di Beatrice Gambogi Alessia Mastropardi è una giovane attrice all’apice della carriera. Si trova nello studio del programma televisivo della presentatrice Sara Benier, che la sta intervistando. Il programma è in diretta.
SARA … E quindi a quel punto hai deciso che avresti voluto fare l’attrice. ALESSIA Esatto, è stato quello il momento. E con tanta fatica, sacrifici e anche un pizzico di fortuna (sorride) ce l’ho fatta. SARA I progetti futuri di Alessia Mastropardi quindi quali sono? ALESSIA La prossima settimana sarò già sul set per una fiction che andrà in onda su Canale 5, non sono la protagonista, ma di più non posso dire. Bocche cucite! SARA Alessia, un’ultima domanda: (si avvicina col corpo ad Alessia, a cercare confidenza) è vero che sul set del film è nato qualcosa tra te e Lucio Mariani? ALESSIA (visibilmente in difficoltà, ride forzatamente) Però… avevamo detto “niente domande personali”… SARA (ficcante) Beh, ma questo riguarda il lavoro, no? I tuoi rapporti con gli attori che lavorano con te sono una questione di lavoro! ALESSIA Sì, ma… io… comunque la considero una domanda personale… e penso che nelle interviste promozionali… cioè, io sono venuta qui a promuovere il film, non voglio… non mi piace proprio parlare delle cose mie, capito? Parliamo del film, della mia carriera, ma non di questioni… che poi non interessano a nessuno, dai (sorride timidamente alla telecamera) SARA Va bene, va bene, come vuoi tu. A questo punto, se non vuoi rispondere non ci resta che salutar… ALESSIA (nervosa, interrompendola ad alta voce) No! Non è nato niente tra di noi. Contenta? SARA Chiudiamo qui prima che ci siano troppe scintille (ride). Alessia, io ti ringrazio per essere stata nostra ospite, tanti auguri per la tua carriera e per la tua vita, e mi raccomando: andate tutti a vedere “Ci ritrovammo sotto le stelle”! Adesso linea al telegiornale. La diretta è finita, Sara si alza per sgranchirsi le gambe e si controlla una calza. Alessia le si avvicina. ALESSIA La prossima volta mi devi pagare parecchio di più se vuoi che assecondi le tue porcate da salottino del pettegolezzo, sennò col cazzo che torno! Pezzo di stronza! Immagini tratte da pexels
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di Agnese Macchi Jacques Prévert fu un poeta e sceneggiatore francese, nacque nel 1900 e la sua prima raccolta risale al 1946. Nel panorama letterario del tempo, Prévert acquisisce uno stile proprio e personale, copre una posizione antiaccademica, provocatoria e anticonformista. Oggetto delle sue poesie è la strada, con i suoi abitanti, le loro condizioni, la loro distanza dai gruppi sociali modello. Prévert mette in luce l'ipocrisia su cui è fondato il sistema, quel feroce tritatutto che è il conformismo. I soggetti delle poesie, sono inseriti in contesti che oggi potremmo definire street, underground, anche per questo Prévert è un pezzo unico nella vetrina letteraria del ‘900. Si parla di una splendida giornata che un operaio vende al datore di lavoro in cambio di soldi, si parla di un vecchio uomo mezzo che dorme sui giornali così d’inverno come in estate. Ci sono poi quei ragazzi che si baciano di notte per la strada, e l'invidia dei passanti incapaci di amare; e quelle donne bellissime che vivono nella Parigi notturna. Vengono abbattuti i muri tra i vari “livelli sociali", quell'odio reciproco messo in piedi ad arte da un una forza maggiore. Si predica l'amore come unico antidoto a quel veleno di cui, inconsapevolmente, gli uomini si nutrono ogni giorno. C'è un atteggiamento provocatorio e vólto alla libertà, intesa anche come rottura con i canoni poetici, espresso attraverso il rifiuto dell'uso della punteggiatura. Prévert si dedica anche a illustrare l'immensa illusione che avvolge il sistema e tutta l’umanità, quell'ipocrisia di fondo che ormai fa da filtro alle nostre pupille, è lì, ben piazzata già dalla nascita, e in pochi nel corso della vita si accorgono di essa. Dedica una poesia in particolare, a un paradosso interessante, il testo è “Tante foreste" e merita di essere riportato sotto: Tante foreste strappate alla terra e massacrate distrutte rotativizzate Tante foreste sacrificate per la pasta da carta di miliardi di giornali che attirano annualmente l'attenzione dei lettori sui pericoli del disboscamento delle selve e delle foreste. Poche righe, senza nessuna difficoltà comprensiva, ma che hanno bisogno di essere inglobate, metabolizzate un pezzetto per volta; perché l'animo di chi ha fiducia nelle proprie fonti quotidiane (tg, quotidiani, internet) verrà subito turbato, scosso, da queste parole. L'animo di chi si affida e si identifica in un gruppo, di chi mette a tacere il proprio dubbio colmandolo con la certezza altrui, l'animo che si spaventa quando inizia a pensare da solo e allora non lo fa, troverà assurda e improbabile la riflessione di Prévert, paradossale. Per comprendere il SENSO del messaggio cui Prévert dá voce, è necessario addentrarsi nei cavilli della politica e nelle tecniche della comunicazione, per quanto possibile; smontare per un attimo il processo abituale, secondo il quale dalla mano dei media si estrae quella che si pensa sia verità, e dalla quale deriva il nostro atteggiamento alla realtà. Occorre soffermarsi e riflettere autonomamente, per comprendere che spesso quella verità autorizzata, ufficializzata, legittimata e conseguentemente propagata, non coincide con la realtà. Ciò comporta che i più, si accontentino di immagazzinare blocchi impacchettati e infiocchettati da altri, senza scartarli e scoprire cosa si trovi all'interno della scatola; ne consegue una minoranza, ritenuta inferiore in quanto tale, che invece elabora, scarta, scopre e cambia idea, e inevitabilmente crea nuove e diverse verità. Verità incongruenti e contrastanti con quella ufficializzata, i cui portatori vengono messi a tacere con la forza, spinti al limite della società, al silenzio. Prévert trova il coraggio, in questa poesia, di colpire e provocare il sistema, trova il coraggio di dare voce all'immenso inganno, l'immensa illusione nella quale viviamo convinti di sapere, senza mai esserne usciti all'esterno. Una poesia rivoluzionaria, ribelle, polemica, provocatoria, che invita a riflettere e ad uscire da questo grande macchinario sporco, corrotto, malato, cosparso d'odio, anziché d'olio. Prévert offre lo spunto per iniziare a diffidare, a cercare la verità altrove, più a fondo, un invito ad abbandonare l'autostrada principale ed impiegare i piccoli sentieri sterrati, che portano a quegli angoli di mondo che non vengono mai inquadrati, nei quali si scorge ancora un barlume di realtà. Oggi, che nelle piazze, nelle strade, e perfino nelle case, siamo schierati gli uni contro gli altri, nutriti d'odio più che mai, si invitano gli anticonformisti, i ribelli, i pensatori, i filosofi, tutti gli artisti, a non smettere mai di combattere non per quello in cui credono, ma per quello che vedono. Oggi, un pensiero agli alberi “strappati alla terra", tagliati, bruciati dagli incendi, usati e poi sprecati; un applauso a Prévert che provocando ha provocato reazioni. Oggi, e per sempre, diamo voce a ciò che è messo a tacere.
di Lorenzo Vanni Questa è una letteratura che osa. Lo fa nelle forme sperimentali che adotta e prendono l’aspetto di un dialogo intorno ad un medesimo tema; inquadriamo un anno nella storia, il 1770, e intorno al carico di aspettative e di contraddizioni legate al suo essere un’epoca di transizione costruiamo un coro di voci che, come in un dramma greco, circondano l’azione principale definendola ed esprimendo un giudizio al riguardo.
L’ambientazione del romanzo “Il morbo” (pubblicato da Graphofeel) di Stefano Valente, laureato in Glottologia e lusitanista specializzato in traduzione dal portoghese, è quella di una piccola città (o forse un semplice villaggio) nel nord Europa chiamata Lille Havn, con echi scandinavi, forse danesi. A Lille Havn si verifica un fatto insolito: colpita dalla peste polmonare, la popolazione ha un’esperienza comune nei deliri che precedono la morte vedendo un vascello al largo della città. Sul vascello si trova una figura molto simile al Cristo dell’immaginario comune che chiede al moribondo di forgiare i chiodi con cui sarà fissato alla Sua croce. La visione è comune a tutti in quella città e la voce si diffonde suscitando la curiosità di molti: tra questi c’è anche un certo Thorvaldsen, che redige una cronaca puntuale di quei fatti costituendo la fonte principale da cui attinge il narratore per raccontare quanto è accaduto. Lille Havn è il fulcro intorno a cui ruota l’intero romanzo. Potremmo idealmente rappresentare il romanzo come un vortice, con un centro immobile (il fulcro, appunto) mentre tutto il resto ruota. Il centro è rappresentato da Lille Havn che vive di una propria narrazione cristologica e una malattia affrontata secondo una prospettiva teleologica come parte di un piano divino; la parte rotante del vortice è costituita dall’andare e venire di voci esterne a Lille Havn che parlano dell’epoca contemporanea per poi tornare sempre lì a Lille Havn cercando di definire quell’evento razionalmente inspiegabile. Come dicevamo, l’anno è il 1770 e siamo in pieno Illuminismo. L’Europa abbraccia interamente lo spirito che vuole la Ragione al di sopra di tutto; c’è stato Diderot con la redazione dell’Encyclopédie e c’è stato anche Voltaire. L’Europa è pronta a mettersi alle spalle l’oscurantismo religioso, pronta a superare il pregiudizio e la superstizione attraverso l’applicazione rigorosa della ragione. Lille Havn inizialmente è un laboratorio dove poter osservare che cosa è in grado di fare la Ragione applicata correttamente: la convinzione è che la città sia uno degli ultimi resti di una mentalità antica spazzata via dalla storia perciò l’opera da intraprendere è quella di riconvertirla in una come tante altre di quel secolo. L’opera, tentata inizialmente dal dottor Pauli, fallisce e la città viene sostanzialmente abbandonata a se stessa. Tuttavia, nei discorsi dei potenti e di persone comuni, quel nome, Lille Havn, rimane a indicare qualcosa di misterioso e incomprensibile e così tutti continuano a parlarne. Ogni esposizione è di fatto una variazione sul tema del rapporto tra ragione e superstizione, tra scienza e fede. Al di là di quanto la cultura ci può dire, non esiste un’opposizione netta tra le due a meno che il proprio obiettivo non sia quello di darsi una struttura fondata sull’ordine; se si vuole invece rispecchiare quel che la natura ci dice, dobbiamo accettare che esiste una parte incomprensibile di noi stessi e che fa leva sul nostro bisogno di protezione come esseri umani. La Ragione, come la fede, è un’ottima àncora di salvezza. Che cosa sappiamo quindi di noi stessi? Poco, se non quel che preferiamo credere. Sappiamo che siamo capaci di grandi cose, realizzate per mezzo della ragione; sappiamo allo stesso modo che la parte inconoscibile di noi stessi ci fa tornare a essere animali spaventati in una grotta. L’Illuminismo ha messo tutto questo da parte, fingendo che non esistesse e quel che la Ragione non poteva spiegare veniva considerato di scarso interesse. Ovviamente Lille Havn diventerà una città illuminista come tante altre, rimane da domandarsi se quanto vissuto nella parte finale del libro da Dona Beatriz de Bragança corrispondesse alla verità o fosse parte di un delirio. Ma questo è un dubbio che per l’economia del romanzo deve rimanere, probabilmente perché certe domande non possono che rimanere inevase. Il dibattito tra ragione e superstizione continua. Foto di copertina gentilmente concessa dalla casa editrice |
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Maggio 2023
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