di Serena Macauda Nel 1974 Elsa Morante scrive La Storia. Si tratta di un romanzo che narra la vita di Ida Ramundo, vissuta in epoca fascista e protagonista di una serie di vicende drammatiche legate non solo alla guerra, ma anche ai suoi affetti personali. La trama si mostra come un campo minato e nel finale ci si illude che una spiegazione logica, alle numerose sventure del racconto, possa fare chiarezza. Effettivamente i passi conclusivi rappresentano il punto di partenza per una riflessione. Infatti, l’episodio finale in cui la protagonista, colta da un cattivo presagio, corre verso casa dal figlio malato, ci offre gli strumenti per un’analisi più profonda: “Ora nella mente stolida e malcresciuta di quella donnetta, mentre correva a precipizio per il suo piccolo alloggio, ruotarono anche le scene della storia umana (la Storia) che essa percepì come le spire multiple di un assassinio interminabile.” Nell’eccezionalità dell’evento, ossia in una presa di consapevolezza nuova della protagonista, risiede la chiave di lettura dell’intero romanzo. Mi chiedo se gli addetti ai lavori, gli esperti e gli studiosi riconducano alla morte il leitmotiv di questo romanzo. A me così è sembrato. Non potrebbe essere diversamente, del resto, se pensiamo al secolo più tragico della storia dell’uomo. I passi del lettore, che attraversano i vari intrecci e viaggiano lungo il tessuto delle vicende sono lenti, dolorosi e soprattutto luttuosi. Muoiono tantissimi personaggi, ma la Morante prima di accompagnarli al loro triste destino vuole avvicinarci a questi individui, non tanto per spingerci alla commiserazione o procurarci quel senso di pietà e compatimento. Lo fa per presentarci al meglio il male, prodotto dell’uomo e suo stesso carnefice. A parer mio il punto più alto di questa Scrittura non risiede nella trama, già capace di straziare il lettore quanto l’idea della morte; presumo che non soggiorni neppure nella costruzione della suspense. La Morante mette a nudo la mente di un individuo che sta per passar a miglior vita. A nessuno è concesso sapere quali pensieri attraversano la mente di una persona che si avvicina al sonno eterno, ma a quanto pare l’autrice sembra avere questo dono. Quindi le allucinazioni, le visioni confuse, l’onirico sono i protagonisti della Scrittura e rappresentano l’apice, la Bellezza suprema dell’intero romanzo. Tutti i moribondi de La storia: alienati dalla paura, abusati sessualmente, dilaniati dalle droghe, stroncati da un assassinio o dalla guerra, straziati da una malattia sono sopraffatti dal loro stesso pensiero, genuino, innocente, quasi infantile, perché lontano dalla preoccupazione dell’ingiustizia. Il lettore è il solo a provare rabbia, è l’unico capace di identificare il colpevole. D’altronde la Morante, negli anni Settanta, sa di consegnare un prodotto accessibile ad un lettore maturo. Sono sicura che sappia, in aggiunta, quanta energia sprigioni il lessico utilizzato, in grado di descrivere questi abbagli, queste visioni e provocare inquietudine e turbamento. La forza dirompente della sua Scrittura destabilizza il lettore e diventa l’arma (purtroppo poco letale) per capire con chiarezza le mostruosità della Colpevole. Essa trionfa ottenendo la fama in copertina, del resto si sa: la “storia” viene scritta da chi vince! Immagini tratte da https://www.modulazionitemporali.it/la-storia-di-elsa-morante-si-fa-teatro-di-grande-valore-al-ctb-di-brescia/
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di Cristiana Ceccarelli Dopo la pubblicazione, nel 2007, di Chiamami col tuo nome, André Aciman ha fatto tornare i personaggi in un secondo romanzo uscito lo scorso anno, Cercami. Sono passati molti anni, in questo secondo libro, da quando l’adolescente Elio, durante un’estate in Riviera, scopriva la forza del primo amore grazie a Oliver, ospite della casa di famiglia. Una forza travolgente e indimenticabile finita in strade diverse di un bivio: Elio pianista tra Italia e Francia, Oliver sposato con figli. Il nuovo romanzo si apre col padre di Elio, Samuel, seduto su un treno verso Roma dove per un incontro fortuito conosce Miranda, ribelle fotografa con la metà di suoi anni. I due percepiscono un’attrazione che potrebbe rivelarsi la messa in discussione di tutte le loro certezze. Anche Elio, trasferitosi poi dalla capitale italiana a Parigi, conosce una persona che potrebbe rivelarsi una storia importante. Nonostante tutto però il ricordo di Oliver è sempre lì, che non riesce a sbiadire. La storia sono le storie interne dei personaggi: i loro pensieri più intimi, le riflessioni sull’altro, sull’approccio al sentimento e al concetto di relazione, e all’amore. L’amore che in Cambiami, come in Chiamami col tuo nome, si esplica nelle sfaccettature più disparate, sfidando tabù e restrizioni, convenzioni. Qui l’amore è sofferenza perché libero di esser stato vissuto, non perché impedito. Qui l’amore è un amore a cui si richiede ragione, analisi per poi spazzarle via, dove le logiche mutano i connotati, anche mentali. Perché è la mente ad essere qui un aspetto massiccio e forte, che accompagnato da quello sensuale si fondono in sintonia per creare un qualcosa che si spinge oltre, verso una conoscenza profonda che cambia i limiti spazio temporali. Le azioni, i paesaggi sembrano voler competere a favore di quest’aura poetica ma allo stesso tempo reale e tangibile che caratterizza il modo in cui Aciman riesce a parlare di sentimenti. A volte, dimenticandosi il significato di amare o impegnarsi a non aver paura della fiducia, l’intensità delle emozioni che i protagonisti sentono risultano eccedenti, inverosimili ma accompagnate da un desiderio che siano vere per poterle provare un giorno. Storie che si salutano e si intrecciano mentre il lettore aspetta un parola che potrebbe riaprire una porta in fondo non era mai stata realmente chiusa. La parola di Aciman è la goccia che battendo piano sulla roccia la scava: leggera ma destinata alla profondità. Leggera per quanto sensibile e malleabile alle esigenze pur mantenendo una nota propria da recondita armonia, in grado di coinvolgere e sedurre chi legge, con delicatezza e tenacia. Anciman sembra interrogarci: esiste davvero una durate dell’amore? I sentimenti che i lettore percepisce leggendo il libro si rispecchiano in qualche modo a quelli contrastanti che provano i personaggi, come a dire: questi siamo tutti noi. Amanti. Come ruolo dell’amante ovvero dell’amare, come persona, un’altra persona. Immagine tratta da:
amazon Comunicato stampa PRODUZIONE FONDAZIONE SIPARIO TOSCANA - FACTORY COMPAGNIA TRANSADRIATICA Eolo Award 2020 come miglior spettacolo a “Mattia e il nonno”, coproduzione Fondazione Sipario Toscana - Factory compagnia transadriatica. Il premio più prestigioso in Italia per il teatro dedicato alle nuove generazioni rappresenta un riconoscimento molto importante per il Centro di Produzione di Cascina, che conferma la qualità artistica della proposta maturata in questi ultimi anni. Grande soddisfazione per il particolare significato di questo premio, assegnato a un lavoro delicato e poetico. Motivazione della Giuria: per aver proposto con estrema poesia e delicatezza, traendolo dal libro omonimo di Roberto Piumini, il tema della morte, così spinoso da offrire al pubblico dei ragazzi. Per mezzo dell'interpretazione felice e leggera di Ippolito Chiarello, lo spettacolo si muove sulla sapiente e immediata riscrittura che Tonio De Nitto ha fatto del libro. La narrazione dell'interprete ci accompagna amorevolmente, mano nella mano, in compagnia del piccolo Mattia e di suo nonno, che da poco lo ha lasciato, in un viaggio fantastico attraverso uno scenario sempre vivo e pulsante, che ci farà comprendere in modo poeticamente profondo come tutte le persone che abbiamo amato, non spariranno mai, rimanendo in maniera durevole dentro di noi. Mattia e il nonno
dal testo di Roberto Piumini, adattamento e regia Tonio De Nitto, con Ippolito Chiarello musiche originali di Paolo Coletta, costumi di Lapi Lou, luci di Davide Arsenio, tecnica a cura di Antonio Longo, organizzazione Francesca D'Ippolito coproduzione Fondazione Sipario Toscana - Factory compagnia transadriatica in collaborazione con Nasca Teatri di Terra 23/5/2020 Linguaggi della paura e del lutto - Antonio Scurati interviene in streaming per il Festival “Pistoia. Dialoghi sull’uomo”Read Nowdi Lorenzo Vanni In questi giorni di pandemia si è costretti a un ripensamento nel nostro modo di rapportarci con la realtà. Il ripensamento va indietro nel tempo e risale all’origine del pensiero chinandosi sulla propria epoca cercando di comprenderla. Torniamo indietro nel tempo di tre decenni: il 1991. La prima guerra del golfo. Per la prima volta viene trasmessa in diretta televisiva una guerra, mentre in passato sarebbe stata solo “notiziata”. Qualunque fosse il nostro pensiero sulla guerra anche se si trattava di un pensiero avverso o indignato, questo non avrebbe escluso che per noi la guerra sia stata una serata passata a sorseggiare una birra fresca. Questa era la nostra situazione paradossale. Questo fu uno spartiacque nell’immaginario occidentale: come predisse Jean baudrillard pochi mesi prima, «la guerra del golfo non si svolgerà». Intendeva che si sarebbe svolta, ma sarebbe stata disintensificata e per molti non sarebbe stata più di una “canonizzazione del telespettatore”. La guerra diventa la normalità perché distaccata dalla vita del telespettatore. Accelerò quindi un processo di lungo periodo diagnosticato da Walter Benjamin: il trionfo dell’inesperienza. Non solo perché il numero di esperienze mediate aumentò vertiginosamente, ma modificò la struttura delle esperienze stesse. Il salto qualitativo portò alla fictual, un universo di immagini di altre tragedie e sofferenze che non distingueva tra reale e fittizio; la distinzione non era pertinente, perché assistevamo a quello spettacolo come a uno show o un film di cui riconoscevamo il dato fittizio. Nasce l’estetica dell’osceno che rende impossibile la rappresentazione della sofferenza che genera empatia. Perdiamo lo sguardo tragico che rende possibile l’immedesimazione purificandoci. Questo corso si interrompe l’11 settembre 2001. Si parla di ritorno alla realtà: il regime confusivo tra finzionale e reale si interrompeva e si sperava che saremmo tornati al contatto con la realtà. Invece la tragedia, concepita come terrorismo mediatico, non fece che intensificare quello stato di cose già provata con la guerra del golfo. Un momento di irruzione del reale, del trauma. Quella violenza che sembrava un punto di svolta viene riassorbita nell’epidemia dell’immaginario (Zizek), si sottrae all’analisi critica e dilaga. Il terrorismo mediatico colpisce una persona come simbolo per moltiplicare gli effetti simbolici come sguardo paranoico. Una grande operazione ideologica che non attiene alla realtà e riassunta nello slogan della televisione via cavo per giustificare la seconda guerra del golfo: War v Terror. C’era menzogna, falsa coscienza, ideologia; nemmeno l’11 settembre ci riporta alla realtà, la politica si concentra sulla minaccia fantasma generata dall’immagine diffusa del terrorismo più che sulla manifestazione reale del terrorismo stesso. Arriviamo agli anni Dieci. Gli anni Zero sono stati il predominio dell’immaginario con la minaccia fantasma mentre il nuovo decennio si inaugura con il populismo politico: una brutalizzazione della politica riportata alla dialettica amico-nemico, un immaginario isterico di fine del mondo polarizzata agli estremi e la coscienza oscilla tra rassegnazione oppure distrazione e menefreghismo che porta a dire che non sta cambiando niente. Il proliferare del populismo sulla confusione tra reale e immaginario porta caos tra di noi, incapacità di elaborazione del lutto di fronte alla morte se non con la violenza fisica o verbale. Il nucleo paranoico è una politica della paura priva di oggetto reale, un nuovo terrore. Ripropone la tematica del nemico alle porte: l’orda dei popoli che migrano dalle coste dell’africa e dalle sponde d’oriente. Su questo si basa la propaganda del populismo mediatico con similitudini con quel che accadde negli anni Venti del secolo scorso con la fondazione dei Fasci di Combattimento. Credo che sia quel che sta di nuovo accadendo non solo in Europa, ma anche in Nord-America con il populismo preparato dall’epidemia dell’immaginario dei decenni precedenti. Arriviamo a oggi. Nelle settimane più drammatiche della pandemia che avrebbe segnato la fine di questo periodo della Storia si era pensato che si sarebbe tornati alla realtà. Ma forse non è così: ha mostrato l’immaturità della classe dirigente del paese, mancanza di sentimento tragico della vita trasformato dalla scomparsa della morte nella rappresentazione reale. Non riusciamo più a confrontarci con la morte, non siamo stati in grado di piangere i morti in forma collettiva, un gesto rituale necessario per riprendere la vita sociale e comunitaria. L’incapacità del lutto fa pensare che neanche la pandemia riporti al contatto con la realtà e al confronto con la morte come crisma. Immagini tratte da: https://www.elledecor.com/it/architettura/a28997305/11-settembre-2001-architetture-new-york/ https://www.youtube.com/watch?v=IbdEtNNGwG8 di Cristiana Ceccarelli Sei anni per scriverlo. Un cambio di rotta estremo se paragonato alla sua pubblicazione precedente Colazione da Tiffany, con cui, vendendone i diritti per il film, riuscì a mantenersi per i sei anni successivi: quelli appunto dedicati al libro A sangue freddo, che prima di essere pubblicato integralmente nel 1965 uscì a puntate sul New Yorker dal 1959. Stiamo parlando di A sangue freddo di Truman Capote, chiacchierato e famoso giornalista e scrittore americano. Nella sua non fiction novel senso della scena, maestria nel montaggio della materia documentale e narrativa si incontrano con la cronaca giornalistica. Il caso è il quadruplice omicidio della famiglia Clutter, ricchi, miti e rispettati cittadini di Holcomb, Kansas, uccisi nel 1959, nella notte del 15 novembre. Un omicidio inspiegabile che scosse tutta la comunità, principalmente dedita ad agricoltura e allevamento. Capote si diresse verso la cittadina prima ancora che gli agenti avessero traccia o idea di chi potessero essere gli assassini, e tutto quello che racconta nel libro deriva se non da documenti ufficiali e interviste, dalla sua diretta osservazione. Il libro infatti è la ricostruzione degli eventi e il racconto delle indagini cui lui stesso ha partecipato. I quattro blocchi narrativi alternano sapientemente i punti di vista, quelli della famiglia, dei colpevoli, degli agenti, con anche un accenno alla sua stessa figura nell’ultimo capitolo, quando si auto inserisce come il giornalista con il quale Perry Smith e Hickock, gli assassini, mantengono un rapporto epistolare duraturo e presente nel braccio della morte. Presenzialista, mondano, debordante scrittore americano, Capote si immerse nei fatti della vicenda Clutter; un quadruplice omicidio che diventò per lui quasi ossessione: esperienza esistenziale e letteraria allo stesso tempo. Lo sguardo è cronaca ma anche se ne discosta, con una scrittura che a volte richiama il simbolico e l’allegorico. Come i due gatti randagi che aprono la scena all’arrivo dei due assassini nella cittadina dove hanno commesso l’omicidio dopo una lunga latitanza. La scrittura lo tradisce, da piana a improvvisamente articolata e descrittiva. Il vocabolario ricercatissimo, come anche i tecnicismi legali e psichiatrici e le similitudini rendono il libro una pietra miliare nel genere ibrido cronaca nera novel, che diede vita a un nuovo genere letterario. “ Una lingua indecisa fra la disciplina del dettato ( giornalismo), la furia della ricerca (esibizione dei materiali) e la seduzione di una sintassi e lessico ricercati. Kauffmann, il primo critico di Capote, parlò di incapacità nello scrivere in un inglese corretto e liscio, forse perché non riuscì a comprendere l’armonia tra i vari registri, quello della cronaca e della tragedia, quello della narrativa, della scena e quello dell’empatia per uno dei due assassini, Perry Smith. Le espressioni forti sono evitate anche quando presumibili, mentre favoriti sono gli idioletti e le espressioni idiomatiche (blood bubbles – a lily-livered lot).” Anche il linguaggio delle lettere rispecchia empaticamente quella dei mittenti; e la rima persona rende un’esposizione documentale e indizi psicologici. La lingua di Capote è proprio un intreccio fra la registrazione”mentale” della testimonianza e la reinvenzione di un parlato, che è tutto al servizio della “resa della scena”. Come lo è anche la voce narrante in terza persona. “A sangue freddo non è il romanzo di Smith e Hitchcock: è piuttosto la registrazione narrativa di una società che rivendica la propria sanità ma non smette di produrre male”. La fine, si dice, del sogno americano. E Capote stesso, con l’obiettivo di portarci davanti a quel male, alla sua complessità, finisce in trappola.. Rimane infatti dubbia la veridicità assoluta del finale come del movente e del perché i quattro omicidi furono eseguiti: commissione di qualcuno della comunità che odiava i Clutter? come viene suggerito in alcuni passaggi; e la forte empatia sviluppata dallo scrittore soprattutto nei confronti di uno dei due assassini, che lo portò a un’ambivalenza di sentimenti micidiale: sentimento personale e l’esito che sarebbe stato più adeguato per il finale della storia. Questo porta a un’altra questione. Molti criticano la scelta di sequenzialità . Come giornalista avrebbe dovuto forse scrivere all’inizio quello che ha riportato alla fine. Però, c’è sempre un però: per quanto lo stile si discosti da quello semplice ed effettivo che il giornalismo richiede, capisci, sebbene la ricercatezza, che tutto quello che stai leggendo è vero; e la scelta delle priorità è dovuta a quello che lui voleva far risaltare nella vicenda. Che poi è un po’ quello che devono fare i giornalisti. E se Capote abbia tentato, con il suo libro, di ribaltare le sorti della sentenza? Capote sembra abbia voluto seguire il corso degli eventi spostandosi dalla linea temporale solo per richiamare degli episodi che approfondissero le figure coinvolte e facessero capire di più su di loro. Ci fa capire nel corso degli eventi quanto uno dei due assassini fosse in qualche modo davvero disturbato: passato infelice, maltrattamenti, visioni, distaccamento; ma se non l'ha detto all'inizio è anche perché questo aspetto non ha avuto risalto per una conclusione diversa. Il medico che fece i test psichiatrici fu chiamato al banco d'accusa e difesa ma, per la legge vigente nel Kansas, non poté che rispondere si o no alla domanda sulla capacità di discernimento del bene e del male degli assassini al momento dell'omicidio. Si o no, solo quello. E infatti la spiegazione del perché di questi due diversi esiti non è stata esplicata in tribunale ma raccolta post dal giornalista, come anche i dibattiti fra professionisti e cittadini che seguirono il caso. Quindi concludere così, con la verità sulle due figure e la sorte che a loro è toccata, insieme alle condizioni delle carceri, la lista degli stati che ancora prevedono la morte, e i giochi degli avvocati e i vari appelli, voleva forse essere un monito a riflettere. E si riesce solo a riflettere, forse, se prima conosci tutta la storia e poi di improvvisano ti si presenta un'altra sfaccettatura della sua realtà. A quel punto sei costretto a rivedere quello che hai appena letto, sentito, creduto. Immagini tratte da www.feltrinelli.it |
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Maggio 2023
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