spoto ha una struttura episodica per individuare e mettere meglio in luce episodi che si ritengono significativi per comprendere che cosa c’è al di là delle ragioni politiche ed economiche che riguardano le alte sfere. È un libro calato nel sangue e nei nervi di persone comuni i cui figli, nipoti e compagni si sono arruolati nell’esercito spinti dal senso del dovere di difesa della propria terra pur con tutte le ansie che ne derivano. Di fronte al cronista interessato prima di tutto alla vicenda umana, gli intervistati si dimostrano aperti e felici che qualcuno ascolti che cosa pensano persone comuni. Come dire: “Che la nostra pena e preoccupazione siano pene e preoccupazioni universali”; il cronista si fa recettore attento dei messaggi di speranza che vengono da Israele e da Gaza, e ne comunica l’intensità astenendosi dal fare commenti, ma solo riportando esperienze di vita vera.
L’intento di Spoto è chiaro: fornire un’immagine diversa rispetto a quella superficiale e occasionalmente cartolinesca che domina l’immaginario comune occidentale. I nostri disagi non sono reali, la nostra vita precaria non è reale rispetto a quanto accade sulla Striscia di Gaza; tutto quel che crediamo di poca importanza è di primo piano in una terra che non vede la pace e la prosperità da decenni.
Il volume è arricchito di fotografie a colori che permettono un’immersione più profonda nelle materie trattate in ogni capitolo.
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Immagine gentilmente fornita dalla casa editrice   

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