di Cristiana Ceccarelli Alfred Hayes è stato un giornalista, scrittore e sceneggiatore americano; collaborò, dopo la seconda guerra mondiale, con Vittorio De Sica alla sceneggiature de "I ladri di biciclette", e scrisse anche per Roberto Rossellini e per Alfred Hitchcock Hour. Come lui, anche il protagonista e voce narrante del suo romanzo My face for the world to see (Il mio viso davanti a voi, 1958) è uno sceneggiatore, uno sceneggiatore senza nome. Di lui conosciamo la professione nell’ambiente hollywoodiano ma nessuna informazione sulla sceneggiatura a cui sta lavorando, se non che gli provoca un certo disgusto, come le circostanze di un ambiente che spesso soffoca l’estro personale in una folla di maschere omologate. Siamo negli anni ’50, in una Hollywood sommersa dall’alcool il cui abuso non ha niente della leggerezza dell’eccezione; è un rimedio distruttivo, oblio liquido. In una delle tante feste, lo sceneggiatore salva una giovane aspirante attrice da un tentato suicidio nell’Oceano. La salva e se ne sente in qualche modo responsabile. Si rivedono; parlano. Si rivedono; e si pentono per quello che hanno capito essersi nascosto: la verità. Ma la relazione continua, nonostante i problemi di lei e la moglie di lui, lontana a New York. Nasce qualcosa che non viene esplicitato se non all’esterno dei dialoghi, nei pensieri di lui; e a svelarlo è il vacillare di questa costruzione perfetta verso l’esterno che non ammetteva spazio al dubbio, al ripensamento, al rimuginare. Il non detto si palesa nella continuità del sentito. I dialoghi sono estremamente ponderanti, valutati al dettaglio, con una punteggiatura straordinariamente precisa che non lascia spazio a interpretazioni altre che non siano quelle per cui la frase stessa è stata pensata. Non c’è spazio per l’interpretazione multipla, la scelta sembra essere una sola: quella che vogliamo far credere. La loro relazione è vera nella finzione di entrambe le parti: lei che racconta una verità che lei stessa si è costruita per nascondere la propria sconfitta, lui che si comporta come se nella sua vita non ci fosse niente di sbagliato. Una creazione continua di espressioni, frasi, situazioni, che nella loro preventiva progettazione rendono questo legame vero come lo è un palcoscenico per due attori. Esiste semplicemente solo quello, ed è quello che va calcato tutti i giorni, inscenando ciò che si pensa ci si aspetti dal personaggi che oltre a interpretare avremmo tanto voluto arrivare a essere. La recitazione allora è verità, le maschere sono veri volti. C’è però un assurdo senso di vuoto dietro alla perfezione dei discorsi e degli eventi; con il tocco di Hayes persino la follia assume contorni estremamente precisi, come in una sceneggiatura pensata ad arte in ogni suo minimo aspetto. Una sceneggiatura che ci vuole mostrare la superficialità a cui quotidianamente diamo importanza, e che vestiamo per imposizione di quello che crediamo la società ci chieda; una superficialità che si attacca alla pelle diventando l’unica cosa palpabile, fino a che, preso il sopravvento, finisce per diventare l’unica realtà visibile. Tutto è valutato, soppesato, in una costrizione dell’essere a una profonda soppressione; una repressione che conosce la compagnia solo per la condivisione della mera messa in scena, e l’esistenza per la recitazione di battute scritte da altri. Dove non importa più cosa si era prima del personaggio, non interessa più a nessuno, l’unica cosa che conta è se sai prendere e mantenere la parte. Diventa allora necessario, per vivere davvero, trovare un complice che capisca ma non sveli il mistero, che stia al gioco della rappresentazione ma che allo stesso tempo sappia riconoscere e alimentare quello che resta dietro; è vitale quindi conoscere e stare con qualcuno con il quale è come stare da soli, perché difficilmente si può davvero mentire a se stessi. Fondamentale è, ce lo insegna il libro, non farsi scappare chi, nella messa in scena del mondo, rende un disastro la prima, facendo cadere la maschera, anche se lentamente; magari decidendo da solo le battute. My face for the world to see è un romanzo piccolo ma dal peso enorme.
0 Commenti
di Cristiana Ceccarelli Questa volta vorrei rendere l’articolo settimanale di letteratura un pò più interattivo, un pò perché ovviamente non sono un’esperta né l’unica che legge, un pò perché per quanto i lettori si possano distinguere per costanza e voracità, nonché rapidità nella lettura, tutti noi abbiamo accolto almeno un libro nella nostra vita; o meglio, sono loro a essere entrati di prepotenza o per destino (chissà) nelle nostre esistenze. Magari questo libro è stato prestato o ci è stato regalato, magari è stato scelto quasi per caso, o ancora, magari non ci è nemmeno piaciuto ma ci abbiamo ripensato più tardi, quando è arrivato l’evento esemplificativo della sua lezione nascosta. Ebbene, qualunque sia la circostanza fortuita o l’impegno obbligato della lettura, questa ci arricchisce togliendoci qualcosa. Ma cosa precisamente? Le nostre barriere, direi. Avete presente quando state leggendo e sentite, all’improvviso, che quell’insieme di piccole lettere nere vi appartiene? O meglio, voi appartenete loro? Senti che un libro è tuo, che ti ha imprigionato, quando ti ha messo a nudo senza porre domande. Non ha chiesto niente, eppure vi siete lasciati scoprire; e quasi vi sentite un po’ violati dalla scoperta che di voi ha fatto. Vi ha scoperti, spogliati di quegli strati che si sedimentano nei giorni. Eppure siete stati voi stessi a mettervi a nudo, inconsapevolmente; spinti dall’istinto di riconoscimento: come quando ci fidiamo di qualcuno che sentiamo a noi simile. Ed è successo come se a spogliarvi fosse stato un vento improvviso, quello delle pagine che girate; siete nudi adesso, vestiti se non delle vostre colpe, che a differenza degli onori rimangono sempre. Credo che i libri abbiamo proprio questo potere: quello di svelarci; soprattutto a noi stessi. Ci rendono capaci, nelle piccole epifanie che ci regalano, di capirci per qualche attimo. E a differenza di quello che si può pensare leggere è un grande atto di condivisione, di quella condivisione universale che solo un libro può contenere, rendendo ciò che abita nella cantina polverosa degli uomini fruibile a coloro che hanno voglia di leggerlo. Perché tutti proviamo le stesse cose solo che non sappiamo o abbiamo paura a esprimerle. E le emozioni che riesce a regalare questa condivisione sono tanto primitive quanto inspiegabili nel rendere una moltitudine di persone così lontane, vicine. E quindi sono curiosa di sapere qual è il libro o il libri che hanno rappresentato per voi questo momento di conoscenza profonda, questa emozione piena, viva. Più banalmente, Qual è il vostro libro preferito? di Cristiana Ceccarelli Il libro dell’inquietudine, di Bernardo Soares potrebbe quasi essere considerato un doppio romanzo. Sì, perché l’autore, Fernando Pessoa, lo ha concepito come autobiografia di se stesso attraverso il diario di un personaggio, Bernardo appunto, senza però metterlo insieme; lasciando solo fogli di appunti e memorie che sono stati poi raccolti e ordinati dagli studiosi, che li hanno sentiti come collegati da un qualcosa e divisi per aree tematiche o plausibile cronologia: tedio, sogno, contrasti, viaggi.
Questo libro, quindi, è stato costruito post e la suddivisione non in capitoli ma in piccoli stralci di vita interiore numerati, ne permettono la lettura a salti. Possiamo leggere la fine prima dell’inizio o viceversa, o possiamo pure leggere un piccolo numero al giorno, come per condividere le riflessioni di una potente forza introspettiva quotidianamente. E’ un’opera aperta il Livro,un libro ipotetico. Ogni lettore può trarne ciò che vuole, e allo stesso modo può scegliere la prospettiva col quale leggerlo e come interpretarne le connessioni, a sua sensibilità, momentanea o duratura che sia. Perché inquietudine? Perché Bernardo, pallido riflesso della vita, non ha anagrafe se non del suo lavoro e della sua umiltà. Bernardo guarda la vita, la pensa, la interiorizza, fa’ proprie le vicende esterne, senza mai sentire di viverle veramente; come un uomo dai mille sogni che non si attiva per realizzarli, tanto sono numerosi. E i sogni che ha sono comuni, ma moltiplicati per i pensieri che la mente umana riesce a concepire simultaneamente; sono pensieri riflessioni. Pensa a ciò che fa e nel mentre sogna ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato o forse sarà; sogna i sogni di tutti, li allarga a universali. E guarda il mondo da una finestra. La finestra del suo ufficio, la finestra del piccolo appartamento che divide in Rua dos Douradores, e la finestra interna, quella che si affaccia sulla vastità dell’anima, che rappresenta quasi la sua ossessione, fino a materializzarla e renderla più concreta della vita “reale” stessa. Il mondo esterno lo accoglie come attore e lui svolge la sua parte senza davvero essere partecipe, interiorizzandolo in conformità dei suoi desideri e i suoi pensieri, fino a esserne influenzato; ma rimanendone comunque lontano, sentendolo in una soggettività quasi distaccata. Il mondo interno, tanto quello esterno, rappresenta un mistero, un incomprensibile movimento che innesca riflessioni, meditazioni, e angosciosi rêves a occhi aperti, che finiscono per prendere il sopravvento e divenire la sostanza dei giorni nonché l’incapacità di agire per inseguire quelli non così impossibili. Il mondo gli è estraneo ma anche i coinquilini della casa interna sembrano non essere conosciuti veramente, con il tema delle tante personalità che abitano un solo uomo che si presenta nell’affitto del corpo. Dentro la persona abitano tanti aspetti diversi, che lottano, si scontrano e creano quel paradosso irrisolvibile che è la vita. Bernardo lavora e si proietta nell’infanzia, Bernardo non sbaglia a compilare i fogli di contabilità ma si immagina su una nave, con le gambe degli altri sdraiati al sole, Bernardo mangia nella solita osteria ma immagina la sua anima cadere in un inferno senza diavoli che ridono. Bernardo vorrebbe andarsene da quella strada stretta, da quel lavoro, da quella monotono quotidianità a tratti avvilente; ma proverebbe nostalgia nel farlo e l’anima, comunque, gli rimarrebbe attaccata. E i pensieri e i sentimenti allora diventano fine a se stessi, sono semplicemente accadimenti inevitabili che costantemente si affacciano senza essere in grado di trasformarsi in altro che sia il pensiero stesso; in un tragico vivere che non soffre se non del fatto che anche la sofferenza, come i sogni, non riesce a produrre veri effetti. Bernardo vive e non vive, si pone tra l’esistenza e la coscienza di essa, fra l’essere e l’idea di essere, sulla scia dell’idea che ha di se stesso e quello che realmente è.
Non c’è azione in questo romanzo incollato se non nella produzione introspettiva di una realtà che a volte si discosta dal reale che osserva, a volte lo vede nitidamente. E’ un libro in cui tutti ci possiamo riconoscere, se abbiamo però il coraggio di scoprire la verità sull’incomprensibilità di ciò che ci circonda e la nostra vastità interna, nonché il rischio di arrivare alla fine e non aver comunque compreso niente se non il fatto che i sogni rimangono tali, che per uno che si è spostato ne tornano altri e altri ancora. Siamo infatti l’accumulo delle scommesse perse e dei sogni veri che permangono senza compiersi mai, che scivolano dalla memoria per comparirvi se non in sporadici attimi di testarda perseveranza. di Cristiana Ceccarelli E il vento disperse la nebbia è un romanzo di James Leo Herlihy, scrittore, drammaturgo e autore statunitense. Il romanzo è anche stato trasposto in una pellicola di successo nel 1962. I protagonisti dei suoi romanzi sono spesso disillusi o emarginati, abbandonati a se stessi in balia delle circostanze della vita, adolescenti problematici o vagabondi violenti e disadattati.
Modellato sulle ultime caratteristiche troviamo il personaggio del libro E il vento disperse la nebbia, Berry Berry, figlio maggiore di una famiglia americana di fine anni ’50 e inizio anni ’60, principale protagonista della storia, effetto di una madre troppo pressante e di un padre permissivo e ubriaco, e causa di tutti gli avvenimenti e drammi della famiglia, che sono raccontati in prima persona da Clinton, il fratello minore. Due fratelli opposti nello stile di vita e nelle inclinazioni. Berry Berry è ormai fuori casa con una famiglia che non sa dove lui sia, che vive nella menzogna del suo mito per non affrontare la verità, che aspetta in trepidante attesa un suo eventuale ritorno o perlomeno qualche cartolina o notizie circa la sua locazione. Le uniche tracce che però ricevono dei suo spostamenti, sono richieste di pagamenti di cauzioni o soldi per presunte imprese lavorate per gli Stati americani. Poi c’è Clinton, un adolescente dall’intelligenza diligentemente nascosta nei suoi inseparabili taccuini e nella paura delle persone; così strane, crudeli, incomprensibili, tanto da affascinarlo come nient’altro: per questo riporta tutte le conversazioni sui suoi quaderni. Clinton vive nell’ombra del fratello maggiore, nella dedizione e affetto che i genitori gli riservano nonostante tutto; sembra quasi abbandonato, se non fosse che a legarlo ai parenti rimane l’ingombrante assenza di Berry Berry, che lo rende più presente che mai. Ma un giorno decide di partire alla ricerca del fratello, anziché aspettare che fosse lui a tornare a prenderlo: probabilmente non lo avrebbe fatto mai. E’ un romanzo delicato e intrigante nella scoperta psicologica dei personaggi, affascinanti sono infatti le loro fissazioni, il loro modo di fissare la realtà per renderla accettabile, per scusarla delle cose che spaventano e non si riescono a superare. E’ un romanzo che placidamente scopre le inesattezze di ognuno, le imperfezioni; viene infatti a mancare il modello perfetto della famiglia tradizionale americana così tanto propugnato negli anni ’70, e non per svilire la concezione di famiglia ma semplicemente per riconoscere che la perfezione è umanamente impossibile, e che la famiglia altro non è che la messa in comune di queste grandi debolezze, che devono essere utilizzate per scontro e rincontro; per crescere e imparare da subito la diversità che ci rende uguali. E’ un romanzo gentile nella narrazione, con una prosa impegnata che non risulta pesante, dolce con gli errori, che li sorvola senza scatenare giudizi. E’ semplicemente la realtà di una famiglia complicata, con un padre che lotta contro un comunismo che lo sfama e vive nei sogni e i riverberi di una politica passata, che lo spinge a trovare conforto nell’alcool e nei puzzle, di una madre che accondiscende a tutto con l’oppressione che ne consegue e che le è propria, con un disincanto negli occhi che fa riflettere; è la storia di BB che trova nel vagabondaggio violento la sua espressione al niente che la vita sembra avergli concesso e la storia di Clinton che sembra invece registrarla la vita, come se fosse cosa degli altri, come se non lo coinvolgesse. Ma Clinton semplicemente smette di aspettare la vita, rendendosi conto che la vita è anche il tempo dell’attesa del niente, del vedere gli altri organizzarla per costruire qualcosa; e sarà l’artefice del suo cambiamento e crescita, fino a quasi invertire i ruoli. |
Details
Archivi
Febbraio 2023
Categorie |