Skag Boy (2012), l'ultimo romanzo di Welsh, narra di come Renton e compagni sono caduti nel baratro della droga. L'estasi, l'anfe, l'alcool, la violenza diventano per i ragazzi del buco l'unica alternativa alla realtà degradante in cui sono costretti a vivere ogni giorno. La visione consumistica di Porno, l'ottimismo degli anni di Tony Blair (che si nota in particolare in Glue) vengono abbandonati dallo scrittore. Da una parte Welsh recupera il contesto storico-sociale di Trainspotting - gli anni in cui la politica del Primo ministro Margaret Thatcher aveva annientato la classe operaia – dall'altra ripropone tutti gli elementi cari a Trainspotting ricorrendo ad un linguaggio crudo e violento: il sesso, la droga, la depravazione. Welsh si serve di Skag Boys per prendere nuovamente le distanze dal capitalismo e da quei valori la cui affermazione era stata particolarmente sancita in Porno. Lo scrittore scozzese rinnega gli anni di Tony Blair: “Se esiste un'altra via, non è certo il New Labour di Blair che era solo il volto servile del neo-liberalismo thatcheriano”, avvicinandosi a un mondo in cui socialismo e capitalismo, come erano intesi tradizionalmente, erano entrambi morti. Un cambiamento di valori, secondo Welsh, che ha portato a una corporation transazionale, basata su una dittatura monopartitica, in Cina, e su un sistema bipartitico, in Usa e Gran Bretagna. Irvine Welsh non solo riprende Trainspotting dal punto di vista narrativo - parla di come i ragazzi del buco si sono conosciuti e di come sono caduti irrimediabilmente nel baratro fino ad arrivare all'autodistruzione -, ma anche strutturale. La scelta delle short stories, elemento centrale in Trainspotting (l'assenza di un personaggio centrale, un eroe, o un antieroe), che consente una grande libertà di registri, parlate regionali, monologhi sotto effetto di sostanze stupefacenti, elementi fantastici e surreali, si ritrova, con forza minore, in Skag Boys. Skagboys si svolge 9 anni prima di Trainspotting (1984) e narra di come i ragazzi del buco decidono di dare una svolta alle loro serate alcoliche, tristi e monotone, con qualcosa di nuovo, qualcosa che cambia inesorabilmente le loro vite guidandoli nel baratro dell'autodistruzione. Il primo schizzo di Mark e Sick Boy, la scena in cui Rents si ritrova alla shooting gallery piena di tossici offre un immagine abbastanza veritiera di quella Edimburgo capitale europea negli anni '80 delle droghe, capace di trascinare i giovani in un circolo alcolico di disoccupazione, criminalità, rapporti fatiscenti e guai di ogni tipo. La profonda recessione di Edimburgo negli anni '80, la diffusione delle droghe a basso costo, il crescente consumo di sostanze e la diffusione delle persone contagiate dal virus dell'HIV - in particolare a causa dello scambio di siringhe nei cosiddetti “baracconi da tiro a segno”, luoghi in cui si riunivano i tossicodipendenti – , il rifiuto del governo Thatcher di fornire aghi puliti ai drogati sono sono alcune delle tematiche di Skag Boys riprese da Trainspotting. Skag Boys è uno spaccato di una Edimburgo in piena crisi economica, di una generazione disillusa, annoiata e senza speranza che si rifugia nell'inferno chimico di Leith. Una lotta per la sopravvivenza in cui i ragazzi del buco devono combattere non contro l'eroina, ma contro se stessi, in quanto la droga è solo un arma per cercare la propria distruzione. I giovani protagonisti di Skag Boys non sono quei ragazzi perversi e depravati che ritroviamo in Trainspotting, ma molto peggio. Il lettore, fin dalle prime pagine, è consapevole di come andranno a finire le loro storie: giovani tossici figli di una società in completo disfacimento, metafora del corpo devastato dalla droga. Il linguaggio gergale di Welsh – realistico e diretto – rende perfettamente l'esistenza nichilista dei ragazzi del buco, una generazione su cui la politica di Margaret Thatcher non ha mai scommesso. Renton, uno dei più riflessivi del clan, sintetizza senza giri di parole: “Se essere scozzese si identifica in qualcosa, quella cosa è farsi”. Un romanzo, pertanto, che incarna da una parte lo spirito di rivolta contro la leader della Tory Maggie, dall'altra il senso di cameratismo che accomuna tutta la gioventù scozzese di fronte ad uno stato senza un futuro delineato: “Io so che qualunque roba succede, qualunque cazzata combiniamo io e te, saremo sempre noi due, ci copriremo l’uno con l’altro”. Skag Boys, tuttavia, si perde in una trama fin troppo complessa, in una forma diaristica e di cronaca che rischia di annoiare il lettore. La scelta delle short stories, ripresa da Trainspotting, finisce per diventare a volte pesante, perdendosi in un mare di parole in cui è difficile mantenere il file della narrazione. Idee a volte confuse, avventure fin troppo allucinate e assurde, personaggi meno contraddistinti, in un mondo in cui l’edonismo, l'autodistruzione e l'esclusione dalla società borghese fanno parte della natura umana. Un romanzo che, nonostante la maestria di Welsh nel rendere al meglio questi senso di sofferenza e disperazione di una gioventù bruciata dall'ecstasy -anche grazie all'utilizzo del code switching -, finisce per perdere la sua unicità nella traduzione italiana. Riferimenti biografici: E.Franceschini, “Irvine Welsh, Il mio Prologo a Trainspotting, sui ragazzi lasciato soli dalla Thatcher, la Repubblica,http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3733359, October 22, 2012. J.Chaplinsky, “Politics of the Past: Irvine Welsh Revisits the '80 with Skag Boys” I.Welsh, Skag Boys, Bergano, Ugo Guanda Editore, 2012 http://ilmiolibro.kataweb.it/recensione/catalogo/2442/irvine-welsh-il-mio-prologo-a-trainspotting-sui-ragazzi-lasciati-soli-dalla-thatcher/ Immagini tratte da:
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Il milleduecentosessantaquattro è un anno complicato. Dalle mura del suo castello, il duca d'Auge osserva le orde di Unni che si accampano nelle pianure, le bande di Galli che attraversano i fiumi, le ombre di vecchi romani che si perdono all'orizzonte. La storia, si sa, è un pantano e Auge non ha più voglia di sguazzarci dentro. Così, senza pensarci due volte, parte alla volta della capitale con il suo scudiero e i suoi due cavalli (parlanti). Il viaggio porterà il duca a spasso per la Francia e in giro per la storia, attraversando il periodo delle crociate, la Guerra dei Cent'anni e la rivoluzione francese. Ma le avventure di Auge sono interrotte dai risvegli di Cidrolin. Cidrolin vive nel 1964. Abita su un chiatta con una figlia che gli fa da governante. Pigro, indolente, taciturno, Cidrolin ogni sera sogna le strampalate avventure del duca d'Auge. O forse, in realtà, è il duca a sognare Cidrolin? E perché i personaggi della storia dell'uno sembrano riapparire in quella dell'altro? L'incipit dei I fiori blu, di Raymond Queneau (edito in Francia nel 1965 e portato in Italia due anni dopo grazie alla traduzione di Italo Calvino), lascia già immaginare che tipo di romanzo ci aspetta: onirico, strampalato, divertente. C'è bisogno di un pò di tempo per calarsi nell'atmosfera, per imparare a ''sopportare'' le apparenti incongruenze e i salti logici, le assurdità della trama e le altrettanto assurde manie dei personaggi. Eppure tutto, dalla prima all'ultima pagina, trasuda di una genialità divertita e divertente. Il linguaggio di Queneau è frizzante, originale, impossibile da descrivere e da replicare (basti pensare ai suoi Esercizi di stile, resi in italiano da Umberto Eco ma considerati per anni intraducibili). Infarcito di giochi di parole, di calembours e di strampalati neologismi, la lingua de I fiori blu è semplicemente deliziosa. Eppure dietro quest'apparente spontaneità e leggerezza si nasconde una complessità insospettabile. Queneau è uno scrittore scrupoloso e metodico: costruisce il suo stile su complessi strumenti matematici, su corrispondenze interne alle frasi e persino alle parole stesse, su una simmetria così perfetta da risultare invisibile. È a questa idea ''combinatoria'' di scrittura che Calvino, non a caso traduttore entusiasta e attento dell'opera di Queneau, si ispirerà per Il castello dei destini incrociati e Se una notte d'inverno un viaggiatore. Come tutta la grande letteratura, I fiori blu si offre a una mole di interpretazioni diverse. Romanzo sulla storia? Forse, perché Queneau era stato uno degli allievi di Kojéve, il filosofo dell'uscita dalla storia (e non è forse questo quello che cerca di fare perennemente il duca d'Auge?). Metafora psicanalitica, in cui l'Io e l'Es sono impersonati rispettivamente dall'instancabile e istintivo duca e dall'indolente Cidrolin? O semplicemente una costruzione divertita e complessa sul grande tema del sogno, ché di sogni e della loro ambiguità si parla per tutto il romanzo? Perché, alla fin fine, «le storie inventate rivelano cosa c'è sotto. Tal quale come i sogni». Immagini tratte da:
https://it.wikipedia.org/wiki/Raymond_Queneau#/media/File:Raymond_Queneau.jpg http://arlian.media.unisi.it/images/copj13.jpg A scuola abbiamo tutti studiato i raffinati esercizi poetici di Giosuè Carducci, il quale tentò di riprodurre in italiano il sistema delle vocali brevi e lunghe del latino e cercò di imitare i versi latini da un punto di vista ritmico e accentuativo, che avrebbero finito per suonare “barbari” a un orecchio classico, in quanto poesia meramente artificiale e sofisticata (Contini 1970) Tuttavia l’esperimento carducciano non fu l’unico a tenere banco in Europa: il poeta inglese Gerard Manley Hopkins riscoprì con lo stesso scopo la metrica anglosassone Chi era Hopkins? Nato nel 1844 in una famiglia anglo-cattolica molto devota (la corrente della Chiesa anglicana più vicina alla Chiesa di Roma), egli si convertì al Cattolicesimo romano nel 1866 e, nel 1868, diventò membro della Compagnia di Gesù. Essere un Gesuita significò per Hopkins l’inizio di un vero e proprio conflitto tra arte e vita à la Thomas Mann: la severa vita religiosa gli impediva di esercitare fecondamente la sua creatività poetica, la cui più importante conquista fu la riscoperta della metrica antico inglese, una vera e propria metrica barbara come quella carducciana. A Hopkins dobbiamo l’invenzione del cosiddetto sprung rhythm (“ritmo saltato”), che mira a imitare la lingua parlata; da un punto di vista metrico la prima sillaba è accentata ed è seguita da un numero variabile di sillabe non accentate(Schneider 1965). Hopkins non fu soltanto un deciso sostenitore di una metrica barbara per la poesia inglese, ma si dedicò allo studio dell’inglese antico che, ai suoi occhi, era una lingua molto ricca e viva dell’inglese che egli stesso parlava. Con questo fine, creò composti allitterativi e si dedicò anche alla riscoperta di arcaismi e parole dialettali (Langer, Davies 2005: 328). L’utilizzo dell’allitterazione è da riscontrare nella celebre poesia The Windhover (“Il gheppio”, 1877), dove l’uccellino che si alza in cielo è paragonato a Cristo. Hopkins, considerato un eccentrico dai suoi contemporanei, è tutt’altro che un poeta di nicchia: i suoi versi avranno riscontro positivo presso uno dei più importanti versificatori del Modernismo inglese, TS Eliot, che non esiterà a riconoscerlo un maestro del verso libero. BIBLIOGRAFIA Contini, G (1970) Varianti e linguistica: una raccolta di saggi (1938-1968): Torino, Einaudi. Langer N, Davies W (eds) (2005) Linguistic Purism in the Germanic Languages: Berlin, Walter De Gruyter. Schneider, EW (1965) “Sprung Rhythm: A Chapter in the Evolution of Nineteenth-Century Verse”, PMLA 80 (3): 81-92. Immagini tratte da:
Gerard Manley Hopkins, Public Domain, Wikipedia inglese, voce “Gerard Manley Hopkins”. Giosuè Carducci, Pubblico dominio, Wikipedia italiana, voce “Giosuè Carducci”. Una cantina sul fondo della notte, una piccola stanza con le pareti illuminate da mille affreschi e dai colori di fantasia. Un luogo oscuro, dimenticato dal mondo, umile dimora di Johnny Freak, un giovane amante delle musica - sa suonare alla perfezione il clarinetto - e dell'arte. Un ragazzo normale, uno dei tanti bohemien a colorare le strade di Monmatre, se non fosse che è sordomuto dalla nascita e affetto da una malattia congenita che lo divora giorno dopo giorno. Questa la genesi di una delle storie più tristi e commoventi della Bolelli Editore, nata dalla triste vicenda di Charlie Witacker, bambino inglese dodicenne affetto da una grave grave forma di anemia. La sua malattia poteva essere curata solo con un trapianto e, in mancanza di donatore, la famiglia chiese l'autorizzazione di far nascere un fratellino ad hoc sfruttando la tecnica della diagnosi pre-impianto degli embrioni. Il rifiuto per questioni etiche alla Human Fertilisation and Embrionology Authority portò la famiglia negli Stati Uniti, precisamente a Chigago dove, grazie alla fecondazione assistita, la coppia produsse nove embrioni da cui nacque il piccolo Jaime. Chi era Johnny Freak? E perché la scelta di un cognome dispregiativo adottato a cavallo tra l'800 e il '900 per tutte le persone deformi che si esibivano nei carrozzoni circensi? I Freak Show. Sicuramente la Bolelli Editore, in linea con le storie di Dylan Dog, ha voluto creare un sostrato che mettesse in risalto la diversità del protagonista, adottando la storia degli Witacker per creare un finale macabro e inquietante. Lo stesso film diretto da Tom Browning, considerato uno dei più grandi cult movie di sempre, nonché un grande classico del genere macabro, potrebbe essere una fonte a cui si è ispirata la Bolelli Editore per lo sviluppo della storia. Sfuggito ad un incendio appiccato dal fratello Douglas, Johnny viene ritrovato da Dylan in un capannone in disuso. All'eroe di Craven Road basta uno sguardo, un gesto – quella mano che vorrebbe accarezzarlo e che provoca un fremito di paura nel povero ragazzo – per capire che la sua storia è fatta di dolore, soprusi e infamie. Oltre alle gravi lesioni – probabili bastonate dice il responso medico – , Johnny è senza un rene, un polmone - che gli sono stati asportati perfettamente sani – e con entrambe le gambe amputate. Dopo le cure prestate al Saint James Hospital, sembra iniziare una nuova vita per Jonny: la consacrazione come musicista – applaudito nella clinica – , il talento per il disegno, fino a quella sciagurata e istintiva reazione inconscia che lo porta a distruggere la stanza. Il risalto dato dai media alla vicenda «sordomuto, privo di gambe e di numerosi organi interni distrugge una sala del Saint James hospital » ha conseguenze devastanti sul seguito della storia: Douglas scopre la clinica in cui era curato Johnny e, travestito da chirurgo, prova ad ucciderlo con un siero letale. Solo l'intervento di Dylan, entrato casualmente nella sala reparto, evita la catastrofe. Nessun trauma per Johnny, solo la paura, leggibile nei suoi occhi, del tentato omicidio. Ha forse riconosciuto qualcuno? Questo è quello che intuisce Dylan Dog e che getta una nuova ondata di mistero sul caso. Quello che poteva sembrare il lieto fine della storia, con la famiglia di Johnny che rintraccia il proprio figlio a seguito dello scandalo giornalistico, è l'inizio dell'inferno per Freak. La prigionia in una cantina, la solitudine, l'assenza di cure, l'obbligo di magiare rifiuti non è niente di fronte all'amara verità: Johnny Freak non è altro che una cavia, un esperimento umano usato dalla famiglia Arhkam per salvare il figlio prediletto Dougal, affetto da una grave malattia degenerativa. Il quinto senso e mezzo dice che nella storia qualcosa non quadra: chi era quel pazzo criminale che era tanto interessato a uccidere Jonny con il siero letale? E perché la famiglia di Jonny si è fatta viva solo dopo il risalto mediatico? Come faceva Jonny a sapere dell'esistenza del fratello? E se fu rapito all'età di due anni, come potevi Freak ricordarsi di Dougal? Si erano forse visti durante gli anni della prigionia? E se cosi fosse, come era stato possibile? E se sono stati gli Archam a relegare per quindici anni Jonny in una cantina, chi gli ha amputato le gambe, asportato un polmone e un rene? Queste le domande a cui Dylan deve dare risposta dopo il ritrovamento a casa Archam di un disegno apparentemente privo di significato, con raffigurato il volto di Dougal. Nel frattempo Johnny, usato come cavia dalla famiglia e imprigionato in un seminterrato, scopre l'amara verità. Recuperato l'udito, Johnny scopre che Dougal è intenzionato a ucciderlo, a sbarazzarsi di lui una volta per tutte, a rimuovere ogni traccia del corpo del fratellino menomato per evitare sospetti da parte di Dylan. E proprio nel momento in cui sembra essere giunta la fine per il protagonista, Johnny si libera e riesce a fuggire. Nel frattempo Scotland Yard, grazie all'aiuto di Dylan, si reca sul luogo del crimine con un mandato di arresto. Costretti a confessare, gli Archam iniziano a narrare la triste Johnny, figlio della signora incriminata e di un altro uomo - che non si era più fatto vedere dopo che lei era rimasta in cinta. Un aborto sarebbe stato pericoloso: troppo tardi, infatti, si era accorta della gravidanza. Ecco allora Johnny, un figlio non voluto da nessuno, frutto dell'odio. Un figlio sano, se non fosse che era sordomuto. È la nascita di Dougal, il figlio prediletto affetto da una particolare malattia degenerativa, a portare gli Archam alla decisione di usare le gambe, il rene e il polmone di Johnny per salvare la vita del fratello. Nonostante il miglioramento delle condizioni e l'arresto della malattia degenerativa, Johnny restò chiuso in cantina quindici anni come riserva di organi del fratellastro. È proprio questa nuova crisi a portare Dougal, stufo di trapianti, geloso del fratello, a tentare fino alla fine di sbarazzasi di Johnny. Seguendo le orme di Dylan – che nel frattempo aveva ritrovato Johnny dopo la fuga - Dougal minaccia di uccidere l'eroe di Craven Road se non si toglie dalla traiettoria ideale per uccidere il piccolo Freak. Il colpo sarebbe destinato a Dylan, se non fosse che Johnny si frappone tra lui e l'amico restando in fin di vita. Al piccolo Freak, come estremo gesto di riconciliazione è di affetto con il mondo che lo aveva rifiutato – non resta che donare il cuore al fratello, anche lui in fin di vita. Johnny Freak, pertanto, è una condanna di tutti gli stereotipi degli anni '80 (del brutto, del diverso, del marginale). In un mondo dove paradossalmente questi pregiudizi sono rovesciati, i veri mostri della società non sono i freaks - spesso più umani, sensibili, e colti dei benpensanti -, ma gli uomini comuni che, nella profondità del loro animo, svelano il proprio aspetto moralmente mostruoso. Bibliografia:
Johnny Freak Il cuore di Johnny Il cimitero dei Freaks Immagini tratte da: www.comicsblog.it coolinterestingstuff.com www.slumberland.it Il sec. 19° rappresenta per l’Inghilterra un’età di grande progresso e avanzamento tecnologico: l’Esposizione universale del 1851 fu l’occasione migliore per mostrare al mondo la grandeur dell’Impero britannico e delle sue colonie e la Rivoluzione industriale proseguiva spedita sulla sua strada. Ma non tutto è oro quel che luccica: il Darwinismo minava secoli di incrollabile fede nei dogmi biblici, ma, soprattutto, nell’ordine delle cose. La voce che meglio interpretò questo senso di smarrimento e di inquietudine fu Alfred, Lord Tennyson (1809-1892), dal 1850 Poeta Laureato L’opera di Tennyson si inscrive in quel processo di ricreazione del Medioevo noto come medievalismo (D’Arcens 2016, Matthews 2015), concentrandosi in modo particolare sulle leggende arturiane: questo vagheggiamento romantico “per i giorni che non ci sono più” (come recita una sua poesia) esprime il suo senso di smarrimento e il tentativo estremo di recuperare una dimensione perduta (Riede 2000). L’autore è anche celebre per le sue poesie di argomento classico, tra cui spicca il monologo drammaticoUlysses (1833). Ispirato al canto XXVI dell’Inferno dantesco, l’Ulisse del poeta britannico è la rappresentazione più viva e più efficace dell’artista e dell’intellettuale romantico, che non accetta la passività e la staticità della società vittoriana e la cui filosofia è riassunta nel celebre verso to strive, to seek, to find, but not to yield (“lottare, cercare, trovare, ma non arrendersi”) Tennyson non è soltanto il poeta medievaleggiante e classicheggiante, ma è, soprattutto, il Poeta Laureato, custode del senso patrio e voce pubblica nei momenti più duri. Del 1854 è la poesia The Charge of the Light Brigade, dove egli commemora la morte dei soldati dell’esercito inglese alla battaglia di Balaclava, durante la guerra di Crimea. Con riferimenti biblici (“la valle della morte” richiama il Salmo 23), egli esalta il sacrificio dei soldati britannici, che il poeta definisce “i nobili seicento”. Il Tennyson più privato e autobiografico emerge nella poesia In Memoriam A.H.H (1849), dedicata alla morte dell’amico Arthur Henry Hallam, dove emergono i suoi dubbi religiosi e le sue insicurezze, soprattutto nel verso there lives more faith in honest doubt, believe me, than in half the creeds (“la fede più autentica, credetemi, esiste nel dubbio onesto, che in metà dei credi”). Con Alfred Tennyson siamo di fronte a uno dei poeti più cari agli Inglesi, ma soprattutto a un fine versificatore e a una solida voce per le ansie e i dubbi, quelle stesse ansie e quegli stessi dubbi da cui il poeta non era esente. BIBLIOGRAFIA D’Arcens, L (ed. by)(2016)The Cambridge Companion to Medievalism: Cambridge, Cambridge University Press. Matthews, D (2015) Medievalism: A Critical History: Woodbridge, Boydell Brewer. Riede, DG (2000) “Tennyson’s Poetics of Melancholy and Imperial Imagination” Studies in English Literature (40) 4: 659-678. Immagini tratte da:
- Carbon print of Alfred, Lord Tennyson, Pubblico Dominio, Wikipedia inglese, voce Alfred, Lord Tennyson. - Blake’s watercolour for Dante’s Inferno XXVI Ulysses, Pubblico Dominio, Wikipedia inglese, voce Ulysses (poem). “Tutto ciò che è profondo ama la maschera[…] Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà” (Nietzsche) La maschera è stata da sempre utilizzata sin dalla preistoria per rituali religiosi, rappresentazioni teatrali o feste popolari come il carnevale. Ma cosa rappresenta davvero la maschera? Quali simbologie e contraddizioni girano attorno a questo misterioso manufatto? Nei suoi diversi usi e nelle funzioni che di volta in volta assolve, la maschera sembra rappresentare per l’uomo una modalità ancestrale e primaria per esprimersi, porsi nei confronti dell’altro e persino ri-conoscersi. Come indica l’etimo greco “prosopon” ed il latino “persona-ae” la maschera, prima di essere strumento scenico dell’attore, finisce per impersonare l’uomo stesso nel suo ruolo sociale. Lo psicoanalista Jung utilizza il termine “persona” per indicare la “maschera” che l’individuo assume nelle sue relazioni sociali, che non è necessariamente intesa come falsa o manipolatoria, ma come identificazione con alcuni aspetti del sé che prendono il sopravvento in base a vari contesti. La maschera, dunque, non rappresenta solo un mezzo per nascondere sé stessi, ma anche uno strumento che permette di sperimentarsi in ruoli diversi, contribuendo a stimolare la propria flessibilità identitaria. Vediamo infatti come l’attore, indossando una maschera, simbolicamente, assume quella determinata personalità e cerca dentro di sé specifiche “corde da suonare”, voci e gesti che neanche immaginava di poter esprimere, caratteri che non credeva di possedere. La maschera rivela, inoltre, un aspetto profondo legato al binomio morte-Plutone. Plutone, dio degli inferi, patrono delle arti teatrali e protettore degli attori, ama le maschere, il mistero e le illusioni della notte così come ama la morte, ultima illusione dell’esistenza. Quando l’attore pone una maschera sul suo volto non si tratta solo di una semplice copertura né di una trasformazione esteriore, ma è l’esito di un’operazione misterica che affonda le sue radici nelle antiche cerimonie sacre riservate agli iniziati. Soltanto gli iniziati avevano la capacità e il permesso di scendere nel regno di Plutone, accedere al mistero della vita e della morte e suscitare quella stessa inquietudine che si prova nell’osservare le vacue orbite di una maschera. La maschera, trasformando l’apparenza della persona, aveva dunque la funzione mistica di far uscire l’uomo da sé stesso per farlo entrare nel profondo di sé stesso. Non è un caso che in varie epoche gli attori fossero da un lato applauditi ma dall’altro disprezzati a tal punto da non poter essere seppelliti insieme alle spoglie dei comuni mortali. Il corpo di un attore che avevo osato sfidare Plutone doveva per questo stesso motivo avere qualcosa di demoniaco e pertanto la sua anima doveva essere per sempre condannata alla diversità ed all’ostracismo. Immagini tratte da: - Immagine 1 da https://marcomatteucciphotographer.wordpress.com/2014/02/27/dietro-la-maschera/ - Immagine 2 da http://www.scuolissima.com/2016/01/frasi-maschera.html - Immagine 3 da http://blog.pelatelli.com/maschere-veneziane/2592/ Dall’Orlando Furioso al Don Quijote, dal concetto di “creazione” in Coleridge e Mallarmé fino a Mary Shelly, notiamo dal XVIII al XIX una costante, ossia il tema della follia. È vero che tra queste opere letterarie ci sono grandi differenze, eppure la follia come strumento di conoscenza dell’io rimane un tema molto forte capace di accomunare tutti questi scritti. Baudelaire, Rimbaud, Flaubert, Torquato Tasso, Ian Mc Ewan, solo per citarne alcuni. L’attenzione morbosa per i particolari, all’apparenza trascurabili, ha caratterizzato la vita di molti scrittori e scrittrici. Cosa dire di Gustave Flaubert, autore di Madame Bovary, ossessionato dalla ricerca maniacale della forma perfetta? «Una buona frase di prosa deve essere, al pari di un buon verso, impossibile da cambiare e altrettanto ritmata e sonora», scrisse Gustave Flaubert il 22 luglio 1852. Quattro anni, sette mesi e undici giorni: questo il tempo impiegato dallo scrittore francese per portare a termine il suo lavoro, fatto di interruzioni e rifacimenti, in maniera soddisfacente. Giornate intere alla ricerca della musicalità, dello stile “perfetto”. L'eterno conflitto tra il detto e il non detto, tra la necessità di proporre qualcosa di nuovo al pubblico e l'esigenza di rimanere all'interno di un canone definito. Questa è la vita di Flaubert, un ciclo ossessivo di “nuovo e sempre uguale”, per dirla alla Benjamin. Un'ossessione, potrebbe essere definita, un pensiero che si insinua lentamente nella mente, fino ad impossessarsene completamente. Una compagna inseparabile, che ti accompagna costantemente e ti costringe a vivere il senso di inquietudine che ne deriva. Un pensiero che, come afferma Coelho, « all'inizio ti sfiora appena e finisce per essere la sola cosa a cui riesci a pensare». Pensieri che, nell'attimo in cui sembri riuscire a liberartene, si ripresentano nel tuo inconscio sotto forma di incubo. Per dirla alla Freud, l'ossessione è la vittoria dell'es sulla razionalità, delle pulsioni inconsce sulla praticità delle cose. Una coalizione a ripetere, un qualcosa che, senza volere, sappiamo che si ripresenterà inevitabilmente. Non solo amore, ma anche quella compulsione profonda radicata nell'uomo descritta da Bauman. Homo consumens, scrive il sociologo polacco, vale a dire una creatura consumata perennemente da un unico grande desiderio inappagabile: il consumo. Tutto può diventare ossessione: Chiaro dell'Erma in Hands and Soul è perennemente insoddisfatto della sua opera, Van Gogh per tutta la propria esistenza si arrovella sul senso della vita, sul proprio posto in questo mondo, e sul senso ultimo della propria opera e dell'arte. Tasso è costantemente ossessionato dai particolari, tanto da essere rinominato dai coetanei “genio folle”. Follia, genio, e ossessione, questo accomuna lo spirito creativo di poeti, romanzieri e musicisti. Cosa dire della camicia bianca di Mark Twein o della casacca di Balzac prima di buttarsi in un fiume di parole? Di Carrol, Hardy e Hemingway, che trascorrevano le loro giornate in piedi alla ricerca della vena creativa? Di Truman Capote, capace di concentrarsi solo con un bicchiere di Sherry? Abitudini, ricorrenze, scetticismo, atteggiamenti compulsivi ossessivi che si ritrovano in James Joyce, Flannery O'Connor, Edgar Allan Poe, Dan Bown, Fredrich Schiller e molti altri ancora. Atteggiamenti, pensieri, di cui spesso è difficile disfarsi. Mark Renton in Trainspotting prova a liberarsi dell'immagine della piccola Dawn, del senso di colpa di aver ucciso la figlia di Lesly dopo aver giocato a calcio con il corpo della piccola, senza avere successo. Un chiodo fisso, un'immagine ricorrente fino a quella celebre scena con Mark agli arresti domiciliari chiuso in camera convinto che lo spettro di Dawn stia camminando sulla parete di camera sua. Questa presenza, costante e ripetuta nella mente, di immagini che non lasciano tregua e spazio allo scrittore si ritrova anche in molti romanzi di Musil. Claudine di Incontri, Regine di I fanatici, Agathe dell' Uomo senza qualità non è altro che la ricerca ossessiva del passato di Martha, il tentativo disperato da parte di Musil di ricostruire tutte le storie pre e extra matrimoniali di Martha. Voyerismo e ossessioni sessuali potrebbe essere definita una sua autobiografia postuma. E cosa dire delle ossessioni di Italo Svevo, tormentato dalla relatività dell'esistenza, o dei tormenti di Parise in L'odore del sangue? L'incontro al Caffè Rosati, il vestito della Fioroni bianco e nero, i continui tradimenti, l'ossessione del protagonista dopo la scoperta fortuita di una relazione misteriosa tra la sua compagna e un altro uomo. Ossessione che, in alcuni romanzi, si trasforma in dissezione anatomica di un sentimento amoroso. È il caso di Un amore di Buzzati, romanzo complesso in cui da un semplice deja vu - la convinzione di avere visto una persona per strada prima di quel particolare momento -, Doringo si auto convince che questa persona è una figura importante per la sua vita. «Per quanto egli cerchi di ribellarsi, il pensiero di lei lo perseguita in ogni istante millimetrico della giornata, ogni cosa persona situazione lettura ricordo lo riconduce fulmineamente a lei attraverso tortuosi e maligni riferimenti». Un mondo, quello di Buzzati, non tanto distante da quello attuale. Si finisce per leggere i messaggi in rubrica, “fregare” il telefono, farsi dare la password di Facebook, chiamare il proprio partner ogni due minuti. Non più fiducia e rispetto, ma forme di divieto ingiustificate. Sitografia: http://www.scrivo.me/2014/02/06/letteratura-ossessione/ http://www.parodos.it/letteratura/manierismo.htm http://users2.unimi.it/mgriccobono/wp-content/uploads/Appunti-Madame-Bovary.pdf Bibliografia AAVV “Antologia Critica”, in Dino Buzzati, Un amore, Milano, Mondadori, 1963 Cesare Garboli, “Prefazione”, in Goffredo Parise, L'odore del sangue, p. VIII. L.Pietromarchi, L’illusione orientale. Flaubert e l’esotismo romantico, Milano, Guerini, 1990. P. Cogny, L’”Education sentimentale” de Flaubert, Paris, Librairie Larousse, 1975. I.Svevo, La coscienza di zeno, Milano, Giuseppe Monreale Edizione, 1930 G.Parise, L'odore del sangue, Milano, Rizzoli, 2004 R.Musil, Incontri, Roma, Kogoi edizioni, 2013 R.Musil, I fanatici, Torino, Einaudi, 1964 R.Musil, Un uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1940 D.Buzzati, Un amore, Milano, Mondadori, 1963 I.Svevo, Senilità, Milano, Dell'Oglio editore, 1965 Immagini tratte da:
- www.inliberta.it - www.premioceleste.it - nuvolegialle.blogspot.com 16/7/2016 Le intermittenze della morte. La parabola sulla vita e sulla morte di José SaramagoRead NowImmaginate che in un Paese qualunque (un Paese senza nome, ma che ricorda tanto il Portogallo dei nostri giorni), all'improvviso, le persone smettano di morire: nessuno muore più di vecchiaia e di malattia, né per incidenti o ferite. Potreste pensare che quel Paese (solamente lì, perché nel resto del mondo le cose vanno avanti come hanno sempre fatto fin dall'alba dei tempi) sia diventato il luogo più felice della Terra: d'altronde, gli uomini non hanno desiderato da sempre l'immortalità? Eppure la vita senza morte, più che un sogno, è un incubo: l'economia e la società si avvicinano al collasso, case di riposo e ospedali si riempiono di esseri a metà tra la vita e la morte (non morire non vuol dire guarire, ma semplicemente vegetare) e c'è persino chi si premura di offrire sottobanco un servizio per chi desidera morire ma non può. Le cose sembrano ritornare alla normalità solo quando la morte (proprio lei in persona, con falce e cappuccio nero) ritorna, consegnando lettere per avvertire le persone sette giorni prima della loro dipartita. Ma non tutto va come previsto. Una busta, indirizzata a un violoncellista, si rifiuta inspiegabilmente di arrivare a destinazione... Sono queste le premesse de Le intermittenze della morte, romanzo pubblicato nel 2005 dal premio Nobel portoghese José Saramago. Più che un romanzo, forse, un esperimento mentale: cosa succederebbe se la morte scomparisse? Sarebbe davvero desiderabile un mondo in cui tutti possano vivere per sempre? Nonostante la serietà della domanda, Saramago affronta la questione con ironia e leggerezza, con uno sguardo insieme complice e sornione, in un romanzo che fa sorridere e riflettere allo stesso tempo. La grande forza del lavoro dello scrittore portoghese sta proprio in questo: nel sapere costruire una parabola (ché tale è, alla fine, le Intermittenze della morte) lontana dai toni didascalici e declamatori. C'è spazio per la satira: quella contro la Chiesa, che è uno dei grandi temi di Saramago (dai tempi dello scandaloso Il Vangelo secondo Gesù Cristo), contro la società dei desideri facili e dei falsi, e contro la corruzione politica. Ma c'è spazio anche per la speranza, e la poesia. La storia del violoncellista, fulcro della seconda parte del romanzo, è in fine dei conti tutta una metafora della potenza dell'arte. Perché (sembra volerci mostrare lo scrittore portoghese) l'arte, la bellezza, la sensibilità sono l'unico mezzo per esorcizzare – ma non sconfiggere – la morte. C'è una lezione importante tra le pagine de Le intermittenze della morte, una riflessione che rivela ma non esaurisce tutto il senso dell'opera di Saramago; una lezione che l'autore ci mette di fronte fin dalla prima pagina, usando le parole di Wittegenstein, come chiave di lettura di una delle sue opere più belle: bisogna saper pensare alla morte per accettarla e per riuscire a vedere la vita con occhio nuovo. Immagini tratte da:
- José Saramago: Wikimedia Commons, voce José Saramago, fair use - Copertina Le intermittenze della morte: http://www.mondadoristore.it/Le-intermittenze-della-morte-Jose-Saramago/eai978880772347/ Il paradigma epistemico tradizionale associa al Medioevo l’immagine di un’epoca retriva, oscura e barbara, egemonizzata dalla Chiesa cattolica apostolica romana e priva delle più essenziali libertà (D’Arcens 2016, Matthews 2015). Mi sento di non sottoscrivere il topos tradizionale in quanto il caso dell’Inghilterra anglosassone contraddice questo assunto: fucina multiculturale interessantissima a causa della coesistenza (più o meno pacifica) di Inglesi e Scandinavi. Tra i secc. 9° e 11° furono redatti quattro codici letterari, convenzionalmente noti come Exeter Book (dal nome della città che lo accoglie e recentemente divenuto patrimonio UNESCO), il Vercelli Book , il Nowell Codex (dal nome di Laurence Nowell, editor del testo) e il Junius Codex (dal nome dell’umanista nederlandese Franciscus Junius) (Battaglia 2014) Se i codici Vercelli e Junius contengono esercizi di traduzione religiosa, più variegati ed eclettici sono le materie trattate nei codici Exeter e Nowell. Il primo non ha una vera e propria unità tematica: dalla poesia religiosa tratta dall’Antico e dal Nuovo Testamento si passa alle cosiddette “elegie” o “liriche” anglosassoni, tra tutte Dēor, che mette al centro della vicenda testuale un poeta di corte licenziato in favore di un collega più giovane (quanto di più attuale…) e che confronta il suo caso sfortunato con altre vicende simili del passato mitico germanico che si sono concluse con esito favorevole. La particolarità di questo componimento è il fatto che esso contenga il primo ritornello della Letteratura inglese, thæs oferēode, thisses swā mæg (“questo è passato, possa anche questo [passare]). L’altra peculiarità del Codice Exeter sono gli enigmi: una novantina di componimento di vario argomento, tra cui spiccano quelli di matrice erotico-sessuale (altro che secoli bui!), dove la presenza di un lessico ambiguo o comunque erotizzante rendono estremamente divertente la lettura di questo testo ritrovato dal vescovo di Exeter nel sec. 11° (Murphy 2011) Il Codice Nowell accoglie una delle opere più celebri della Letteratura anglosassone, Bēowulf. Impossibile, nonostante una recente riconsiderazione dei limiti cronologici da Neidorf 2016, stabilirne l’esatta redazione, è comunque possibile affermare che il tema sia la lotta tra il bene e il male, rappresentati dal prode Bēowulf e dai due mostri, Grendel, definito dall’anonimo poeta “discendente di Caino”, e il drago, che avrà ragione del protagonista nelle ultime pagine. A mio parere è evidente che la produzione letteraria antico inglese si collochi al di là di un Medioevo stereotipato e oscuro, ma svisceri invece tematiche alquanto moderne in modo originale, come la sofferenza personale e la sessualità.
Bibliografia: Battaglia, M (2014) Medioevo Volgare Germanico: Pisa, Pisa University Press. D’Arcens, L (2016) A Cambridge Companion to Medievalism: Cambridge, Cambridge University Press. Matthews, D (2015) Medievalism: A Critical History: Woodbridge, Boydell and Brewer. Murphy, PJ (2011) Unriddling the Exeter Book: Philadelphia, The University of Pennsylvania Press. Neidorf, L (2016) (ed. by) The Dating of Bēowulf: A Reassessment: Woodbridge, Boydell and Brewer. Immagini tratte da: Bēowulf, Pubblico Dominio, Wikipedia inglese, voce “Bēowulf”. https://poemshape.wordpress.com/tag/anglo-saxon-riddle-poems/ John Keats (1795-1821) è uno dei più significativi esponenti della seconda generazione romantica, assieme a George Gordon "Lord" Byron e Percy Bysshe Shelley. Se gli ultimi due hanno acquistato fama anche per il loro impegno politico, Keats, a causa di una salute inferma e cagionevole, ha molto riflettuto sul ruolo che la poesia deve avere, arrivando alla celebre formulazione del sublime negativo: il poeta deve essere camaleonte, interprete delle vicende alterne dell’esistenza e della vita umana (cfr. Motion 1997: 155-157, Bate 1964). Questo sentimento emerge chiaramente in una delle odi del 1819, Ode alla Melanconia, dove l’Io lirico non invita a sfuggire con la morte la melanconia quale condizione umana, ma essa deve essere invece accettata in quanto condizione inevitabile per l’essere umano (specialmente in un contesto socio-letterario qual è quello romantico, dove la condizione melanconica è espressione del genio). L’Io poetante si rivolge al lettore, dimostrando anche contezza della mitologia classica, con riferimenti al Lete e a Proserpina, non a un sentimento o a un oggetto, come in altri celebri componimenti precedenti (si vedano, per esempio, l’Ode all’Usignolo o l’Ode a Psiche) (Bennett 1994: 133). Alla breve parabola poetica e umana di Keats dobbiamo, tuttavia, significative anticipazioni letterarie, cioè la rappresentazione della donna diabolica e l’Estetismo di fine sec. 19°. In La Belle Dame Sans Merci (1819) la rappresentazione della donna le conferisce un che di maledetto e di diabolico, che ricorderà molto i quadri e le composizioni Pre-Raffaellite dei fratelli Rossetti. Il cavaliere medioevale (che molto ricorda l’epica spenseriana di tre secoli prima) lascia i lettori di fronte a un mistero insoluto: ha veramente incontrato o no la bella e misteriosa donna che lo porta nella sua grotta magica o è soltanto frutto della sua immaginazione? (Symons 2004) L’Estetismo, seppur con una finalità diversa da quello di fine secolo, cioè non un Estetismo fine a se stesso, ma con una caratura etica, lo si ritrova nell’Ode all’Urna Greca (1819), dove la vera bellezza è quella impressa sul vaso e soltanto quella sopravivverà; l’altra (e qui è evidente l’influenza dei Sonetti shakespeariani), cioè la bellezza umana, è condannata alla caducità. BIBLIOGRAFIA Bate, WJ (1964) John Keats, Cambridge, Harvard University Press. Bennett, A (1993) Keats, Narrative and Audience, Cambridge, Cambridge University Press. Motion, A (1997) Keats, London, Faber. Symons, DM (ed. by) Chaucerian Dream Visions and Complaints, Kalamazoo, Medieval Institute Publications. Immagini tratte da:
- http://www.keats-shelley-house.org/it/writers - “Ode on Melancholy”, Pubblico dominio, Wikipedia inglese, voce “Ode on Melancholy”. - Arthur Hughes, La Belle Dame Sans Merci, , Pubblico dominio, Wikipedia inglese, voce “La Belle Dame Sans Merci” |
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Maggio 2023
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