Può sembrare paradossale definire contemporaneo un filosofo vissuto nella Roma antica, ma la lezione morale e umana di Lucio Anneo Seneca (4 a.C.- 65 d.C.) è ancora viva e, soprattutto, validissima per il nostro 2017.
Nato a Cordoba, Seneca divenne precettore del controverso Nerone (dal quale fu costretto al suicidio). Egli rappresenta uno dei più importanti esponenti di quella scuola filosofica che risponde al nome di stoicismo. Esso ha origine in Grecia e prende il nome dalla Stoà Poikíle, il portico dipinto in cui si svolgevano le lezioni. Lo stoicismo si fonda sulla forza d’animo, sul dominio delle passioni e sull’accettazione delle cose (risuonano le parole di Cartesio del Discorso sul metodo, quando invita a dominare se stessi piuttosto che cambiare il corso del mondo). Un altro aspetto essenziale dello stoicismo senecano è l’esame di coscienza. Oggidì, quando si fa riferimento a questa pratica, il pensiero corre alla confessione e all’assoluzione sacerdotale, ma in realtà il filosofo iberico pensava a tutt’altro. Egli infatti scrive: secedere et conscientia esse contentum Ritirati in te stesso e sii contento della tua coscienza (traduzione dell’autore). La pratica confessionale non è mediata da nessuno, ma il soggetto è solo con se stesso e con la sua coscienza nella solitudine della propria stanza prima di andare a letto. L’opera chiave nella produzione del filosofo di Cordoba è rappresentata dalle Epistulae morales ad Lucilium (62-65, “Epistole morali a Lucilio”). Si tratta di 124 lettere, divise in 20 libri dedicate ad argomenti vari, rivolte all’amico Lucilio; tuttavia mi piace pensare che Lucilio sia ognuno di noi a cui il maestro Seneca si rivolge dandoci consigli e indicandoci modi per affrontare il mondo. Il modo migliore per poter affrontare questi temi è il formato della lettera; attraverso la struttura epistolare l’autore riesce a impartire direttamente la lezione o la morale al suo allievo e riesce anche a farlo riflettere su ciò che ha appena letto. Fondamentale risulta essere l’invito senecano a vivere appieno la vita: Non ut diu vivamus curandum est, sed ut satis; nam ut diu vivas fato opus est, ut satis, animo. Longa est vita si plena est; impletur autem cum animus sibi bonum suum reddidit et ad se potestatem sui transtulit. Non si deve cercare di vivere a lungo, ma di vivere nel modo migliore; infatti è il destino che stabilisce la durata della vita, dalla nostra anima vivere quanto basta. La vita è degna quando è piena; essa si è realizzata quando l’anima ha restituito a sé il bene e ha imparato come dominarsi (traduzione dell’autore). Ci sono spie filosofiche essenziali: Seneca insiste sulla qualità della vita, in quanto essa non deve essere necessariamente lunga, ma deve essere ben vissuta (una riflessione essenziale al giorno d’oggi, dove l’allungamento della vita sembra essere un requisito essenziale). È fondamentale, da stoico, imparare a dominare le passioni e se stessi. Questi sono gli ingredienti per una vita degna e perfetta
Il filosofo latino è qualcosa di più di un semplice dispensatore di aforismi o citazioni buone per ogni foto sui social; mi piace concludere queste considerazioni con una delle riflessioni più belle e più sentite del pensatore ispanico:
Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Non è vero che abbiamo poco tempo, ma la verità è che ne perdiamo molto. Immagini tratte da: https://i0.wp.com/www.traditionalstoicism.com/wp-content/uploads/2016/02/The-Piety-of-Seneca.png?fit=560%2C315 https://www.liberliber.it/online/autori/autori-s/lucius-annaeus-seneca/ https://www.amazon.it/Lettere-morali-Lucilio-Anneo-Seneca/dp/8804569905
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Pantera e Aixi due figure di donne forti raccontate con la maestria della penna di Benni.
"Quanti anni aveva?
Venti o trenta, non importa si è regine a qualsiasi età."
Qualcuno sicuramente ha detto e dirà che due bei racconti non bastano a fare un libro, ma a volte la potenza narrativa si condensa in poche righe, cento pagine circa possono essere più che sufficienti: nessuno lo dimostra meglio di Stefano Benni con il suo Pantera. Il libro, edito da Feltrinelli nel 2014, si compone proprio di due racconti, il primo che dà il titolo al libro, Pantera appunto, e il secondo, che riprende anche questa volta il nome della protagonista Aixi (“si scrive con la «x» ma si pronuncia Aiji, con la «j» di Juliette o di jambes”).
Questa volta Benni sceglie due protagoniste femminili. Pantera è una donna bella e misteriosa, sempre vestita completamente di nero (“Unico colore acceso in quella ben studiata e affascinante tenebra, il rossetto carminio della bocca”); una Dea della stecca in un mondo di soli uomini, quello della fumosa e sotterranea sala da biliardo “L’Accademia dei Tre Principi”. Aixi invece è una bambina innamorata del mare, che dopo essere stata abbandonata dalla madre, vive e si occupa da sola del padre, malato terminale di cancro. Anche l’ambientazione è sicuramente diversa: chiusa, buia e nebulosa la prima, aperta e luminosa la seconda. Ma allora quali elementi hanno permesso di racchiudere all’interno di un unico libro due racconti apparentemente così differenti? Ebbene, seppur diverse, le due protagoniste sono accumunate da un passato difficile (meno chiaro quello di Pantera, non troppo approfondito, ma più definito quello di Aixi) ma anche dalla volontà di trovare una propria dimensione e da una forza interiore che le spinge ad andare avanti, nonostante tutto e contro tutti.
Per tutto il libro lo stile dell’autore è inconfondibile: tra il fantastico e l’onirico ci trasporta in mondi che, forse questa volta più delle altre, sono maggiormente vicini alla realtà piuttosto che alle fiabe che iniziano con “c’era una volta”. Con una dolcezza malinconica Benni si fa portavoce di una femminilità in lotta in un mondo difficile, ostile, dove anche il barlume della più lieve speranza sempre destinato a non rimanere acceso per sempre.
"Ma come mi hanno insegnato, ci sono partite che si giocano una volta sola, e te ne accorgi soltanto quando si spengono le luci."
Un’ultima nota di merito va sicuramente alle illustrazioni in bianco e nero di Luca Ralli che hanno il pregio di trasformare in immagine il mondo che Stefano Benni ha creato con penna, inchiostro e fantasia.
Immagini tratte da:
https://www.ibs.it/pantera-libro-stefano-benni-luca-ralli/e/9788807030734 http://www.tecalibri.info/B/BENNI_pantera.htm Potrebbe interessarti anche:
Max Dessoir, importante teorico dell'estetica, dedica la propria opera, in primo luogo, alla psicologia e, in particolare, all'estetica, nel cui campo, e con la parentesi del nazismo, esercitò un grande influsso fino alla morte, avvenuta nel 1947. In Estetica e scienza generale dell'arte, pubblicata nel 1906, Dessoir raccoglie ed espone con straordinaria chiarezza numerosi materiali storici e artistici propri all'estetica europea dell'ottocento, aprendoli a nuove prospettive. Max Dessoir, a differenza di altri filosofi (Bash, Croce, Schlegel, Rosenkratz), che ponevano al vertice il bello e il sublime, ritiene che il bello non può più essere l'unico e indiscusso valore estetico. La bellezza, che da sola non può più caratterizzare il campo dell'arte, che include nella propria sfera una molteplicità di categorie, viene messa in discussione e al brutto è riconosciuto un significato estetico. Il brutto, a poco a poco, raggiunge una propria autonomia e, se l'arte non può più definirsi “bella”, il brutto non può essere definito come “inestetico”.
Con Dessoir, pertanto, avviene una violenta rottura delle norme di gradevolezza: quel legame indissolubile tra la rappresentazione del bello e il piacere che ne deriva viene sostituito dal godimento estetico per ciò che è inestetico. Se nell'illuminismo si ricerca «il bello (che) è forma perfetta di un mondo che non è conoscibile, perché per conoscerlo occorrerebbe una conoscenza di tipo superiore», tanto da essere il canone normativo (il bello è qualcosa che deve ispirare sensazioni estetiche piacevoli, gradevoli, e per far ciò deve nascere dalla perfezione delle forme, dalla loro armonia, regolarità, equilibrio), a partire da Kant questo valore universale viene messo in crisi.
Il sublime, sentimento misto di sgomento e di piacere, determinato da una bellezza incommensurabile (grandi sconvolgimenti, fenomeni naturali che suscitano nell’uomo il senso della sua fragilità e finitezza), si traduce spesso, nell'arte romantica, nella rappresentazione di rovine, che ispirano la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall’uomo, dando allo spettatore l'apprensione del tempo che passa. L'estetica, pertanto, si rivela come lo studio di una serie di sensazioni molto più vaste e composite di quelle che riguardano il mondo dell'artistico. Introspezione, soggettivismo, rivalutazione dei canoni estetici tradizionali finiscono per portare, dalla prima metà dell'800, a un mondo che andrà riconsiderato nella sua specificità come un momento di incontro, di interessi ed esperienze diverse, che riguardano sia gli aspetti produttivi dell'opera d'arte sia i suoi lati culturali e sociali. Fonti M.Dessoir, Estetica e scienza generale dell'arte. I concetti fondamentali Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus., Fratelli Bocca editori, Roma-Milano, 1954
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Barbey D’Aurevilly (1808-1889) è uno dei più significativi esponenti del romanticismo francese, nella cui opera si fondono la devozione per il dogma cattolico romano (molti dei suoi personaggi sono membri del clero) e l’interesse per il diabolico e il soprannaturale.
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Nato in Normandia, una delle regioni più conservatrici e legittimiste, la sua gioventù è inizialmente segnata da un profondo ateismo e da un atteggiamento libertino. La summa di questa prima fase è rappresentata dal saggio Del dandysmo e di George Brummell (1845). È in quest’opera che lo scrittore francese descrive con dovizia di particolari la figura di Beau “George” Brummell, il prototipo del perfetto dandy, figura che influenzerà la letteratura decadente e autori come Wilde e D’Annunzio
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Dopo questa prima fase “libertina”, Barbey si riavvicina al cattolicesimo romano, ispirato anche da una delle figure più reazionarie della cultura francese ottocentesca, Joseph De Maistre, il quale influenzerà marcatamente la sua opera letteraria, tantoché è possibile parlare di romanzo cattolico. Le sue storie sono contraddistinte, come ho già detto, da membri del clero cattolico romano, i quali sono impenitenti peccatori o personaggi dal passato poco chiaro. L’arte romanzesca dell’autore d’oltralpe è confrontabile con quella di Walter Scott: entrambi gli autori sono maestri del romanzo storico, ambientati tra la Scozia e la Normandia tra Sei e Settecento. Entrambi gli autori si contraddistinguono inoltre per il ricorso al dialetto (nei romanzi scottiani l’utilizzo delloscozzese è una marca onnipresente, così come nei romanzi di Barbey è una caratteristica ricorrente la presenza del dialetto normanno).
Gli altri temi ricorrenti in Barbey sono il diabolico e il soprannaturale i quali, assieme alla religione, appaiono in uno dei suoi romanzi più noti e significativi, La stregata (1852-1854). Figura centrale dell’intreccio è l’abate Jéhoël De La Croix-Jugan, il quale tenta il suicidio dopo il fallimento della causa rivoluzionaria che aveva appoggiato. Tuttavia, egli sopravvive al tentativo di togliersi la vita e anni dopo riappare come sacerdote, sconvolgendo la vita della giovane Jeanne La Hardouey, la quale si sente attratta dal religioso e sarà misteriosamente trovata morta di lì a poco. Il romanzo sembra concludersi con la morte, durante la messa, dell’abate a opera del marito della giovane, ma tuttavia Barbey decide di abbandonare una trama realistica per una fortemente soprannaturale. L’abate è infatti descritto come un uomo misterioso e ombroso, un personaggio byroniano a cui non mancano tratti diabolici. Non a caso è la stessa Jeanne a osservare un’inquietante rassomiglianza a Satana:
« A-t-il encore cette puissance diabolique qu’on crut longtemps accordée par l’enfer à ce prêtre glacé ? » “Questo prete di ghiaccio possiede ancora questo potere diabolico che si credeva gli fosse stato concesso da immemore tempo dall’inferno?” (traduzione dell’autore) La giovane Jeanne è stregata dall’abate (cede alla tentazione diabolica) e si assomma al misterioso personaggio anche la presenza di alcuni gitani, che lanciano una maledizione sulla donna, la quale sembra inquietantemente avverarsi nel momento in cui ella viene trovata morta annegata nel lavatoio della cittadina. Il romanzo si conclude sì con la morte dell’abate durante la messa, ma, al tempo stesso, non smette di circolare la voce che lo spettro dell’uomo infesti la chiesa, tanto che gli stessi abitanti del posto riferiscono di averne visto lo spettro di notte.
Questa è l’arte di Barbey: accanto all’amore per la propria regione natia, bisogna aggiungere la devozione alla fede cattolica romana e la passione per il soprannaturale e il diabolico, una caratteristica essenziale della sua opera.
Immagine tratte da: http://www.histoirenormande.fr/rien-ny-manquait-en-melancolie-daurevilly-dans-le-desert-normand http://avalonauthors.blogspot.it/2011/09/regency-mens-clothing-part-1.html http://biografieonline.it/biografia-walter-scott https://www.amazon.fr/LEnsorcelée-Jules-Barbey-dAurevilly/dp/2070369102
By David Foster Wallace
Shipping out – on the (nearly lethal) conforts of a luxury cruise era il titolo originale del breve saggio che scrisse David Foster Wallace a proposito di una crociera nei Caraibi; lo scrittore fu infatti invitato dalla rivista americana Harper’s Magazine a partecipare a questo viaggio e poi a scriverne una sorta di diario, reportage delle sue esperienze e riflessioni. Il saggio uscì sulla rivista nel 1996 e fu poi pubblicato nel 1997 con il titolo A Supposedly Fun Thing I'll Never Do Again in una raccolta di testi dell’autore. David Forster Wallace è stata sicuramente una figura emblematica nella letteratura contemporanea: definito dal New York Times un "Émile Zola post-millennio" e ancora "la mente migliore della sua generazione", è stato spesso accostato a scrittori del calibro di De Lillo, Nabokov e Borges. Il suo secondo romanzo Infinite Jest è entrato nella classifica del Time come uno dei “cento migliori romanzi di lingua inglese dal 1923 al 2006”. Una cosa divertente che non farò mai più, questo il titolo del breve scritto, edito in Italia da Minimum Fax, si presenta fin dall’inizio con alcune delle caratteristiche tipiche della scrittura di Wallace. Primo tra tutte, il massiccio uso di note a piè di pagina, spesso molto lunghe, proseguono anche per più di una pagina, racchiudendo al loro interno aneddoti e storie secondarie o correlate. Secondo fondamentale tratto distintivo è l’uso di un tono umoristico, ironico; l’umorismo di Wallace è però un umorismo che lascia sempre un po’ di amaro in bocca, che non nasconde né occulta sia la critica che spesso lo scrittore rivolge alla società né la sua personale depressione. Ci troviamo quindi in fila, pronti all’imbarco insieme a un Wallace non proprio entusiasta come lui stesso tiene a precisare “dall’11 al 18 marzo 1995 io, volontariamente e dietro compenso, mi sono sottoposto alla crociera «7 Notti ai Caraibi»”. Inizia così un viaggio che si snoda dal racconto di esperienze e sensazioni estremamente soggettive e personali a riflessioni sull’industria delle navi da crociera, passando per un’attenta analisi sociale delle varie persone che si possono incontrare a bordo. Leggiamo insieme a Wallace la brochure che non “consiste tanto nell’invito a sognare quanto nella vera e propria evocazione del sogno”, un sogno che in modo autoritario e pretenzioso non vuole cercare di farci divertire e rilassare, ma che lo farà di sicuro perché non potrà essere altrimenti. Saliamo quindi a bordo di questo colosso che si muove sull’acqua, un’enorme macchina del divertimento, che realmente è pronto e organizzato per farci sentire viziati, viziati come lo potrebbero essere solo dei bambini. E se da un lato seguiamo i buffi tentativi di Wallace di sorprendere la cameriera-fantasma Petra mentre riordina la sua cabina, o ridiamo dell’acuta analisi che ci fa dei suoi compagni di tavolo o di altri nadiriti (nome degli altri passeggeri che sono con lui sulla nave, che si chiama appunto Nadir), dall’altro lato lo stesso occhio clinico mette in luce tutte le possibili controindicazioni della crociera: il sistema di gerarchie che vige tra l’equipaggio, dove chi occupa le posizioni più alte esercita un vero e proprio terrore sui subordinati, l’obbligo per questi di dotarsi sempre di un “Sorriso Professionale” quando “l’equipaggio è costretto a lavorare a ritmi dickensiani, ritmi troppo feroci per permettere di essere sinceramente cordiali”. Il libro di Wallace è una satira ironica e brillante del mercato del turismo di massa, del turista medio che non può mai permettersi di ammettere che non vuole o vuole fare qualcosa semplicemente per il gusto di farlo, ma che deve sempre ricorrere a una scusa. Ma è anche molto altro: quella di Wallace è anche la voce a tratti disperata (parola spesso usata dallo scrittore) di un uomo che immerso in una collettività, sotto l’imperativo categorico del divertimento, non riesce a sfuggire dalla sua solitudine e dalle sue paure. Anzi, spesso questa condizione è soltanto un motivo di maggiore inadeguatezza ed esclusione. “In queste crociere extralusso di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir – e soprattutto la notte, quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore di allegria cessavano – io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente.” Un libro da leggere tutto d’un fiato, apprezzando lo stile originale e impeccabile di un autore che ha saputo, con un’apparentemente banale reportage di vacanza, dipingere le fragilità della condizione umana nella società moderna. Foto tratte da: http://www.anobii.com/books/Una_cosa_divertente_che_non_far%C3%B2_mai_pi%C3%B9/9788875214012/011fc47c0965410fc9 http://linfernale.altervista.org/tag/david-foster-wallace/ Potrebbe interessarti anche:
Per secoli le colonne d’Ercole hanno rappresentato non solo un limite geografico, il termine estremo e invalicabile del mondo, ma anche un limite stesso all’umana conoscenza.
Sé in Dante né l’amore per la moglie né quello per il resto della famiglia riuscirono a vincere il suo ardente desiderio di conoscenza, nell'Ulisse di Tennyson il protagonista torna a casa, ma in sterili rupi. Colui che ha vissuto ogni tipo di avventura finisce per sentirsi un leone in gabbia, incapace di accettare questa nuova condizione di inattività, destinato come un oggetto ad arrugginirsi. Il polytropos, l’eroe dai mille volti, contrassegna e caratterizza invece l'Odisseo omerico: guerriero coraggioso, imperturbabile di fronte alla morte, astuto, mosso dal desiderio di conoscere, lontano dalla sua terra, dalla casa, da Penelope e da Telemaco. Non plus ultra, le parole che Ercole aveva inciso sulle Colonne d'Ercole, monito a non andare oltre, diventano per l'eroe omerico una sfida perché, spinto da inestinguibile curiosità, si spinge oltre le colonne d'Ercole” “per seguir virtude e conoscenza”, pur sapendo di non essere assistito dalla Grazia. Ulisse non è un eroe romantico, bensì colui che, come in Luciano, sfidando i limiti del sapere imposti da Dio attraverso il folle volo, viene poi punito e travolto da un turbine. Eroe goethiano e medievale allo stesso tempo (peccato d'orgoglio), simbolo dell'uomo moderno per il desiderio di conoscenza. Ecco dunque l'Ulisse dannunziano nei panni del superuomo, di colui che si distingue per indomabile energia alla conquista dell’Universo.
All'apparir del vero tu misera cadesti! Le avventure dell’Ulisse omerico, secondo Pascoli, erano frutto delle illusioni giovanili: al loro svanire, la realtà appare in tutta la sua amarezza. Il poeta toscano immagina Ulisse vecchio, stanco, sofferente, nella sua terra natia, abbandonato allo scorrere del tempo, ripercorre mentalmente le sue imprese e le sue mirabolanti avventure per mare.
A differenza di Saba, che vede un Ulisse stanco e consapevole della sua vecchiaia, ma non per questo desideroso di veleggiare metaforicamente fra scogli insidiosi piuttosto che restare tra le luci rassicuranti del porto, Pascoli rappresenta la fine delle certezze, chiaro riferimento all'inquietudine che attraversa l'Europa alla fine del secolo. Nella letteratura del Novecento la figura di Ulisse diventa sempre più il simbolo dell’inquietudine morale e filosofica dell’uomo contemporaneo. James Joyce spoglia gli eroi omerici delle loro virtù e, come Aretino, propone degli antieroi. Non più eroe coraggioso, incarnazione di spirito e arguzia, ma personaggio mediocre, debole, insicuro, immagine e specchio deformante dell'uomo contemporaneo.
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Maggio 2023
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