Tra poemi epici e riflessioni saggistiche. La stagione del Rinascimento in Europa rappresenta una delle maggiori fioriture artistico-culturali, ma, al contempo, è connotata da profonde spaccature nel tessuto sociale del Vecchio Continente: l’Europa non ha più un ruolo egemonico da un punto di vista geografico e commerciale, in quanto la scoperta di un nuovo continente e di un nuovo mondo fa sì che essa cada in secondo piano (cfr. Todorov 1984). Il piano religioso risulta essere composito e articolato con la Riforma luterana e la nascita delle varie chiese riformate: da un’Europa medioevale in cui la Chiesa cattolica apostolica romana esercitava il predominio, si assiste alla formazione di gruppi che rigettano l’ortodossia tradizionale e la sostituiscono con una liturgia in volgare e con la traduzione delle Scritture (Rodman Jones 2016: 89). In questo contesto frammentato e turbolento si inseriscono tre personaggi di primo piano della cultura letteraria rinascimentale: Ludovico Ariosto, Torquato Tasso e Michel De Montaigne. ![]() L’Orlando furioso (di cui quest’anno ricorrono i 500 anni) fu scritto nel 1532 ed è il poema che meglio esprime la volontà di affermazione e di realizzazione nel mondo da parte dell’uomo: se il proemio annuncia che tema del poema sono l’arme e gli amori, altra è anche la sostanza del capolavoro ariostesco; la tecnica dell’entralacement (tipica dei romanzi medioevali francesi) fa sì che varie vicende e vari personaggi si intreccino tra loro, finendo nella parodia del poema cavalleresco tradizionale: il paladino Orlando perde il senno dopo essersi innamorato (non ricambiato) di Angelica, dimenticando che combatte per ristabilire la fede cristiana. L’opera di Ariosto risponde chiaramente all’immagine che Burckhardt (1953) ha del periodo: un’età immanentista, antropocentrica e particolarista. ![]() Totalmente diverse sono le esigenze estetico-morali a cui risponde la Gerusalemme liberata di Tasso: il poema si configura come espressione dello spirito controriformistico e del rispetto delle unità aristoteliche, uscito dopo varie vicissitudini e una lunga gestazione nel 1581. Diverso è il tono del proemio: se Ariosto cantava le guerre e gli amori, Tasso canterà l’arme pietose e il capitano che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo: un inizio solenne e in linea con l’elaborazione ideologico-culturale del Concilio di Trento, che non ammette l’evasione fantastica, ma solo il meraviglioso cristiano, cioè la manifestazione delle istanze del Bene e del Male in quanto prodotti della verità della fede. I crociati si muovono in un mondo ordinato, ma la complessa personalità tassiana riesce comunque a emergere, correlativo oggettivo di un’epoca che Amleto non esita a definire “fuor di sesto”. ![]() Ancora più complessa è l’esperienza culturale e morale dell’aristocratico francese Michel De Montaigne. Testimone delle guerre di religione tra Ugonotti e Cattolici romani che insanguinano la Francia della seconda meta del sec. 16°, in lui si instaura un sentimento scettico e relativista. È questa visione del mondo che egli inaugura un genere, il saggio, di cui Montaigne può essere considerato il fondatore: i suoi Essais sono programmatici sin dal titolo, in quanto l’autore scrive delle “prove” (essai in francese) della sua natura e della sua personalità in più versioni, dal 1582 al 1588. Montaigne si pone diversi interrogativi nella sua opera, sfidando anche il pensiero comune: nel saggio sui cannibali si chiede se siano loro i veri cannibali o noi, uomini occidentali, che ci facciamo guerra per futili motivi (la religione). O ancora egli si domanda se viviamo veramente oppure se la nostra vita è una ripetizione della consuetudine, quella seconda pelle (come la definirà Thomas Mann) che permea il nostro vissuto. Questo è il Rinascimento, un’epoca laica, contradditoria e di messa in discussione di dogmi e verità date per scontate per secoli. Bibliografia: - Garin, E(1953)(a cura di) Jacob Burckhardt, La Civiltà del Rinascimento in Italia, a cura di Eugenio Garin, Firenze, Sansoni. - Rodman Jones, M(2016) Early Modern Medievalism, in D’Arcens (ed. by) The Cambridge Companion to Medievalism, Cambridge, Cambridge University Press. - Todorov, T(1984) La Conquista dell’America. Il Problema dell’Altro, Torino, Einaudi. Immagini tratte da:
Ritratto di Ariosto, da Wikipedia Italia, Di Tiziano - Official gallery link, Pubblico dominio, voce "Ludovico Ariosto" Torquato Tasso, da Wikipedia Italia, Pubblico dominio, voce "Torquato Tasso" Montaigne, da Wikipedia Italia, Di Anonimo - sconosciuta, Pubblico dominio, voce "Michel de Montaigne"
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Dall'Infinito a Friedrich Caspar "Scontentezza nel provar le sensazioni [indefinite e infinite] destatemi dalla vista della campagna ec. come per non poter andar più addentro e gustar più non parendomi mai quello il fondo a l non saperle esprimere" Con queste parole Giacomo Leopardi spiega nella Vita abbozzata di Silvio Sarno come l'infinito sia una sensazione irraggiungibile, un'emozione di cui non si poteva cogliere la sua essenza, il suo segreto ultimo; un qualcosa di inesprimibile, che suscita nell'uomo sofferenza, malumore e angoscia. La stanza buia, un carcere immaginario paragonabile alla Bastiglia, sono il luogo perfetto per fingere universi col pensiero «io nel pensier mi fingo». É come se Leopardi avesse l'infinito a portata di mano ma, a causa di un muro davanti a sé, un limite, una siepe, una torre, sia obbligato a costruirsene un altro davanti a sé. Questa nuova concezione della siepe-carcere, da dolce paesaggio a ostacolo «Tanta parte dell'ultimo orizzonte» viene sviluppata dal poeta nel 1820; è come se l'anima si immaginasse quello che non vede e che, a causa della siepe, della torre, vada creandosi uno spazio immaginario, un luogo indefinito perché indefinito è l'anima umana. In questi paesaggio che si affaccia sull'Appennino Leopardi inizia dalla finestra di casa sua a immaginare l'infinito. A differenza di Pascal, il cui Io viene assalito da timori nel rappresentare mentalmente tale vastità «vedo questi spaventosi spazi dell'universo che mi rinchiudono, e mi trovo fissato a un angolo di questa vasta distesa, senza sapere perché sono collocato in questo luogo piuttosto che in un altro né per quale motivo questo poco tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo punto piuttosto che in un altro di tutta l'eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi segue. Non vedo che infinità da tutte le parti; esse mi rinchiudono come un atomo e come un'ombra che dura solo un istante senza ritorno», Leopardi prova un senso di smarrimento nella parte più fragile dell'essere umano, il cuore. É come se il poeta, per un istante, venga trasalito da una sensazione non concepibile dalla condizione umana: un silenzio così insostenibile, una quiete così profonda da lasciare il poeta smarrito «una molteplicità di sensazioni che confonde l'anima, che impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l'esaurimento subintaneo del piacere, la fa errare d'un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e quindi rassomiglia in un certo modo a un piacere infinito». Il poeta recanatese, paragonando l'infinito silenzio alla voce del vento «comparando», entra nuovamente in una dimensione interiore di quiete «mi sovvien l'eterno». Se in un primo momento l'immaginazione aveva creato dal nulla l'infinito, adesso è il ricordo di quella sensazione a far si che il poeta rievochi tale emozione. Leopardi viene inghiottito da nuove trepidazioni: il passato e il presente si fondono in un'unica grande emozione e realtà che erano sepolte nella sua memoria vengono improvvisamente rievocate. Questa nuova dimensione, l'immensità – mare, che copre tutta l'estensione temporale dal passato al presente «sempre caro mi fu/e naufragar m'è dolce» è un luogo dell'anima in cui il Leopardi si abbandona completamente: il naufragio del pensiero stesso nel mare delle associazioni. Non è più pertanto il poeta a creare nel pensiero l'infinito, ma una rievocazione paragonabile a un naufragio in cui il poeta prova uno stato dibeatitudine e di dolcezza di fronte a questa molteplicità di emozioni. Tale senso di abbandono, di irrequietezza di fronte a tanta vastità si può trovare nel celebre dipinto di Friedrich Caspar “Viandante in un mare di Nebbia”: un personaggio romantico, irrequieto, tormentato proprio come il Leopardi alla ricerca di un infinito irraggiungibile a causa di una foschia che non consente di cogliere la linea d'orizzonte. In primo piano si staglia un uomo, forse Friedrich stesso, in atteggiamento contemplativo di fronte al panorama. Mente in Leopardi il mare è l'elemento in cui il poeta si abbandona completamente, qui è la nebbia – mare a creare questo indefinito. Nonostante il personaggio sia in una posizione privilegiata per godere della bellezza del paesaggio (in cima ad un'altura di fronte a un dirupo), la vista degli alberi, delle montagne diviene sempre più sbiadita fino a mescolarsi con l'orizzonte e a diventare indistinguibile dal cielo nuvoloso. ![]() Questo sentimento dell’incolmabile distanza tra la dimensione finita dell’essere umano e l’infinito (che si intuisce come un’irraggiungibile condizione dell’essere) si ritrova nel celebre quadro di Caspar “Monaco in riva al mare”. Il tema non è più quello dell'indefinito come luogo diperdizione in cui “naufraga” l'anima, ma quello della consapevolezza dell'uomo di essere una nullità di fronte all'indefinito. Il fatto che il personaggio sia un puntino di fronte all'universo abbandonato nella contemplazione della vastità del paesaggio scaturisce un profondo stato di angoscia, accentuato dal colore blu che, se da una parte dà profondità all'immagine, dall'altra denota la crisi psicologica del personaggio in questione. Come dice Kant nella Critica del Giudizio, è il sentimento del sublime di fronte al cosmo, uno stato in cui la natura, nei suoi aspetti più terrificanti, come mari burrascosi, cime innevate o eruzioni vulcaniche, diventa un'emozione negativa, non prodotta dalla contemplazione del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall'oggetto. Uno stato che, per molti versi, ricorda Canto Notturno di un Pastore dell'Asia: il poeta che, in stato di totale solitudine, rivolge domande al poeta senza avere risposta sembra incarnare gli stessi dubbi esistenziali del monaco in riva al mare, ossia la piccolezza dell'uomo di fronte alla potenza della natura. Sitografia: www.roberto-crosio.net www.roberto-crosio.net www.ebay.it Bibliografia: Citati Pietro, Leopardi, Mondadori, 2010 Bazzocchi Antonio, Leopardi, 2008 Bruno Cicchetti, I canti del Leopardi, 1973 Leopardi Giacomo, Canti, Bur, 2004 Immagini tratte da:
- Viandante sul mare di nebbia, wikipedia, pubblico dominio. - Monaco in riva al mare, wikipedia, pubblico dominio. - Vista dal giardino Farnese, wikiart.org, pubblico dominio Ci sono alcune figure letterarie che hanno ormai colonizzato l'immaginario collettivo. Personaggi e vicende così iconici da esser diventati parte di una sorta di mitologia condivisa: miti moderni così universali che, spesso, finiscono per perdere il loro vero significato. Uno di questi è Frankenstein. Pubblicato nel 1818 da una giovanissima Mary Shelley (all'epoca appena ventenne), il romanzo nacque da una scommessa. Durante una gita a Ginevra Mary, il marito Percy, Lord Byron e John Polidori rimasero bloccati per vari giorni a causa di una tempesta. Per ingannare il tempo, il gruppo decise di mettere in piedi una sfida: il vincitore sarebbe stato colui che avrebbe scritto il racconto più terrificante. Polidori scrisse Il Vampiro (a cui si sarebbe poi ispirato Bram Stoker per il suo Dracula); Mary Shelley, invece, scrisse Frankenstein, o il moderno Prometeo. La storia del dottor Viktor Frankenstein, geniale scienziato che riesce a creare la vita assemblando tra loro parti di cadaveri e che viene perseguitato dalla sua creazione, è conosciutissima. Eppure, al di là delle semplificazioni che la troppa fama porta sempre con sé, l'opera di Mary Shelley è un romanzo geniale, sfaccettato, profondo, e (soprattutto) attuale. Frankenstein è una parabola sulla scienza, sul potere dell'uomo di piegare la natura al proprio volere, sulle responsabilità etiche che ne derivano e, allo stesso tempo, una riflessione sul posto dell'uomo nel mondo. Il sottotitolo racchiude in sé tutto lo spirito del romanzo: Frankenstein è davvero un Prometeo moderno. Come il titano punito per aver donato il fuoco ai mortali, egli è emblema della conoscenza umana, del dominio dell'uomo sulla natura e sul destino attraverso la scienza e la tecnica. In un periodo in cui stavano germogliando le idee positivistiche (nel 1830 Auguste Comte pubblicò il primo volume del suo Corso di filosofia positiva; nel 1831 vide la luce la seconda edizione di Frankenstein) e in cui iniziava a prendere forma quella sconfinata e ingenua fiducia nella scienza che avrebbe caratterizzato gran parte del secolo, Shelley propone una riflessione sulle responsabilità che derivano dal progresso scientifico. Come Prometeo, il dottor Frankenstein viene punito per le proprie azioni: ma tra le due figure c'è un'importante differenza, quasi un abisso. Il titano di Eschilo paga lo scotto della propria hybris, dell'aver avuto la follia (e il coraggio) di sfidare le leggi divine sovvertendo l'ordine voluto da Zeus. Frankenstein, invece, non pecca di tracotanza, ma di negligenza. La sua colpa non è quella di aver vinto la morte, di aver calcato territori proibiti all'uomo o di aver voluto con la sua scienza emulare il poter di Dio; ma di non aver accettato le responsabilità e i doveri che dalla conoscenza derivano. L'aver creato una vita (per quanto artificiale e mostruosa) lo obbligherebbe a prendersene cura, a guidarla ed educarla. Frankenstein invece abbandona la sua creatura a sé stessa, spaventato da ciò che ha fatto. Le morti che il ''mostro'' si lascia dietro sono una punizione (non divina, ma fin troppo terrena) non per aver osato troppo, ma per non aver avuto poi il coraggio di fare i conti con le proprie responsabilità. La creatura, alla fine del libro, piange sul cadavere del suo creatore. È in fondo un essere innocente, corrotto dal disprezzo e dalla paura che il suo aspetto ha suscitato negli uomini. Sono essi, e Frankenstein su tutti, ad averla resa un mostro. Un monito per ricordarci che il progresso non è per sua natura buono o cattivo. Se è persino in grado di sconfiggere la morte, le potenzialità dell'uomo sono infinite. La vera sfida, la vera minaccia, sta nell'uso che noi facciamo del progresso, nel riuscire a riconoscere quei limiti etici che non dovremmo mai violare. Il secolo scorso ha visto perpetrarsi catastrofi immani proprio a causa di un uso sconsiderato della scienza (le due guerre mondiali, i bombardamenti atomici e gli incidenti nucleari). Dopo duecento anni dovremmo ricordarci che Frankenstein non è solo una storia horror, ma un monito e una riflessione più che mai attuale. Immagini tratte da:
Frontespizio Frankenstein 1831: Wikipedia italiana, Public Domain, voce: Frankenstein Mary Shelley: Wikipedia italiana, Public Domain, voce: Mary Shelley |
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