![]() di Stefano Pipi
La portata della tragedia di Hiroshima va contro ogni capacità di comprensione e di spiegazione. Sembra impossibile non solo razionalizzare - trovare un senso alla decisione calcolata di spazzar via le vite di migliaia di persone - ma persino descrivere ciò che è accaduto: le parole vengono meno, perdono di senso, paiono di troppo e suonano fuori luogo di fronte ad un simile dolore. Come fare, allora, a raccontare e tentare di far capire, per mantener viva e coltivare la memoria (senza cadere nel buonismo e nella retorica) di ciò che è successo e non dovrebbe mai più accadere? Paolo Miorandi, psicoterapeuta e scrittore, ci riesce nel suo Lessico di Hiroshima (pubblicato dalla casa editrice Il Margine). E lo fa ripensando e adattando il linguaggio (strumento di descrizione della realtà) all'immensità della catastrofe nucleare.
Di fronte a una tale distruzione le parole si piegano, si fondono come metallo e acquistano significati nuovi. Per riferirsi all'accaduto i sopravvissuti dovettero inventare una parola nuova (pikadon, chiamarono l'esplosione, unione delle parole giapponesi per ''lampo'' e ''boato''): sentivano il bisogno di raccontare, di dare un nome e con esso un senso a qualcosa di impensabile. Il lessico normale, quello della vita di tutti i giorni, non sarebbe mai bastato per esprimere ciò che avevano visto e vissuto. In questo aneddoto si cela il significato del libro di Miorandi. Lessico di Hiroshima si articola in 30 capitoli, ognuno incentrato su una parola: da ''Fiori'' a ''Silenzio'', da ''Cicatrici'' a ''Luce''. Tutti vocaboli di uso comune, che immersi nella tragedia di Hiroshima si trasformano completamente. Così ''Acqua'' diventa espressione della sete straziante che divora i sopravvissuti all'esplosione; ''Ombre'' sono i pochi, sbiaditi rimasugli della vita di tutti i giorni che affiorano tra le macerie della città; ''Inferno'' il nome dell'unica cosa che (seppur lontanamente) può paragonarsi a quanto hanno visto le vittime della bomba. Lo stile di Miorandi è leggero, pacato, perfetto per cercare di raccontare le esperienze di chi ha vissuto il bombardamento. E lo fa con una sensibilità rara, quasi in punta di piedi, rimanendo in bilico fra passato e presente – fra il tentativo (inevitabilmente vano, ma non inutile) di immedesimarsi negli hibakusha, i sopravvissuti alla bomba, e la necessità di ricordare. Perché ogni cosa ''cresce sempre in ambedue le direzioni, verso il cielo e verso la terra, verso il futuro e verso il passato''. Proprio come i ciliegi di Hiroshima. Immagini tratte da:
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Prima di poter proseguire con qualsiasi disamina del termine “melanconia”, è come sempre opportuno indagare il retroterra filologico-linguistico. “Melanconico” e “melanconia” derivano dal greco e significano bile nera. L’umore melanconico, assieme alla flemma, alla bile gialla e al sangue, costituivano i quattro umori della medicina ippocratica. Un loro scompenso o squilibrio poteva causare disturbi o portare alla morte. In modo particolare, l’atteggiamento melanconico si distingueva per l’inanità e la mancanza di qualsiasi slancio vitale (Kegan 1998).
Questa disposizione identifica la visione del mondo protestante: la rottura della Cristianità europea era avvenuta in nome di una fede personale, al cui centro vi è soltanto Cristo, senza santi, preghiere per i defunti e devozioni rivolte a Maria. In questo stato mentale si trova l’Amleto shakespeariano, studente presso l’università di Wittenberg (la città delle tesi luterane), espressione della nuova teologia e della nuova visione religiosa (Greenblatt 2002). Il mondo di Amleto è comprensibilmente segnato dalla nuova temperie culturale e morale: esso è stato scombussolato dall’incesto tra la regina Gertrude e Claudio, zio di Amleto e fratello del defunto re; è un mondo in cui respirano arrendevolezza e fatalità, ben sintetizzati dalla celebre “provvidenza nella caduta di un passero” (v: 2). Il cosmo antropocentrico e individualista del Rinascimento disegnato da Burckhardt sono adesso “fuor di sesto” (i: 5). In terra inglese la riflessione sulla melanconia conoscerà un grande successo: il testo più completo ed esplicativo sul tema è The Anatomy of Melancholy (“L’anatomia della melanconia” 1621) del pastore anglicano Robert Burton. Il termine anatomia indica il carattere totale e divulgativo del testo, unito anche a uno stile complesso fatto di digressioni e aneddoti (Simonazzi 2004: 35-124).
John Keats, il poeta camaleontico, si confronta in modo problematico con la melanconia: a suo giudizio, a essa non si può sfuggire con la morte o il suicidio, ma è una condizione ineluttabile e inevitabile dell’umanità e, in quanto tale, deve essere accettata (Vendler 1983: 20, 66).
Un altro tema molto frequentato in letteratura dalla ricezione controversa è il suicidio. Se il Cristianesimo aveva apertamente condannato il gesto, in quanto interferenza nella imperscrutabile volontà divina, le dottrine orientali giudicano in modo più simpatetico l’eventualità di togliersi la vita. Esso, tuttavia, al di là del dibattito filosofico, è un tema che ha da sempre affascinato scrittori e intellettuali: Dante incontra all’Inferno Pier Delle Vigne (Inferno xiii) e Catone (Purgatorio i), che preferì togliersi la vita invece di vivere sotto Cesare.
Nell’opera di Giacomo Leopardi la concezione del suicidio conosce una significativa evoluzione: in un primo momento togliersi la vita significa abbandonare un mondo illusorio, finto. Questa è la tensione morale che pervade il Bruto minore, dove il protagonista annuncia la fermezza del suo proposito suicidario; il suo è un gesto politico, civile. Diverso è il caso dell’Ultimo canto di Saffo, dove una motivazione personale preannuncia il suicidio: un amore non ricambiato.
In un secondo momento, il Recanatese mostra un atteggiamento diverso nei confronti del gesto: nel Dialogo tra Plotino e Porfirio (1827) nelle Operette Morali, l’autore sintetizza che nel mondo moderno, essendo un simulacro di quello reale, togliersi la vita non è un gesto biasimevole, ma accettabile in quest’ottica (Origo 2015, Melosi 2008).
Bibliografia:
Greenblatt, S (2002) Amleto in purgatorio. Figure dell’aldilà: Roma, Carocci. Kagan, J (1998) Galen’s Prophecy: Temperament in Human Nature: New York, Basic Book. Melosi, L (2008)(a cura di) Giacomo Leopardi Operette morali, a cura di Laura Melosi: Milano, BUR. Origo, I (2015) Leopardi: Roma, Castelvecchi. Simonazzi, M (2004) La malattia inglese. La melanconia nella tradizione filosofica e medica nell’Inghilterra moderna: Bologna, Il Mulino. Vendler, H (1983) The Odes of John Keats: Cambridge, Harvard University Press. Immagini tratte da: Melancolia I, Pubblico Dominio, Wikipedia italiana, voce “Melanconia”. L’anatomia della melanconia, Pubblico Dominio, Wikipedia italiana, voce “L’anatomia della melanconia” La mort de Caton d’Utique, Pubblico Dominio, Wikipedia italiana, voce “Marco Porcio Catone Uticense”
Sulla copertina del primo numero di Dylan Dog, che arriva nelle edicole italiane nel settembre 1986, quello che sarà il tono della serie è subito evidente. Delle mani, in primo piano, si alzano dal terreno per ghermire un uomo che si staglia su un tramonto, o forse un’alba livida. La luna piena troneggia nel cielo. Dietro l’uomo, vestito di un paio di jeans, di una giacca e di una caratteristica camicia rossa, altre figure stanno per stringerlo in un abbraccio mortale. La situazione sembra senza scampo. Sulla natura di queste creature il titolo dell’albo non lascia dubbi. Sono morti viventi o zombi. L’uomo è quello che moltissimi lettori italiani impareranno a conoscere come l’indagatore dell’incubo ma che per adesso ci viene semplicemente presentato con un nome che sembra stridere con la drammaticità della scena: Dylan Dog.
È il 1986 quando appare in Italia per la prima quel personaggio definito dai critici come bizzarro e dal nome strano: "Dylan Dog". Simile a Rupert Everett nell'aspetto e a James Bond nei modi di fare - Mi chiamo Dog, Dylan Dog -, l'eroe di Craven Road si presenta sin dalle prime pagine come un eroe diverso da quello proposto dalla Golden age americana: Impacciato – si veda l'episodio con Sybil che gli rifila un calcio sugli stinchi -, misterioso (si viene a sapere che discende da una famiglia di cacciatori degli incubi), ciarlatano (i quotidiani non spendono per la sua non lucrosa attività belle parole), istintivo (sempre con la soluzione in mano, grazie al suo “quinto senso e mezzo").
Storia horror nel senso più stretto del termine, capolavoro di intertestualità allo stesso tempo, L'alba dei morti viventi è un chiaro omaggio agli zombie di George A.Romero Night of the Living Dead. Dylan, Groucho e la scettica Sybil – per niente desiderosa di recarsi presso una rassegna cinematografica di film horror – assistono alla proiezione del film di Romero che si apre con la frase più celebre «Quando all’inferno non c’è più posto i morti cammineranno sulla terra». Lo stesso Dylan, di fronte allo scetticismo di Sybil che non apprezza i suoi gusti cinematografici, le dice di non azzardarsi a chiamare schifezza “Zombi” di Romero. Il film che segue Un lupo mannaro americano a Londra è, invece, un chiaro riferimento al terzo albo di Dylan Dog, Le notti della luna piena. Sin dalle prime pagine, pertanto, il lettore si trova immerso in citazioni e rimandi letterari, in un numero che vede al centro il protagonista Dylan Dog, ex poliziotto di Scotland Yard, chiamato ad investigare sull'omicidio del signor Browning, ucciso per mano di Sybil in circostanze poco chiare (l'uomo si era presentato nel cuore della notte sulla porta di casa, barcollante e in pessime condizioni fisiche, implorando la moglie di ucciderlo per poi risvegliarsi, una volta deceduto, sotto le sembianze di uno “spettro” intenzionato a metter fine alla misera vita di Sybil). Dylan si reca a Inverness, nella parte settentrionale del Regno Unito, per poi giunga piccolo villaggio di Undead, dove lo aspetta il padre Xabaras, personaggio mefistofelico intenzionato a ridare vita a corpi inanimati.
Per quanto riguarda l'abitazione di Dylan, Craven Road n°7, l'omaggio è al regista americano e appassionato di fumetti Wes Craven, noto soprattutto per la saga Nightmare on Elm Street, 1984), mentre il campanello urlante, ripreso anche nella rappresentazione cinematografica dei Canti di Natale di Dickens, è un chiaro rimando a Invito a cena con delitto.
Per quanto concerne invece la scelta dei personaggi, l'ispettore Bloch da una parte è graficamente ispirato all’attore inglese Robert Morley – folte sopracciglia, fronte spiovente, stempiato, viso paffuto -, dall'altra ricorda Robert Bloch, noto per Psyco. Ben più evidente, invece, il rimando a Groucho Marx «Una volta faceva l’attore comico. Forse l’avete visto in qualche film», assistente e spalla di Dylan Dog che somiglia fortemente al comico omonimo tanto da partecipare a un raduno dei suoi sosia. Groucho Marx, comico e attore statunitense, terzo dei cinque fratelli Marx scomparso nel 1977, è ancora oggi una delle grandi icone del Novecento grazie a quell'inconfondibile maschera comica dai tratti divenuti inconfondibili: vistosi baffi, ciglia folte, sguardo ammiccante, sigaro tra le dita. Il ricorso al nonsense e alle storpiature linguistiche non solo ha caratterizzato la comicità verbale di Groucho Marx - basata sulla grande capacità di improvvisazione, sull'uso funambolico della parola e delle sue infinite possibilità di applicazione -, ma ha fatto si, anche grazie all'omaggio della Bolelli Editore, che questo personaggio rivivesse sulle pagine di un fumetto a testimonianza della sua grandezza che va oltre il tempo. E cosa dire di Dylan? Dal punto di vista letterario indubbiamente ricorda Sherlock Holmes, differenziandosi però nel metodo della ricerca: più intuitivo il primo, maggiormente deduttivo il secondo. La stessa parodia Dysney, riproposizione di un personaggio creato da Conan Doyle, ci mostra un Dylan che ricorre all'alcool per cercare ispirazione, a differenza di Ser Lock che preferisce l'utilizzo di sostanze stupefacenti. Per quanto riguarda i mille amori di Dylan – Morgana, Marina Kimball, Lillie Connelly, Bree Daniels, possiamo notare un certo parallelismo con John Constantine di Alan Moore.
L'acerrimo nemico di Dylan, il padre Xabaras, è anzitutto un'anagramma di Abraxas, che significa Satana facendo capire, sin dalle prime pagine, che questa oscura figura ha qualcosa di demoniaco. Il primo incontro tra l'eroe e l'acerrimo nemico si svolge ad Inverary, precisamente nel laboratorio dello scienziato vicino ad un cadavere, disteso su un tavolo operatorio. Nonostante le parole di Xabaras «posso ridargli la vita», ricordino vagamente le urla di gioa di Victor Frankenstein «si può fare», i metodi utilizzati per ridare vita a corpi inanimati sono diversi: un siero il primo, scariche elettriche il secondo. Una metodologia, quella utilizzata da Xabaras, che ricorda maggiormente Phillips Lovecraft in Herbert West.
Sitografia
http://www.fumettologica.it/2015/09/citazioni-dylan-dog-1-alba-morti-viventi/ http://www.wuz.it/articolo-libri/5678/Dylan-Dog-fumetto.html Carabba/Vannini, Sogni proibiti, 1979, pag. 12-13 S. Bolelli, L'alba dei morti viventi M.Shelly, Frankenstein, P.Lovecraft, Herbest West
Prima di proseguire a un attento esame del mostro e dei suoi sviluppi nella Letteratura inglese, è opportuno iniziare da una considerazione di natura etimologica. Il termine mostro deriva dal latino monstrum, il cui significato era quello “creatura, cosa meravigliosa”. Le scoperte e i viaggi geografici, tra i secc. XV e XVI, permisero agli Europei di venire a contatto con l’Altro, col mostro, cioè con le popolazioni del Nuovo Mondo, i cui usi e costumi non poco stupirono e atterrirono i vari Colombo, Vasco De Gama, Cortés, etc. (cfr. Todorov 1982, Obeyesekere 1992: 16-17). L’incontro con il diverso e le sue conseguenze sono alla base della riflessione scettica e relativista di Montaigne e del suo celebre saggio sui cannibali, il quale rappresenta una delle più significative influenze sull’ultimo testo shakespeariano, The Tempest (“La Tempesta”, 1610-1611). Prospero, il duca di Milano esiliato, e sua figlia Miranda si ritrovano su un’isola deserta e il loro primo incontro è quello con Caliban (molto vicino, foneticamente, a cannibale) e con sua madre, la strega Sycorax (che significa “strega suina”) (Fusini 2016, Purkiss 1996: 250-276, Carey-Webb 1993: 30-35).
Il viaggio di scoperta prima e il colonialismo dopo permettono l’emersione di nuovi “mostri”, che spesso sono dentro di noi Europei. Questo è l’assunto essenziale del celebre testo di Joseph Conrad Heart of Darkness (“Cuore di tenebra”, 1890), il quale intende mostrare, attraverso la sua tecnica del make you see, quanto razzista, mostruoso e vigliacco sia l’atteggiamento europeo nei confronti del Congo e dell’Africa in generale. L’archetipo dell’Europeo spietato e mostruoso è rappresentato da Kurtz, ma Conrad non lo rappresenta mai in quanto tale, ma lo lascia intendere attraverso le sue descrizioni e le sue allusioni, facendolo diventare alla fine una divinità cannibalica o a cui offrire (probabilmente) sacrifici umani (Lacoue-Labarthe 2012, Lawtoo 2012 Harris 1990: 173-174).
Il sec. 19° rappresenta il trionfo della scienza e del progresso e qui si inserisce la riscoperta della hybris e il desiderio di una conoscenza faustiana spinge l’uomo a scoprire altri mostri dentro di sé: paradigmatico è Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde (1886). Nel racconto di Stevenson la castrante morale vittoriana spinge il Dr Henry Jekyll, attraverso esperimenti chimici, a scindere il suo vero Sé, Mr Hyde, e a fare quello che un uomo apparentemente rispettabile e stimato non potrebbe mai fare, in quanto costretto a essere quello che in realtà non è e a scatenare una vicenda mostruosa e incredibile (da qui l’assenza dell’articolo The nel titolo) (Sanford 1981, Dury 2005).
Il celeberrimo romanzo di Stoker ci porta alla periferie del Vecchio Continente, in Transilvania, dove vige ancora un rigoroso ordine feudale, il cui fedele custode è il Conte Dracula, la cui strutturale mentale non può essere accettato nel mondo capitalista e affarista e ciò ne comporta l’esclusione e la sconfitta, come già previsto da Karl Marx (Robbins 2014, Arata 1990). Il vampiro rappresenta anche gli istinti sessuali repressi, come ben dimostra l’attacco di Dracula a Lucy (Auerbach 1995).
Questo quadro intende dimostrare l’evoluzione del mostro, un mostro che non è lontano o distante da noi, ma immanente e dentro di noi, come dimostrano Stevenson e Conrad. Il mostro, inoltre, nasce sempre dal confronto con noi stessi e con le storture della nostra società.
Bibliografia:
- Arata, SD (1990) “The Occidental Tourist: Dracula and the Anxiety of Reverse Colonization” Victorian Studies 33 (4): 621-645. - Auerbach, N (1995) Our Vampires, Ourselves: Chicago, University of Chicago Press. - Carey-Webb, A (1993) “Shakespeare for the 1990s: A Multicultural Tempest” The English Journal, National Council of Teachers of English 82 (4): 30-35. - Drury, R (ed. by)(2005) The Annotated Dr Jekyll and Mr Hyde: Genova, ECIG. - Fusini, N (2016) Vivere nella Tempesta: Torino, Einaudi. - Greenblatt, S, Platt, P (2014) Shakespeare’s Montaigne: The Florio Translation of the Essays. A Selection: New York, New York Review of Books. - Harris, W (1990) “The Frontier On Which Heart of Darkness Stands” in Hamner (ed. by) Joseph Conrad: Third World Perspectives: Washington, Three Continents Press: 161-201. - Lacoue-Labarthe, P (2012) "The horror of the West” in Lawtoo (ed. by) Conrad’s Heart of Darkness and Contemporary Thought: Revisiting the Horror with Lacoue-Labarthe: London, Bloomsbury: 111-123. - Lawtoo, N (2012) “A frame for “The Horror of the West” in Lawtoo (ed. by) Conrad’s Heart of Darkness and Contemporary Thought: Revisiting the Horror with Lacoue-Labarthe: London, Bloomsbury: 89-111. - Obeyesekere, G (1992) The Apotheosis of Captain Cook: European Mythmaking in the Pacific: Princeton, Princeton University Press. - Robbins, H (2014) “Dracula and Social Discoordination” in Whitman, Dow (eds.) Economics of the Dead: Zombies, Vampires, and the Dismal Science: Lanham, Rowman and Littlefield: 239-249. - Sanford, JA (1981) Evil: The Shadow Side of Reality: New York, Crossroad. - Todorov, T (1982) La Conquête de l’Amérique: La Question de l’autre: Paris, Le Seuil. Immagini tratte da: - http://it.feedbooks.com/book/3000/the-tempest - Heart of Darkness, Public Domain, Wikipedia inglese, voce Heart of Darkness. - Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, Public Domain, Wikipedia inglese, voce Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde. - Dracula, Public Domain, Wikipedia inglese, voce Dracula.
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“È con infinita agape, molto più che schopenhaueriana, che ho compreso, senza per questo immedesimarmi, di essere di fronte a una platea di morti”.
Frase d’esordio che usa l’attore-filosofo, il presente-assente Carmelo Bene alla puntata del Maurizio Costanzo show del 27 giugno 1994, in un intervento che, seppur nella totale/parziale incomprensione del pubblico, lascia un segno indelebile nella storia della televisione italiana. Bene scandalizza il pubblico con asserzioni irriverenti contro il lavoro, la morale, il linguaggio, la stampa, la politica; con frasi come “l’informazione informa i fatti, non è mai sui fatti e dei fatti”, “usciamo una sera dalla tirannia delle plebi, le masse devono capire che attraverso i media sono consunte”, “siamo guidati da una massa di ignoranti, di persone anti-estetiche”, “liberiamoci dalla libertà, niente è più vincolante della libertà”, “ognuno si risponda invece che domandare”, citando opere di Aristotele, Nietzsche, Deleuze, Derrida, Lacan, Bene dichiara con coraggio anticonformista il proprio insanabile distacco culturale dalla massa stipata all’interno dei “loculi domestici”. Ma Bene è soltanto uno snob superbo che sputa in faccia alla massa inebetita? Un super-uomo dei nostri tempi? “Bisogna sputarsi in faccia, non essere mai se stessi, soltanto così si è nell’immediato, “io me ne fotto di Carmelo Bene, voi no, io si”.
A parte le soggettive considerazioni e giudizi sul “fenomeno Bene” non si può non attribuire allo stesso la rara genialità che si presenta nella drastica riconsiderazione del linguaggio e della comunicazione in genere.
Bene-attore applica ai suoi spettacoli teatrali lo stesso impegno teoretico che il filosofo dimostra nei suoi trattati. Con l’ausilio di una sofisticatissima apparecchiatura elettronica costituita da amplificatori, microfoni ipersensibili, monitor-spie da diecimila watt, egli tenta il superamento della dimensione linguistico-comunicativa attraverso la manipolazione tecnica del significante. Spesso l’attore fa riferimento all’opera del pittore Francis Bacon per illustrare visivamente il suo intento: così come Bacon modifica la dimensione corporea portandola ai confini della carne, in un tentativo estremo di fuga dei corpi da se stessi (si pensi al ciclo dei “Papi Urlanti”) allo stesso modo Bene dà vita ad una deformazione della phonè, una disarticolazione dell’atto linguistico che altera a tal punto la comunicazione da consentire d’interloquire direttamente da un interno (quello dell’attore in scena) ad un altro interno (quello dello spettatore in sala).
Bene vuole raggiungere una dimensione di abbandono della parola in favore di uno scorporamento della medesima, che non ha più funzione comunicativa nel senso comune, ma diviene alone del suono di una lettura-oblio.
Nel teatro di Bene l’attore si proietta in una finzione scenica che non coincide più con il tempo storico, il kronos dei greci, ma entra in contatto con il tempo aiòn (concetto che Bene prende da Deleuze nella sua opera “Logica del senso”), che corrisponde all’immediato. L’immediato, secondo Bene, è quel momento sublime avvertibile dallo spettatore che si trova davanti all’attore estraniato da se stesso come in un’estasi mistica, dove l’azione si sconcretizza nel baratro del nulla scenico. Immagini tratte da: http://www.succedeoggi.it/2013/08/storia-dei-carmelitani/ http://olhodecorvo.redezero.org/
Una lettura psicoanalitica della novella Biancaneve e i sette nani dei Fratelli Grimm
Biancaneve e i sette nani, una delle fiabe maggiormente apprezzate da grandi e piccini, nonché una delle più note al mondo, si pone come una fiaba atipica e complessa: non solo affronta il tema della bellezza e della seduzione - presente nella rivalità generazionale tra Biancaneve e Grimilde -, ma anche il complesso di Edipo e le nefaste conseguenze del narcisismo. Questo rapporto conflittuale, che trae origine nella “transitorietà” della bellezza, mediata dal pomo della discordia (la mela) e dalla tentazione (Biancaneve più volte nel corso della storia viene “tentata” da pulsioni sessuali, è incentrata sul rapporto con l’altro, con lo “specchio”, riflettente per Biancaneve e deformante per Grimilde, simulacro della trasformazione corporea.
La giovane bambina dalla carnagione bianca come la neve, dalle labbra rosse come il sangue e dai capelli neri come i corvi, risultato del desiderio dei genitori, non è altro che l' “aspirazione” edipica di avere una figlia che incarni l'essenza della bellezza. Biancaneve, tuttavia, non è figlia del conte e della contessa, per quanto lei sia profondamente amata dal conte e la contessa ne sia gelosa. Nella versione universalmente conosciuta, la donna gelosa non è la madre, ma la matrigna. La puntura di Grimilde con un ago, le tre gocce di sangue sulla candida neve non sono solo un rimando alla “creazione” di Biancaneve e al desiderio appena citato dei genitori, ma preannunciano alcune problematiche che la piccola fanciulla sarà destinata ad affrontare nel corso della sua vita: alla bianchezza, simbolo del candore e dell'innocenza sensuale, fa da contrasto il rosso, simbolo non solo del desiderio sessuale, ma delle fasi di crescita a cui Biancaneve deve ancora arrivare: l'effusione sessuale di sangue, come nella prima mestruazione, e più tardi il coito alla rottura dell'imene. Del complesso pre-edipico di Biancaneve sappiamo poco, solo che la sua infanzia è tranquilla fino all'età di sette anni. É in questo momento che al posto della madre Grimilde subentra la figura della matrigna, personaggio caratterizzato da un profondo narcisismo che si sente minacciata dalla bellezza di Biancaneve fino da diventarne gelosa. Grimilde, secondo una chiave di lettura freudiana, non riesce ad elaborare il lutto per la perdita dell’oggetto narcisistico, innescando in lei intense angosce e la ricerca di un continuo confronto con lo specchio.
Il celebre soliloquio di Grimilde "Specchio, specchio delle mie brame, dimmi, chi è la più bella del reame? Ed esso rispose: “Qui, nel tuo regno, regina, la più bella sei tu. Ma fuor di qui, oltre i monti e le valli, Biancaneve, a casa dei sette nani, lo è mille volte di più” non è altro che una riproposizione moderna dell'antico tema di Narciso, che amava talmente tanto se stesso da finire inghiottito dalla propria auto-ammirazione. Dioniso, l'altra faccia del mondo apollinare, condensa le pulsioni erotiche più sfrenate e primarie, ricalcando i contenuti mentali degli arcaici riti tribali d'iniziazione puberale. Ecco allora che le celebri parole di Bettelheim acquistano senso:
“É il genitore narcisistico quello che si sente minacciato dalla crescita del proprio figlio, poiché esso significa che il genitore invecchia”. Fintanto che il bambino è totalmente dipendente, resta , per così dire, parte del genitore; non minaccia il narcisismo del genitore. Ma quando comincia a maturarsi e ad aspirare all'indipendenza, viene avvertito come una minaccia da questo genitore”. Motivo per cui Grimilde, solo a partire da un certo momento, inizia a provare astio verso Biancaneve. Questa rivalità generazionale viene generata dalla stessa Biancaneve, convinta in cuor suo che l'amore incondizionato del padre sia la cosa più naturale del mondo. La giovane fanciulla, a livello preconscio, è ben consapevole della gelosia della madre, ma se ne disinteressa. Da qui nasce il rapporto conflittuale di Biancaneve con la madre, il tramutarsi dell'idea di inferiorità “io sono gelosa” in un pensiero di assoluta rivalità e superiorità “mia madre è gelosa di me”. Una lotta per la supremazia che rende la vita intollerabile ai due protagonisti della storia: la prima tenta invano di sbarazzarsi del genitore, obbligando la seconda a competere in una lotta per il proprio uomo. In Biancaneve la lotta edipica della bambina non viene repressa, ma messa in atto dalla madre rivale attraverso la figura del cacciatore (rappresentazione inconscia del padre). L'ambivalenza paterna di questo uomo misterioso - non uccide Biancaneve con le proprie mani strappandole il cuore richiesto dalla regina, ma lascia la povera fanciulla sola in un bosco pieno di animali feroci – genera l'odio della madre, tormentata dall'incapacità del cacciatore di assumere una posizione energica. È proprio in questa inversione dei ruoli – padre debole bambina forte – che Grimilde decide di farsi vendetta da sola, cambiando le proprie sembianze pur di uccidere la figlia rivale. Un tema, questo, che ricorda proprio il Mito di Edipo: in questa leggenda non solo trova la propria rovina Giocasta, la madre di Edipo, ma lo stesso padre Laio, la cui paura di essere soppiantato dal figlio finisce col farlo soccombere alla tragedia che travolge tutti loro. E cosa dire infine dei nani? Omuncoli liberi da conflitti interiori, felici di trascorrere un'esistenza sempre uguale in miniera, incapaci di comprendere le pressioni interiori che impediscono a Biancaneve di resistere alle tentazioni della regina. La giovane fanciulla ripetutamente si lascia sedurre dalle velenose lusinghe di Grimilde, nonostante i continui ammonimenti dei nani che le ricordano costantemente quanto può essere perfida e maligna la regina.
L'avvertimento dei nani “non lasciare entrare nessuno in casa” - ultimo baluardo della propria incolumità fisica – può essere letto psicoanaliticamente come un tentativo di penetrare nell'intimità di Biancaneve.
E mentre per i nani è facile non cadere in tentazione – rimasti legati a una frase pre-edipica (nonostante la connotazione fallica dell'essere piccoli omuncoli capaci di penetrare in spazi stretti) Biancaneve, dopo aver trascorso una pre-adolescenza assoluta tranquillità, di latenza dal punto di vista sessuale, entra in una fase, quella adolescenziale, in cui comincia a provare impulsi sessuali che fino a quel momento erano repressi. Motivo ancora una volta per cui la regina, solo ad un certo momento, decide di sconvolgere la pace interiore di Biancaneve. Non solo Biancaneve cade in continue tentazioni nella casa dei nani (mangia un boccone da ciascuno dei sette piatti e beve un sorso da ciascuno dei sette bicchieri come se fosse casa sua e, soddisfatta la fame, non contenta, decide di coricarsi in uno dei sette letti, non prima di averli provati tutti e consapevole del rischio che stava correndo), ma viene costantemente messa in crisi da Grimilde, incarnazione degli elementi sessuali negati, capace di tentare la giovane fanciulla prima con la mela avvelenata e poi, camuffata da vecchia, con la scusa di accorciarle i capelli per renderla inconsciamente più seducente. Ed è proprio la mela della discordia, quella mela offerta ad Afrodite che portò alla guerra di Troia e che indusse l'uomo a rinunciare alla propria innocenza pur di scoprire il piacere della sessualità che porta Biancaneve alla caduta finale assaporando la parte rossa (erotica) della mela. Il rimando alla parte iniziale è allora evidente: Biancaneve, scegliendo la parte rossa, quella parte che evoca associazioni sessuali come le tre gocce di sangue presenti nella creazione della stessa fanciulla (inizio della adolescenza), fa morire la bambina che è in lei, segnando il passaggio dalla fanciullezza a un età fatta di pericoli e tentazioni.
Biografia:
- http://www.laltrafacciadellamela.altervista.org/fiabe.html - Bettelheim B.: “The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales”, Knopf, New York 1976 - Pushkin A.: “The Tale of the Dead Princess and the Seven Knights“, Raduga Publishers, Moscow 1974 - Grimm, Biancaneve e i sette nani
Immagini tratte da:
- fiabeincostruzione.wordpress.com - http://www.laltrafacciadellamela.altervista.org/fiabe.html - www.laltrafacciadellamela.altervista.org
La poesia metafisica inglese ha in John Donne il suo maggior esponente, ma anche gli esercizi poetici di Andrew Marvell, altrettanto godibili e contraddistinti dall’influenza classica e dalla sua adesione al Puritanesimo.
A differenza di Donne, Marvell era figlio di un pastore anglicano e, durante la Guerra civile, aveva vissuto sul continente e svolto funzioni di precettore (cfr. Hay 1998: 101, Murray 1999: 24-35). Durante l’Interregno, Marvell non mancò di esaltare Cromwell al suo ritorno dalla conquista in Irlanda e salutò, con toni altrettanto entusiasti, la scoperta del Nuovo Mondo, equivalente del Paradiso in terra per una mente puritana.
Marvell non è soltanto il poeta religioso, ma ha esplorato con successo anche il tema del carpe diem nella sua celebre To His Coy Mistress (ca. 1649-1660). Il testo lamenta l’ipocrisia della società, che impedisce all’Io poetante di poter godere appieno della sua storia d’amore con la propria amante. L’argomentazione retorica è svolta secondo i canoni dello stile metafisico: nella prima strofa, l’Io ambienta la sua vicenda amorosa tra il fiume Humber (che scorre nelle aree in cui crebbe Marvell) e il Gange (il fiume indiano), a indicare che l’amore dei due amanti non conosce confini. Tuttavia, la svolta del testo è nella seconda strofa: Thy beauty shall no more be found, Nor, in thy marble vault, shall sound my echoing song; Then worms shall try thy long preserved virginity […]And into ashes my lust Donniani sono i versi marvelliani: l’amante invita l’amata a cedere alle sue lusinghe, altrimenti la sua verginità a lungo custodita sarà buona soltanto per i vermi.
Il tono oraziano ed edonistico di To His Coy Mistress lascia spazio alla cupezza della vicenda narrata in The Picture of Little T.C. in a Prospect of Flowers. Se in precedenza era stato esaltata la ricerca del piacere contro un’etica sociale cieca e ipocrita, adesso è la paura il sentimento dominante: la piccola Theophila Cornwall (che Marvell vede in un ritratto) sa che, quando crescerà, sarà sedotta e perderà la sua verginità. Ma, finché è una bambina, l’autore invita a non raccogliere le gemme delle rose (a non godere dei piaceri). Il locus amoenus, il giardino in cui Theophila si muove, ricorda tanto il Giardino dell’Eden e il Peccato Originale (cfr. Donno 2005).
La poesia metafisica è stata resa grande ed eterna da Donne, ma l’ambivalenza di Andrew Marvell è senz’altro da tenere in considerazione.
Bibliografia:
- Donno, E (ed. by)(2005) Andrew Marvell: The Complete Poems, edited by Elizabeth Donno: London, Penguin. - Hay, Robert, R (1998) An Andrew Marvell Companion: London, Routledge. - Murray, N (1999) World Enough and Time: the Life of Andrew Marvell: New York, Little, Brown and Company. Immagini tratte da: - Andrew Marvell, Public Domain, Wikipedia inglese, voce Andrew Marvell. - https://professorshanewilson.wikispaces.com/To+His+Coy+Mistress
Nel 1940 l'Unione Sovietica invade i paesi baltici. La Lituania, la Lettonia e l'Estonia si trovano occupate dalle forze di Stalin, e governate da partiti comunisti insediati per mezzo di elezioni pilotate. Un anno dopo, nel 1941, migliaia di cittadini vengono accusati di attività anticomunista e deportati in campi di concentramento in Siberia. Appena quindicenne, Lina viene arrestata senza motivo dalla polizia politica sovietica assieme al fratello minore ed alla madre, trascinata in strada e caricata su un camion. È l'inizio di un viaggio che li porterà fino in Siberia, a lavorare e a morire in campi di concentramento sovietici. La prigionia di Lina duretà 10 anni, in una tremenda lotta per la sopravvivenza, con la speranza di riuscire a ritornare a casa e riunirsi, alla fine, con il padre disperso.
Simili cose, a volte, vanno mostrate, non solamente spiegate. Per questo durante tutto il romanzo c'è uno sguardo asettico, neutrale, quasi da documentario. Eppure è impossibile rimanere indifferente rispetto a ciò che accade a Lina, così come non si può non ammirarne il coraggio e la forza: pur in quell'inferno, è possibile lottare per mantenere la dignità, per sostenersi a vicenda, persino per amare.
Avevano spento anche la luna è un libro che andrebbe letto con attenzione e partecipazione, consci che la storia di Lina è basata su fatti realmente accaduti. Il libro di Ruta Sepetys riesce a metterci di fronte alle due facce dell'essere umano: il suo essere capace delle più atroci ed impensabili crudeltà, ma anche, persino nelle situazioni più disperate, di una forza incredibile. Un romanzo che riporta alla luce una delle pagine più buie della storia europea, ma capace di lasciare il segno come pochi: perché, in questi casi, la cosa davvero importante è non dimenticare. IMMAGINI TRATTE DA: - Copertina: http://www.anobii.com/books/ - Ruta Sepetys: http://www.yalsa.ala.org/thehub/wp-content/uploads/2014/03/RutaSepetys.jpg
L'ipocrisia di Mark nell' esternazione di un nefasto cameratismo
La decisione di Renton di violare alla fine del romanzo il codice di Leith (mai tradire i compagni), traendo numerosi benefici dallo spaccio di droga – una nuova vita ad Amsterdam - offre al lettore alcuni spunti interessanti. Va commiserato il suo bisogno di fuggire definitivamente da Leith? È un semplice atto di opportunismo, o la reazione di un antieroe dissenziente?
Nella cornice di una tematica pesante come quella della droga si inserisce celata una forte critica allo stile di vita borghese e a quei perbenisti che, trincerati dietro una morale bigotta, si macchiano anche loro di colpe terribili, prime fra tutte l'indifferenza e l'odio verso chi ha stupidamente deciso di "non scegliere la vita". “Renton si era servito di Begbie, lo aveva usato per tagliare definitivamente i ponti con tutto il resto. E Begbie era la sua garanzia di non potere mai più tornare indietro. Aveva fatto quello che voleva. Adesso non ci poteva mai più tornare a Leith, a Edimburgo, nemmeno in Scozia, mai più. Se fosse rimasto lì, non avrebbe mai potuto essere diversi da com'era sempre stato. Adesso che si era liberato di tutti, per sempre, poteva essere quello che voleva. Se la sarebbe vista da solo. E questo pensiero lo terrorizzò e lo eccitò allo stesso tempo, mentre pensava alla sua vita ad Amsterdam”. La dialettica tra terrore e eccitazione, sperimentata da Renton alla fine di Trainspotting, è coerente con il richiamo a Kierkegaard. Citato da Mark in a Counter Disaste, Rents dimostra non solo di conoscere pienamente le basi della filosofia del teologo e scrittore di Copenaghen, ma di aver fatto suo il concetto di scelta. L'affermazione dell'individuo attraverso una scelta vera e significativa, contraddistinta dalla paura o dall'angoscia tanto decantata da Kierkegaard è la stessa sperimentata da Mark di fronte alla sensazione di stordimento per la libertà ottenuta. La fuga di Renton, quindi, non è tanto un prodotto della scellerata politica di Margaret Thatcher, quanto piuttosto il risultato delle proprie scelte. Nell'esternazione di un nefasto cameratismo - panegirico dell'anormalità - , in cui drogarsi è l'unico modo per evadere da una società bigotta e borghese, Mark, a differenza dei propri compagni, riesce ad evadere da quell'inferno chimico in cui sono caduti i propri compagni. Una scelta obbligata - stanco della solita vita a guardare treni e consapevole che anche lui sarebbe finito in quel buco irreversibile in cui si trovano Tommy e Matty qualora non avesse deciso di cambiare vita – e difficile quella di Mark, giustificata dalla certezza che Sick Boy avrebbe fatto la stessa cosa qualora ne avesse avuto la possibilità e che Spud lo avrebbe capito.
Una fuga che però può essere anche letta come un atto di accusa “del suo tempo”, una critica feroce al nichilismo dei propri compagni, motivata in termini economici, consumistici e, in parte, etici.
Nonostante tagli definitivamente i ponti col passato, con le sue radici e con una società che non gli avrebbe permesso di cambiare vita - è l'unico ad andarsene da Leith, a chiudere almeno in parte con la droga evitando di fare la fine di Venters, Tommy, Matty e Dawn – Mark è realmente cambiato? Sicuramente Mark ha un evoluzione “Scotland is the most wretched, servile, miserable, pathetic trash that was ever shagged into civilisation” […] “Ah've never felt British, because ah’m not. It’s ugly and artificial. Ah've never really felt Scottish either, though. Scotland the brave, ma arse; Scotland the shitein’ cun”, un'insofferenza di fronte alla morte di molte persone della sua classe sociale con cui era cresciuto, eppure la scelta di andare ad Amsterdam, la capitale europea della droga e della prostituzione, lascia aperte numerose domande. Che ne è stato di Mark Renton, Sick Boy, Spud e Frank Begbie? Sono passati 9 anni dall'ultima volta che si sono visti tutti assieme. La fuga di Mark, il ritorno alla libertà di Begbie, l'agenzia imprenditoriale di Sick Boy, l'amicizia tra Dianne e Nikki, un nuovo personaggio che si fa convincere da Gas Terry a girare un film porno al piano superiore del bar leithiano rilevato da Sick Boy, sono gli ingredienti alla base di Porno. Sembrerebbe tutto diverso, se non fosse che c'è chi continua a bucarsi in un universo in progressivo cambiamento. In una Leith progressista, pronta a guardare finalmente al futuro – imborghesimento - , dice sbigottito Spud, protagonista è Sick Boy che, con i suoi deliri di grandezza, decide di rilanciarsi dopo essere stato piantato in asso da Mark.
Come in Trainspotting, il romanzo è caratterizzato dall'assenza di moralità. Una lotta per la sopravvivenza, un universo in cui il cameratismo viene meno di fronte al bisogno fisiologico e consumistico. Se con Skagboys Irvine Welsh vuole passi farci credere che c'è un piccolo germe di bontà nei ragazzi di Leith – nonostante la lenta e inesorabile “caduta” - in Porno ritroviamo l’antico detto, valido anche per Trainspotting, dell' homo homini lupus.
In una società imborghesita e in progressivo cambiamento «la vecchia Leith non esisterà più. Guarda Tollcross, adesso è un centro finanziario. Guarda il South Side,: un villaggio per studenti. Stockbridge ormai è da un sacco che è genere da yuppie, la vecchia Stockeree», l'eterna conflittualità tra la decadente Leith, la borghese Edimburgo e la fiorente Fifth Port, i ragazzi del buco faticano ad emergere e solo grazie alla realizzazione di un business legato alla pornografia alcuni riescono ad andare avanti. Cosa rimane alla fine di Mark? Un ipocrita, una persona che di fronte alle continue affermazioni “la verità è che sono una persona cattiva, ma questo cambierà, io cambierò “, continua ad ingannare i propri compagni – vittima -, ancora una volta, Sick Boy.
Bibliografia:
I.Welsh, Trainspotting, London, Vintage, 2004. I.Welsh, Porno, Parma, Guanda Editore, 2003 Belvedere, C., Turnball, R., The Eclipse of Scottish Culture, Edimburgh, Polygon, 1989. Kelly, A., Irvine Welsh, Manchester, Manchester University Press, 2005. Morace, R., A, Trainspotting: A Reader's Guide, London, Continuum, 2001 Schoene, B., The Edimburgh Companion To Irvine Welsh, (ed.), Edimburgh, Edimburgh University Press, 2010. Turner, J., Love's Chemistery, in A. Kelly (ed.), Irvine Welsh, Manchester, Manchester University Press, 2005, p.131.
Immagini tratte da:
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William Wordsworth, nel definire il programma del Romanticismo inglese nel 1798, mise al centro della sua poesia le azioni quotidiane di persone semplici e umili, scritte in un linguaggio accessibile a tutti. Tuttavia, il suo amico e poeta Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), si contraddistinse per il linguaggio arcaico, difficile e per i temi tutt’altro che semplici, frutto del suo viaggio in Germania e della sua conoscenza dell’Idealismo tedesco (cfr. Modiano 1985)
Il tema fondamentale dell’opera del poeta britannico è la rottura dell’ordine naturale prodotta dall’uomo, descritto con un linguaggio e una dizione arcaica, che richiamano a una visione fantastica del Medioevo (Newlyn 2002). Autentico manifesto della poetica coleridgiana è The Rime of the Ancient Mariner (“La Ballata del Vecchio Marinaio”, 1798). Il poeta si serve in modo assolutamente innovativo della ballata medioevale: forte è infatti la caratura morale e catartica, assolutamente assente della ballata tradizionale. Il Vecchio Marinaio, punito in una fantasmatica partita a dadi da due spettri, Morte e Vita-nella-Morte per un’azione faustiana e sconsiderata, ci lascia una potente lezione: gli animali sono il prodotto della Creazione di Dio e nessuno di loro deve essere ucciso.
L’attrazione di Coleridge per il Medioevo non poterono che tradursi in Christabel (frammento uscito nel 1797 e nel 1816). L’autore britannico si esercita nel medievalismo, la ricreazione del Medioevo da culture post-medioevali, affrontando un tema scabroso per l’epoca in cui egli visse: l’iniziazione all’omosessualità di Christabel, la protagonista eponima, da parte di Geraldine. Non sappiamo esattamente chi sia la misteriosa Geraldine, quello che sappiamo attraverso la vicenda testuale è che ella fa scoprire a una giovane donna repressa il desiderio sessuale, tabuizzato attraverso la scoperta di un amore proibito. L’ambientazione gotica permette all’autore di muovere una fortissima critica alla mentalità conservatrice e ancora marcatamente cavalleresca della società inglese: il padre di Christabel, l’austero sir Leoline, è l’archetipo della Legge, il genitore chiamato a difendere la figlia e mantenere la sua purezza (Fulford 2002: 55-57)(immagine qui).
Coleridge è anche un teorico della letteratura. Il suo principale contributo è Biographia Literaria (1817), dove lo scrittore dà conto della celebre willing suspension of disbelief (“una volontaria sospensione dell’incredulità”). Tra autore e lettore si istituisce un patto: il primo racconta una vicenda non realistica e il secondo, al fine di mantenere le esigenze estetiche proprie della letteratura, accetta di credere in eventi o situazioni liminali (Esterhammer, McKusick 2002). Coleridge non è rimasto confinato alla letteratura: gli appassionati di musica heavy metal possono apprezzare il godibile rifacimento del gruppo inglese Iron Maiden della Rime. Bibliografia: Esterhammer, A (2002) “The Critic”, in Newlyn (ed. by) The Cambridge Companion to Coleridge: Cambridge, Cambridge University Press: 142-156. Fulford, T (2002) “Slavery and superstition in the supernatural poems”, in Newlyn (ed. by) The Cambridge Companion to Coleridge: Cambridge, Cambridge University Press: 45-59. McKusick, J (2002) “Symbol”, in Newlyn (ed. by) The Cambridge Companion to Coleridge: Cambridge, Cambridge University Press: 217-231. Modiano, R (1985) Coleridge and the Concept of Nature: London, Macmillan. Newlyn, L (2002)(ed. by) The Cambridge Companion to Coleridge: Cambridge, Cambridge University Press. Immagini tratte da: Samuel Taylor Coleridge, Public Domain, Wikipedia inglese, voce Samuel Taylor Coleridge. http://labussoladoro.forumfree.it/?t=60470115 |
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