![]() La Letteratura inglese rinascimentale non è soltanto William Shakespeare, ma è anche Christopher Marlowe (1564-1593). Personaggio eclettico e controverso, autore di drammi in cui a emergere è il carattere individualista e dominante dei personaggi, spinti all’azione dallo spirito antropocentrico del Rinascimento e accompagnati dal sapiente e magistrale uso del pentametro giambico. Classicista e traduttore di Lucano, l’interesse di Marlowe, tuttavia, era rivolto alla produzione teatrale e a un tipo di teatro scandaloso agli occhi dell’austero pubblico elisabettiano, soprattutto in opere come The Jew of Malta (“L’Ebreo di Malta”, 1589), Dr Faustus (“Dottor Faust”, 1592) ed Edward II (“Edoardo II”, 1593) (immagine qui). Nell’ Ebreo lo scandalo è duplice: non soltanto egli porta sulla scena l’Ebreo, personaggio inviso all’Europa rinascimentale, ma il prologo dell’opera è affidato a Machiavel, l’odiato e immorale Machiavelli. Tema dell’opera non è la critica all’immoralità dello scrittore italiano quanto smascherare la cupidigia e l’ipocrisia delle religioni rivelate, in quanto Marlowe, da ateo, muove una feroce critica alla tradizione giudaico-cristiana e islamica attraverso il protagonista, il machiavellico Barabas (il cui nome richiama Barabba) (Bevington, Rasmussen 1995: xxviii-xxiv). ![]() riformati) con lo spirito individualista e antropocentrico del Rinascimento. Il mito di Faust (il quale, agli occhi dei Protestanti, corrisponde al Cattolico romano che cerca di acquistare la salvezza tramite le indulgenze) serve a Marlowe, attraverso un linguaggio evocativo e molto forte, per esaltare le qualità antropocentriche e individualiste dell’uomo rinascimentale, ma la morale tradizionale impone la punizione per la hybris del protagonista. Tuttavia il carattere ateo e miscredente di Marlowe si manifesta anche nella figura del protagonista: egli non rinuncerà mai ai suoi libri e alla negromanzia e preferisce andare all’inferno (cfr. Honderich 1973, Bevington, Rasmussen 1995: 46). Con Edoardo II (1593) Marlowe esplora il Medioevo inglese e la sua complessa storia: basandosi sulle cronache di Holinshed (1587), il drammaturgo dà conto della tormentata vicenda di Edoardo II e del suo rapporto col favorito Piers Gaveston, di natura probabilmente omosessuale. L’incapacità del re di governare porterà a una congiura che lo vedrà assassinato in modo crudele e la salita al trono del figlio Edoardo (futuro Edoardo III). Con Edoardo II, tuttavia, Marlowe non intende rappresentare le vicende storiche fino a se stesse, ma si serve della Storia come canovaccio per la rappresentazione di vicende personali ed emozioni, come il rapporto tra il monarca e Gaveston o con la moglie Isabella. La drammaturgia dello scrittore inglese sfida le imposizioni della sua epoca, presentando personaggi potenti, forti e al di là delle convenzioni socio-morali (Barabas e la blasfemia, Faust e la negromanzia e lo stesso Edoardo, pur nella sua fragilità, corrisponde a un personaggio complesso e non storico fino a se stesso). La sua esuberanza, la sua omosessualità, la sua attività di spia e il suo carattere blasfemo lo porteranno a una morte prematura nel 1593, ma avvolta da leggende e misteri che rendono la figura di Christopher Marlowe ancora più affascinante e appassionante e, soprattutto, ci ha strappato un talentuoso artigiano della parola e della Letteratura inglese rinascimentale. Bibliografia: Bevington, D, Rasmussen, E (eds) (1995) Christopher Marlowe: Doctor Faustus and Other Plays, edited by David Bevington and Eric Rasmussen, Oxford, Oxford University Press. Honderich, P (1973) “John Calvin and Doctor Faustus”, The Modern Language Review 68 (1): 1-13. Immagini tratte da:
Christopher Marlowe, da Wikipedia Inglese, By Unknown - http://factoidz.com/images/user/42777.jpg, Public Domain, voce "Christopher Marlowe" Doctor Faustus, da Wikipedia Inglese, By Iohn Wright - en:Image:Faustus-tragedy.gif, Public Domain, voce "Doctor Faustus (play)"
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![]() Razionalità: Conosci Socrate, Anima? Anima: Ma quello greco, quello del conosci te stesso? Razionalità: Sì, sì, proprio lui. Cuore: Conoscere se stessi è una cosa meravigliosa, però, onestamente, mi lascio trasportare troppo dalle emozioni. Ogni volta, mi trovo costretto a pensare come agire, come essere, portandomi dietro il bagaglio di esperienze passate. Funziona così, l'amore? Bisogna svelare noi stessi? Perché per me è un mare di emozioni. Anima: Ma come potete pensare di svelare subito voi stessi? L'amore, se esiste, è una cosa alchemica, che nasce col tempo, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, con pazienza, gradualità, svelandosi poco a poco fino ad essere nudi davanti alla persona. Razionalità: Cuore, agisci sempre di impulso, senza mai ragionare. Vai troppo di fretta, finendo per spaventare le persone che ti circondano. Anima: Le persone, se agisci solo con quella parte del corpo, finiscono x scappare. Cuore: Ma allora come devo agire? Come posso essere me stesso, se devo tenere a mente tutte queste cose? Anima: Sbagli ancora, Cuore. Essere te stesso significa non pensare a come devi essere, a come devi apparire. Una persona ti vede x quello che sei, perché usare una maschera? Razionalità: Beh, la maschera è funzionale, serve ad apparire e ad essere se stessi in diverse occasioni. Cuore: Ma io voglio essere me stesso … solo … solo, mi sembra di dire troppo … di essere, non so, troppo emotivo. Anima: Cuore, in amore è giusto essere se stessi, solo che alcune cose, semplicemente, non vanno dette. Cuore: Cosa non devo dire? Anima: Semplicemente, Cuore, cerca di far capire all'altro chi sei, cosa vuoi, però tenendo dentro qualcosa che l'altro possa scoprire, capisci cosa intendo? La maggior parte della vita consiste nell'andare, e non nell'arrivare, perché quando una persona giunge dove pensava di essere diretta, prova inevitabilmente l'esigenza di recarsi da un'altra parte. Razionalità: Usa la testa, e vedrai che, col tempo, questa persona capirà chi sei. Anima: Esatto, Razionalità, ma lascia che ti scopra, che resti in lei una curiosità. Cuore: Ok ragazzi, ma non capisco una cosa, come nasce, allora, un sentimento? ![]() Anima: Te Cuore hai sentimento, solo devi capire come usare correttamente questo fuoco meraviglioso che si accende e divampa dentro ognuno di noi. Piccoli passi portano a volte a grandi cose. Non fare voli pindarici, senno finisci per scottarti come Icaro e Fetonte. Ricorda, la pazienza è la virtù dei forti. Lascia che sia il tempo a decidere, non soffocarla, falle capire chi sei, e solo allora, forse, succederà qualcosa. Falle vedere il tuo mondo, il tuo lato sensibile, romantico, gentile. Cavolo, se ti chiamavano Byron, forse una ragione ci sarà. Razionalità: Ma quel Byron vanaglorioso che decantava la natura? Anima: Byron, quel poeta capace, coi suoi versi, di svelare un Anima. Come dice Max Pezzali? Bello, allegro, sensibile, e fantastico, dove non ti puoi ritirare, ma soltanto correre, con la persona che ti ama accanto a te. Non puoi parlare ancora di amore, ma se veramente pensi che questa persona sia valida da conoscere, parti da quello. Parti dal fare vedere chi sei, sii te stesso, sempre. Fregatene dei preconcetti, delle categorie precostituite. Cuore: Il vero amore, allora, significa liberà e crescita, e non senso di possesso. Farmi sentire troppo, inizialmente almeno, è sbagliato. E non è nemmeno restrizione, deve essere pace, e non quell'agitazione che ho rischiato di suscitare. Deve essere sicurezza, e non generare paura. Anima: Solo da li nasce la comprensione, la lealtà, la sintonia e il rispetto, se non vieni trattato con il giusto rispetto, finisci per soffrire, oppresso da un dolore profondo, perché sai, che in fondo, l'altra qualcosa cerca. Ha solo tempi diversi, però è rimasta affascinata. Tutto quello che facevi era corretto, però, se esasperato, diventa una forza distruttrice, capace di sfibrare l'anima, e non fa parte tutto questo della bellezza caratteristica del vero amore, di come esso si genera. Cuore: Ero a conoscenza di queste cose, solo, non sapevo come e quando utilizzarle. La magnificenza dell'universo stesso, anzitutto. Ogni attimo è un banchetto di nuove possibilità, ogni giorno è un frutto perfetto per essere colto. Devo solo fare in modo che esso sia maturo, e non aspro o acerbo. Se maturo, forse lei raccoglierà le messi, approfittando dell'abbondanza (senza sprecare nulla, perché tutto ciò che è, è prezioso. Se sbaglio, tutto ciò che é, perché non devo pensare al potrebbe essere, diventerà ciò che è stato. Non voglio, Anima, che accada. Dici che sarà tardi? Che lei, in cuor suo, è già scappata? ![]() Anima: Non sta a te, dirlo. Lascia sia lei, scoprendo chi sei, a decidere. Te fai solo trasparire quanto di bello puoi dare. Se questo mondo le piacerà, perché sei rimasto uno dei pochi di questo mondo antico e dimenticato andato perduto e sostituito da altri valori, sarà lei a venire da te (forse). Fregatene delle barriere, di una partenza prossima, vivi il presente, che è stato bello fino ad adesso salvo alcuni malintesi. Parti da quello. Cuore: La verità ha sempre fatto parte di me, solo non avevo sufficiente consapevolezza Anima e Razionalità: Esatto, Cuore. Siete 2 numeri primi, anime rare in un mondo malato, vedrai che, comprese queste cose, lo scoprirsi sarà piacevole, come un gioco a tappe in cui, come una caccia al tesoro, finite per trovare gli indizi che portano alla verità, ossia l'essenza della persona. Cuore: Grazie, ragazzi. Avevo bisogno fino ad adesso di amare per sentirmi bene, invece adesso posso scegliere di amare perché mi sento bene. Con questo assioma, e comprese queste cose, inizio a svelare me stesso, facendo trasparire l'essenza, ma tenendomi dentro quel qualcosa che deve essere l'altro a scoprirlo. Sitografia:
blog.libero.it itesoridiamleta.wordpress.com www.blueplanetheart.it Bibliografia: La principessa che credeva nelle favole La storia del pensiero psicoanalitico trova al suo interno un intimo e proficuo legame con il teatro, quel teatro che offre un accesso insolito e privilegiato non solo a varie personalità, ma proprio a differenti stati mentali. Il lavoro di recitazione e di regia, infatti, indaga la natura dei diversi stati mentali dei personaggi, anche estremi, della tradizione teatrale occidentale e permette di entrare in contatto diretto e di riflettere sulla dimensione mentale inconscia del personaggio e dello stesso autore che lo crea. Nei suoi primi scritti Freud ha usato spesso termini come “ruolo”, “scena”, “maschera”, per descrivere quel particolare “teatro” che è l’inconscio. A partire da Freud, altri autori si sono interessati alle opere teatrali, al loro significato e alla loro fruizione, tra cui possiamo annoverare Otto Rank, Eric Fromm e Jacques Lacan. Un discorso a parte merita l’opera di Jacob L.Moreno che, a partire dal 1921, ha sviluppato un metodo denominato Psicodramma che spinge il soggetto verso un lavoro di ricerca attiva: si tratta di una forma di psicoterapia dove, recitando una situazione passata, presente o futura, i conflitti e gli eventi problematici vengono rivissuti ed elaborati. Ampliando la visione, riguardo alla percezione dell’insight estetico, Di Benedetto, analizzando l’opera di Pirandello, ha esaltato la capacità del teatro come strumento di conoscenza esistenziale. Come egli scrive: “Per vivere non si può far altro che accettare la limitazione di un’immagine falsificante, la condanna a recitare una parte. L’unica verità incontestabile è la finzione. Il teatro, si è detto, la fa conoscere, rappresentandola. La vita la presenta e basta. E purtroppo impone di subirla, scindendo il vero-Sé di ciascuno dai rapporti umani. L’esistere è dunque la tragedia vissuta senza scampo. Il teatro è invece congegno per rivivere quella stessa tragedia, prendendone le distanze e osservandola. È il luogo dove lo spettatore scopre un senso e scopre le verità occultate dalle convenzioni socio-culturali”. Il legame tra psicoanalisi e teatro è evidente nel fatto che l’opera teatrale vive dei fenomeni inconsci interni all’individuo, delle problematiche relazionali e familiari, dell’esperienza umana in senso più ampio che dal particolare giunge all’universale. Nell’analisi dei personaggi permangono, infatti, delle caratteristiche di universalità, indispensabili per quei meccanismi psicodinamici che appartengono alla prospettiva psicoanalitica anche in senso non clinico. Anche quando il teatro propone personaggi “estremi”, in essi è sempre possibile individuare caratteristiche universali percepibili da ogni spettatore. Esiste dunque qualcosa di più forte di un’analogia tra psicoanalisi e teatro: entrambi tendono alla comprensione della realtà emozionale dell’esperienza umana, creando un vero e proprio spazio rituale, entro il quale si possono determinare intense esperienze emotive. BIBLIOGRAFIA
-A.Angelini, Psicoanalisi e Arte Teatrale, Alpes Italia, Roma 2014 IMMAGINI TRATTE DA http://www.filosofico.net/freud.htm http://www.indafondazione.org/it/oggi-al-teatro-greco-baccanti-di-euripide-il-10-giugno-a-palazzo-greco-serata-in-memoria-di-matteotti/ ![]() Edward Morgan Forster (1879-1970) è una delle voci più significative della Letteratura inglese del sec. 20°, autore di romanzi in cui cerca di ispirare tolleranza, rispetto comune e smontare stereotipi e false idee, fondandosi su premesse umanistiche. Smantellare stereotipi e intolleranza è qualcosa di programmatico nella narrativa forsteriana, come si vede bene nel suo primo romanzo, Where the Angels Fear to Tread. Ambientato a San Gimignano, l’autore dà una rappresentazione simpatetica degli Italiani, che si oppone alla freddezza e al sospetto esercitato dagli Inglesi (Winkgens 1986). Sullo stesso tono, ma più complessa è la fabula di A Room with a View (“Camera con vista”). La vicenda si svolge tra l’Inghilterra e Firenze, ma è la vista, come già annunciato dal titolo a giocare un ruolo di primo piano nel testo: è quella vista, quel ben guardare e quel ben discernere che permette di sradicare pregiudizi, intolleranze e abbattere barriere sovranazionali. Al tempo stesso Forster costruisce un’opposizione binaria tra personaggi che definisce medievali (come Cecil Vyse, che guarda con sospetto all’Italia e agli Italiani; sono forti in lui il retaggio protestante e, dunque, la diffidenza verso il mondo mediterraneo) e rinascimentali (come la protagonista, Lucy, artefice di una vera e propria rivoluzione epistemologica grazie alla sua apertura nei confronti del mondo e dell’Altro). ![]() Un altro problema molto sentito da Forster è il colonialismo, a cui eserciterà una feroce critica in A Passage to India (“Passaggio in India”). Il Dr Aziz, medico indiano di religione musulmana, è costretto subire quotidianamente le angherie dei colonialisti britannici, ma non tutti gli Inglesi sono uguali: infatti Mrs Moore (il cui cognome allude alla sua libertà dai pregiudizi, al distacco, e al filosofo George Moore, di indirizzo spiritualista) rispetta la sua fede, togliendosi, in apertura del romanzo, le scarpe entrando in una moschea. L’altro Inglese “atipico” è il direttore della locale scuola, Cyril Fielding, che condivide lo stesso approccio umanistico di Mrs Moore. Se nei romanzi precedentemente descritti vi era stata una risoluzione dei conflitti, non è possibile risolvere il caos, la molteplicità e la visione del mondo indiana e, soprattutto, Fielding e Aziz non potranno essere veramente amici fino al 1947, cioè fino all’indipendenza della nazione indiana (Sutherland 2014). La narrativa forsteriana esce dai canoni del materialismo e del realismo ottocentesco, concentrandosi sulla psicologia dei personaggi e sul tentativo di uscire dagli stereotipi e di seminare il seme della tolleranza, specialmente verso gli odiati Italiani (prodotto di un retaggio culturale che risale alla Riforma) e verso le colonie (l’India). Bibliografia Winkgens, M (1986) „Die Funktionalisierung des Italienbildes in den Roman“Where the Angels Fear to Tread” von EM Forster und “The Lost Girl” von DH Lawrence“ Arcadia (21): 41-61. Sutherland, J (2014) How to be well read: A Guide to 500 great novels and a Handful of Literary Curiosities, London, Random House Books. Immagini tratte da:
- Ritratto E.M. Forster, 1924/25, Pubblico dominio, wikipedia tedesca, voce: EM Forster. - A passage to India: http://www.penguinrandomhouse.com Il significato della rosa nel celebre romanzo di Eco ![]() Tutti abbiamo sentito parlare del Nome della Rosa, celebre romanzo di Umberto Eco, ma vi siete mai chiesti quale sia il vero significato del titolo? Apparentemente un romanzo giallo, Il Nome della Rosa è un capolavoro intriso citazioni letterarie, composto da una componente filosofica e esoterica essenziale per comprendere l’essenza del romanzo. Un’opera, pertanto, che cerca di sviscerare, attraverso un’attenta riflessione filosofica, il concetto di verità: essa può essere colta attraverso il metodo tomista? Sono sufficienti le tre leggi aristoteliche sul metodo, o forse questa filosofia è stata superata dal metodo deduttivo che sembra assumere, almeno in parte, Guglielmo da Baskerville? Il concetto di verità va ricercato all’interno del romanzo, in particolare in quello stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus a chiusura di una delle opere più complesse di tutto il ‘900. Prima di svelarne il significato, è essenziale comprendere cosa sia il nominalismo, scuola di pensiero a cui fa affidamento Guglielmo da Baskerville ideata da Roscellino, sviluppata da Abelardo e ripresa da Occam. Un primo assaggio di cosa sia può essere colto in un celebre dialogo a inizio romanzo:Guglielmo, durante un dialogo con alcuni interlocutori, spiega come lui sia riuscito a descrivere minuziosamente un cavallo senza averlo mai «tra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un'idea universale», ho scelto la traccia singola, senza correre dietro alle idee universali che sono "puri segni”. ![]() Questo dialogo, apparentemente insignificante, racchiude al suo interno la filosofia adottata da Guglielmo secondo cui non è possibile, come sostiene Aristotele e Tommaso d’Acquino,cogliere l’essenza delle cose. Non è più la filosofia degli universali “il libro”, “la casa”, ma una scuola di pensiero secondo cui la verità esiste solo soggettivamente o logicamente nel pensiero dell’individuo e non ha nessun fondamento nella realtà. La filosofia adottata da Guglielmo è quella occamica, un tipo di ricerca empirica per cui non è possibile conoscere la verità se non hai gli accidenti. Una filosofia errata, in quanto solo alla fine del romanzo Guglielmo si accorge di avere seguito una pista sbagliata, se di pista si può parlare, seguendo la logica perversa di Jorge de Burgos «avevo inseguito il disegno di una mente perversa e raziocinante, e non v'era alcun disegno, ovvero Jorge stesso era stato sopraffatto dal proprio disegno iniziale e dopo era iniziata una catena di cause, e di concause, e di cause in contraddizione tra loro, che avevano proceduto per conto proprio, creando relazioni che non dipendevano da alcun disegno». Per tutto il romanzo Guglielmo crede che la ricerca della verità non sia altro che la ricomposizione di un puzzle fatto di tanti tasselli, un “quadro” composto da «segni multiformi» che lo hanno portato lontano dalla verità, facendoli ammettere di essersi «comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è un ordine nell'universo». È proprio l’avere seguito un metodo errato, una filosofia troppo simile a quella tomista di Bernardo Gui il secondo libro di Aristotele […] insegnava a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi» che costa a Guglielmo da Baskerville la perdita del manoscritto di Aristotele e la morte di numerosi “fratelli”. Solo verso il finale del romanzo, l'abate, in preda a un trasporto mistico, mostra ad Adso il suo prezioso anello costellato di pietre preziose, da cui nasce l'articolata disquisizione sui significati di ogni gemma. «Il linguaggio delle gemme è multiforme, ciascuna esprime più verità, a seconda del senso di lettura che si sceglie, a seconda del contesto in cui appaiono. E chi decide quale sia il livello di interpretazione e quale il giusto contesto? Tu lo sai ragazzo, te l'hanno insegnato: è l'autorità, il commentatore tra tutti più sicuro e più investito di prestigio, e dunque di santità. Altrimenti come interpretare i segni multiformi che il mondo pone sotto i nostri occhi di peccatori, come non incappare negli equivoci in cui ci attrae il demonio?» ![]() Guglielmo, pertanto, fa da apripista agli sconvolgimenti epistemologici della modernità: l'individualismo protestante, la morte della metafisica, lo scetticismo cartesiano e la riflessione kantiana. La domanda a cui Guglielmo deve dare un’ultima risposta è: la verità, esiste? Nonostante fosse «vero che le orme sulla neve rinviavano a Brunello che Adelmo si era suicidato, che Venanzio non era annegato nell'orcio, che il labirinto era organizzato così come lo avete immaginato, che si entrava nel finis Africae toccando la parola quatuor, che il libro 5 misterioso era di Aristotele», non esiste nessuna regola a nessun sistema in grado di spiegare tutto.Guglielmo si è trovato, pertanto, ad avere inseguito una logica perversa di un uomo perverso, la cui verità va ricercata, se di verità si può parlare, nello stat rosa pristina nomine, nuda nomina tenemus. Pronunciata da Atso in chiusura del romanzo il discepolo, in maniera esoterica, fa un sunto del suo percorso spirituale. “La rosa archetipa esiste solo di nome; possediamo soltanto dei nudi nomi” non è altro che la complessità del mondo in cui Atso si è trovato inserito, un mondo in cui ha avuto difficoltà ad orientarsi e che, solo grazie a una guida, ha saputo compiere un percorso spirituale grazie a dei codici etici saldi. Il mondo in cui si ritrova immerso il discepolo è fatto di cause e concause, apparentemente legate tra loro e in verità prive di filo logico. Un mondo, pertanto, pieno di significati manifesti, proprio come quell’anello di diamanti mostrato dall'abate al discepolo, incastonato di gemme dal significato non univoco. Se l’anello è metafora della rosa, figura simbolica dotata di così tanti significati da averne oggi pochi, il percorso spirituale di Atso non è altro che un ricordo, un mondo distrutto cancellato dalle fiamme e destinato a scomparire. L’Avana amore mio - Taccuino avanero e storie cubane Il Foglio - Pag. 180 - Euro 12 Fotografie originali di Orlando Luís Pardo Lazo e Stefano Pacini. Raccontare L’Avana attraverso le pagine dei suoi scrittori: Carpentier, Piñera, Gutiérrez, Valdés, Estevez... E nella seconda parte una selezione di storie cubane. Un libro di viaggio, una passeggiata per L’Avana più vera e cadente, meno turistica e più cubana. “Non posso essere fedele a una causa persa, ma posso esserlo a una città perduta. Questa è L’Avana di Cabrera Infante: una città perduta che lo scrittore non riesce a ritrovare. Forse era proprio quello che temeva, scriveva di Cuba per esorcizzare la paura di morire prima di rivedere il suo mare. Povero Cabrera Infante, morto tra la nebbia di Londra sognando un bambino che si arrampica come un gatto su una palma reale. L’Avana per un infante defunto suona adesso come un titolo beffardo, un sogno irrealizzabile di rivedere palazzi e porticati, guaguas affollate, biciclette e Chevrolet sul lungomare, Lada e sidecar che sfidano buche sul selciato, sensuali trigueñas e mulatte dai fianchi larghi. Niente è più possibile, resta solo la fedeltà a una città perduta, espressa in milioni di parole gettate in faccia al vento e disperse tra le braccia della storia”. L’Avana, io non so se ritorneranno quei tempi/ L’Avana, quando cercavo la tua luna sul Malecón/ L’Avana, quando potrò vedere di nuovo le tue spiagge/ L’Avana, e rivedere le tue strade sorridere/ L’Avana, nonostante le distanze non ti dimentico/ L’Avana, per te sento la nostalgia del ritorno (da Zoé Valdés, La vita intera ti ho dato). Immagini tratte da:
fornite dall'autore Thomas Mann (1875-1955), premio Nobel per la letteratura nel 1929, è uno degli esponenti più significativi nel complesso e variegato panorama della prosa novecentesca. Nato a Lubecca in una ricca famiglia borghese, Mann è il figlio di un importante politico della città anseatica e di una donna brasiliana: è fondamentale notare questo aspetto in quanto il dualismo Nord/Sud ritornerà frequentemente nella sua opera. Nel 1901 scrive il suo primo grande romanzo (che gli varrà il Nobel), cioè I Buddenbrook: Decadenza di una famiglia. Forte è la componente autobiografica (Mann si ispira alla sua famiglia e al suo ambiente sociale), ma anche l’attenzione rivolta al progressivo disfacimento di una ricca famiglia mercantile di Lubecca tra il1835 e il 1877. Il testo è la rappresentazione di un mondo che si avvia alla distruzionee alla crisi, ma dove resistono saldamente la fede luterana (il romanzo è venato di echi dal catechismo di Lutero) e la sua etica del lavoro (Crescenzi 2007). Il nome di Thomas Mann è legato, nell’immaginario comune, a quella che probabilmente è la sua opera più celebre: La morte a Venezia (1912). Il protagonista, lo scrittore di mezza età Gustav von Aschenbach, abbandona la fredda Germania per recarsi nella soleggiata Venezia (fondamentale è rimarcare di nuovo il contrasto tra la freddezza del Nord e il calore del Sud). Sarà nella città lagunare che lo stanco letterato farà la conoscenza di un giovane affascinante Polacco, Tadzio. Egli rappresenta una nuova scintilla nella sua vita ascetica dedicata al culto dell’arte, finendo per scatenare il suo latente omoerotismo. Inseguendo il suo ideale platonico di bellezza e il suo desiderio d’amore, von Aschenbach incontrerà invece Thanatos, morendo di colera a Venezia (Wydlin, Schmidlin 1994: 198-203). In Tonio Kröger (1903) la dicotomia manniana tra arte e vita è il tema principale. Tonio, come tradisce il nome, è di origine meridionale (sua madre si chiama Consuelo), ma il suo aspetto fisico corrisponde allo stereotipo settentrionale: biondo, con gli occhi azzurri. Egli risiede a Lubecca, la città borghese e mercantile, ma anela per Monaco, la viva città meridionale, dove poter intraprendere la sua carriera letteraria. Sarà proprio questa carriera che lo spingerà a dire che l’artista deve morire ogni giorno nel mondo borghese. Come sintetizza Heller (1938: 9, 1952: 167, 1958: 68, 286) la controfigura di Thomas Mann/Tonio Kröger è il Torquato Tasso goethiano, il poeta controriformistico venato di melanconia e lontano dal mondo per la sua follia. Il percorso letterario di Thomas Mann abbraccia un mondo sul viale del tramonto (nei Buddenbrook), si rispecchia nei tormenti di un maturo scrittore, il quale scopre la sua omosessualità in tarda età (nella Morte a Venezia) e riconosce l’impossibilità di potersi dedicare senza ostacoli all’arte nel mondo borghese (in Tonio Kröger). BIBLIOGRAFIA Crescenzi L (a cura di) (2007) Thomas Mann, La morte a Venezia, a cura di Luca Crescenzi, Milano, Meridiani Mondadori. Wydlin, H, Schmidlin, Y (1994) Thomas Mann. Ein Leben in Bildern, Zürich, Artemis. Heller, E (1938) Flucht aus dem zwanzigsten Jahrhundert: Eine kulturkritische Skizze, Wien, Saturn-Verlag. Heller, E (1952) The Ironic German: A Study of Thomas Mann, London, Secker & Warburg. Heller, E (1958) The DisinheritedMind: Essays in Modern German Literature and Thought, Cambridge, Bowes and Bowes. Immagini tratte da:
- Thomas Mann, wikipedia inglese, Carl Van Vechten, pubblico dominio, voce “Thomas Mann”. - I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia, wikipedia italiana, H.-P.Haack, CC BY 3.0 voce I Buddenbrook. - Tonio Kröger, Wikipedia italiana, H.-P.Haack, Attribuition, voce “Tonio Kröger”. ![]() Scritto nel 1966 in soli sette giorni, quando Georges Simenon viveva a Épalinges, una ricca località svizzera, Il gatto è forse uno dei suoi capolavori. Emblematico il fatto che da lì a pochi anni, nel 1972, l’autore deciderà di ritirarsi e non scrivere più. Il gatto mette in scena una storia atroce, crudele, dove l’animo umano si mette a nudo in tutte le sue debolezze e fragilità, ma dove raggiunge anche livelli molto bassi. “Non ho mai scritto nulla di più crudele” dirà lo stesso Simenon in proposito. Protagonista un’anziana coppia, entrambi al loro secondo matrimonio, e quelli che forse potremmo definire il loro “animali totem”. Il gatto, animale amato da lui, e il pappagallo, di lei, diventano il campo di scontro di due mondi che nella solitudine si incontrano, si uniscono nel tentativo di colmare un vuoto, ma non riescono mai a incontrarsi e quindi inevitabilmente non riescono che a scontrarsi. Marguerite è attaccata ad un passato ormai lontano, ma sempre presente nella sua casa museo, e a dei rapporti forse un po’ freddi, dominati dalle consuetudini, dalle formalità; totalmente diverso Émile, che è sì un uomo del popolo, ma forse proprio per questo capace di vivere una vita in cui l’essenziale è cogliere l’attimo, godendo appieno di ogni sensazione ed emozione che ci viene data. Impossibile non notare che, sebbene i due personaggi siano una coppia anziana, in realtà i loro comportamenti siano più assimilabili a quelli infantili. Una comunicazione fatta di bigliettini, che spesso non serve veramente a comunicare, ma solo a infastidire l’altro, i dispetti portati avanti come una sorta di sfida; questi atteggiamenti non sono quelli che ci si aspetta da due adulti con il loro carico di esperienze. Nonostante questo e nonostante l’evento che potremmo definire la classica “goccia che fa traboccare il vaso” è indubbio che un legame si crea tra Marguerite ed Émile. Tant’è vero che quello che potrebbe essere lo scioglimento, quando cioè Émile lascia la casa di Marguerite, è in realtà solo un momento; dopo quindici giorni infatti Émile fa ritorno a casa, turbato dalle continue apparizioni della moglie davanti alla locanda in cui si è trasferito. Forse è un legame malato, fatto di pietà, paura della solitudine e odio quello che Simenon mette in scena, ma senza dubbio reale e autentico nella sua drammaticità. Nel finale non si può non rimanere con l’amaro in bocca, perché l’odio che ci descrive l’autore si presenta sì come qualcosa che causa uno scontro, ma anche come qualcosa che in maniera inevitabile unisce, lega, fino a diventare quasi l’unica chiave di lettura possibile della vita. La storia viene racconta con un focus orientato maggiormente dalla parte di Émile, dove si alterna il presente e il ricordo di episodi passati. Il ritmo della narrazione non cala mai durante l’intero romanzo, tra ciò che è detto e ciò che è solo lasciato intendere, tenendo il lettore incollato al libro. Foto tratte da: foto dell’autore O speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età! Sempre, parlando, ritorno a voi Dopo il Risorgimento, che, come suggerisce lo stesso titolo, segna il ritorno di Leopardi alla poesia dopo gli anni delle Operette Morali, le speranze presenti e future non esistono più: esistono le speranze di una volta, quelle antiche, di cui Leopardi parla nel componimento Le ricordanze rievocando il ragazzo che la sua vita ingannevole vagheggia. «Indelibata, intera il garzoncel, come inesperto amante, la sua vita ingannevole vagheggia, e celeste beltà fingendo ammira» indica che il fanciullo, come un amante privo di esperienza per la donna amata, sogna «vagheggia» che la sua vita piena di illusioni «ingannevol» sia intatta «intera», mai gustata da nessun altro «indelibata», e avendo immaginato «fingendo» la sua bellezza divina «celeste beltà,» la adora «ammira». Se al presente non c'è spazio per la speranza, il ricordo del passato è un'immagine fasulla «mero desio», un pensiero vano «la gloria», nient'altro che «nebbie sogni e fantasmi» che ingannano il poeta facendogli credere in qualcosa che non ha più ragion d'essere «se i nostri antenati hanno veduto chiaro perché la gente sia confusa e ingannata», dall'altra sono fonte di diletto per il poeta. Leopardi, infatti, esprime stupore nel ritrovarsi a Recanati, proclive ancora una volta alla contemplazione «contemplarvi». L'alternanza dell'imperfetto «solea», «credea» con il passato remoto «abitai», «vidi» attiva l'idea del ricordo-ripetizione in cui si passa da una situazione passata, il ricordo delle cose viste e ascoltate in gioventù (l'errare delle lucciole, il sussurrare del viale dei cipressi, le voci del palazzo, la vista del mare da lontano) al presente, in cui vince la Legge della Natura e del Vero «e delle mie gioie vidi fine». Si crea, pertanto, una contrapposizione tra le antiche speranze, unico vero tesoro in possesso del poeta, e la vita quotidiana, una realtà priva di scopo in cui al poeta rimane, dopo il disinganno, solo la morte «e sì dolente, e che la morte è quello che di cotanta speme oggi m'avanza; sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto consolarmi non so del mio destino». Il ricordo dell'infelicità giovanile, combattuta tra pulsioni suicide e strenuo attaccamento alla vita «mi trovavo orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio id uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morir; e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore», finisce per prevalere sui ricordi positivi. É proprio il fallimento della memoria, secondo il Leopardi «e quell'imago ancora sospirar mi farà, farammi acerbo l'esser vissuto indarno, e la dolcezza del dì fatal temprerà d'affanno» ad accrescere il disagio interiore del poeta. Il ricordo non è fonte di consolazione, ma di dolore. Questa condizione della precarietà della vita trova conferma in alcuni passi dello Zibaldone «io ero oltremodo annoiato dalla vita, sull'orlo della vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s'io mi gittassi qui dentro immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzandomi di uscire fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita illeso […] mi trovai orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire» e sfocia nel rimpianto ai versi 119-135 per i beni perduti. A partire da questi versi Leopardi fa un ritratto satirico della propria giovinezza «inusitata meraviglia», «destra scorrevole» in cui solo per finzione la gente gli porge la mano, lo aiuta e scusa i suoi errori. La giovinezza, quindi, non è altro che qualcosa di transitorio «fugaci giorni», un attimo della vita che si dilegua come un lampo. La rievocazione finale di Nerina, simbolo leopardiano della giovinezza insieme a Silvia, rappresenta la speranza defunta; mentre Teresa Fattorini ha “avuto” una vita «rimembri ancora», sognando un avvenire «studi leggiadri, sudate carte, beltà splendea, che speranze, che cori, o Silvia mia», l'esistenza di Nerina si è spenta in un lampo «passasti … ma rapida passasti …ahi tu passati … passasti». Nerina, oltre ad incarnare la fugacità della vita, personfica “l'assenza”: la finestra dove la giovane fanciulla era solita affacciarsi è deserta, la sua voce è muta «i giorni tuoi/furo; quando spegneali il fato». Mentre la voce di Silvia risuona e risuonava nelle stanze, Nerina è un'aura che si è spenta, silente, morta nel passato e nel presente. Nemmeno la forza del ricordo riesce a farla risorgere «scolorita», e se in A Silvia l'amore è qualcosa di ineffabile «lingua mortal non dice», in Nerina l'amore è una forza che supera la morte e che viene riacceso dal ricordo. Per la fanciulla non c'è primavera né amore, ma solo il ricordo vivo ed eterno di lei «ahi tu passasti, etetno sospiro mio: passasti». Fonti: Pietro Citati, Leopardi, Mondadori, Milano, 2010 Giacomo Leopardi, Operette Morali, Milano, Bur, 2008 Giacomo Leopardi, Lo Zibaldone, Milano, Mondadori, 1996 Giacomo Leopardi, Canti, Milano, Bur, 1998 Immagini tratte da:
- www.antonioberte.it - zibaldone-sergio.blogspot.com - wikiepdia, pubblico dominio; voce: Giacomo Leopardi “Ritengo che una delle ragioni principali del male di cui soffriamo sia nella frenetica esteriorizzazione e nella moltiplicazione della forza, spinta all’infinito; consiste inoltre in un’anormale facilità introdotta negli scambi da uomo a uomo, tale da non lasciare più al pensiero il tempo di riprendere radici in se stesso. Siamo tutti in preda alla disperazione della macchina, a tutti i livelli della nostra riflessione.” Commediografo, attore e regista teatrale, Antonin Artaud (Marsiglia, 4 settembre 1896- Ivry-sur-Seine 1948) è stato soprattutto, come possiamo intuire da questo piccolo stralcio, un pensatore rivoluzionario e attento osservatore dei lati oscuri del “collettivo” e dei mali della comunicazione e del linguaggio. “Linguaggio” è una delle parole chiave su cui soffermarsi per capire l’opera di Artaud che sovverte la concezione usuale di parola riportandola alla sua originale potenza segnica e sensitiva. Questo e molto altro possiamo trovare nel celebre libro “Il teatro e il suo doppio”, dove l’ammirazione verso le forme orientali di teatro e in particolare la fisicità ritualizzata e codificata della danza balinese, gli ispirò le teorie esposte in due manifesti del “Teatro della Crudeltà”. Ma fermiamoci un istante..mentre scrivo di Artaud e del suo “Teatro della Crudeltà”, mi rendo conto che il termine “crudeltà” necessita di essere spogliato dalla consueta accezione negativa che siamo portati a dargli. E ne cerco l’etimologia: -dal latino crudelitas ; i latini facevano una differenza tra sanguis (il sangue che fluisce nelle vene) e cruor quello che fluisce dalle ferite. La crudeltà è quindi il desiderio di far uscire sangue da chi ci sta intorno. Bene! Continuate a leggere cercando di mettere da parte il binomio bene/male in cui si è soliti inserire la crudeltà; solo così potrete entrare a contatto con l’essenza dell’opera di Artaud. La crudeltà in Artaud, infatti, non è sadismo e dolore fine a se stesso, ma catarsi. Nel Teatro della Crudeltà Artaud elabora una sorta di linguaggio iniziatico in cui la parola deve farsi corpo, deve sentirsi materialmente. Le parole da una parte sembrano spogliarsi di significato e di logica, dall’altro aggiungono senso, un nuovo senso potente, magico, crudele e trasformante. Il linguaggio si fa azione e denuncia; denuncia vera e spesso anche lungimirante contro i crimini connessi dal capitalismo americano così come dal comunismo russo di Stalin. Lo scopo di tale teatro è quello di suscitare l’esigenza di un vivere collettivo, per cui attraverso il dolore emerge l’esigenza della rinascita, della vita e dell’unione umana. Artaud rifonda il teatro attraverso una parola nuova, ma non innovata: le parole sono corpi reali e il loro suono è vita e non semplice rimando ad essa. La crudeltà è anche in questo: nel mettere a nudo i conflitti sociali del mondo e le contraddizioni della vita reale, facendole sentire e vivere sulla pelle dello spettatore. Un altro particolare del teatro di Artaud è che lo spettatore non ha alcuna via di fuga, solo la possibilità e il dovere di guardare, partecipare e interagire con quello che ha davanti, annientando ogni distanza. Lo spettacolo deve realizzarsi intorno allo spettatore sfruttandolo come fulcro su cui ruota tutto. Come lo stesso Artaud scrive: “Giochiamo la nostra vita nello spettacolo che si svolge sulla scena. Se non avessimo ben chiara e profonda coscienza che una parte della nostra vita profonda vi è impegnata, non riterremmo necessario proseguire la nostra esperienza. Lo spettatore che viene da noi sa di venire a sottoporsi a un’operazione vera, dove sono in gioco non solo il suo spirito ma i suoi sensi e la sua carne. Andrà ormai a teatro come va dal chirurgo o dal dentista. Con lo stesso stato d’animo, pensando evidentemente di non morire per questo, ma che è una cosa grave e che non ne uscirà integro. Se non fossimo persuasi di colpirlo il più gravemente possibile, ci considereremmo impari al nostro impegno più assoluto. Egli deve essere convinto che siamo capaci di farlo gridare.” Artaud voleva proprio far scorrere il sangue, quello provocato da una ferita, e mi piace pensare che le grida che sogna di ascoltare non siano di dolore bensì di liberazione. Bibliografia
- A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2000 Immagini tratte da: http://theredlist.com/wiki-2-24-525-970-1073-view-1930s-5-profile-antonin-artaud.html |
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Maggio 2023
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