Quando nel 1954 William Golding scrisse Lord of the Flies nessuno si sarebbe mai aspettato un’opera così dirompente a livello epistemico e sociale. Innanzitutto è fondamentale evidenziare l’intertestualità biblica: “il signore delle mosche” è la traduzione de demone ebraico Belzebù, che occorre sia in pagine vetero che neotestamentarie. Forte è dunque la componente religiosa all’interno del capolavoro dello scrittore inglese (Humberg 2010: 35).
Altrettanto dirompente è il ribaltamento che l’autore opera del pensiero di uno più grandi esponenti dell’Illuminismo europeo, Jean-Jacques Rousseau.
Sintetizza il filosofo ginevrino che l’infanzia è l’unica età dell’uomo al riparo dalla corruzione della società: ma siamo sicuri che questa asserzione apodittica sia valida anche nel romanzo di Golding? La fabula smentisce le nostre aspettative: i bambini che si ritrovano su un’isola deserta sono tutt’altro che un’immagine di pace e serenità in quanto essi diventano preda dei peggiori istinti, facendo sì che un’oasi di tranquillità e di fuga da una guerra nucleare diventi il regno della morte e della sofferenza.
Il riferimento filosofico più prossimo al testo di Golding è senza ombra di dubbio Thomas Hobbes: a giudizio del filosofo inglese la vita è una continua guerra di tutti contro tutti. L’individuo è dunque allo stato di natura malvagio e cattivo e non può vivere senza un’autorità che lo controlli e lo regoli (Newey 2008: 18).
Ulteriori considerazioni si assommano al romanzo: la natura umana descritta da Golding risente fortemente dell’influenza luterana e, in generale, protestante. La natura umana, da dopo il peccato adamitico, ha perso la sua originale integrità e non può far più niente per recuperare uno stato di natura inattingibile. In questo contesto, l’uomo è soltanto animato da istinti ferini e primordiali, che deve assolutamente reprimere e nascondere per poter vivere in società. Lo scrittore cornico stende un resoconto sull’uomo non dissimile da quello dello Stevenson di Jekyll and Hyde (1886): per poter esistere si deve reprimere il proprio essere, ma esso, come il perturbante freudiano, si libererà nel momento in cui il soggetto meno se lo aspetta (Saposnik 1971).
Un simile testo, che non può che configurarsi come un rifiuto di un’immagine consolidata e ossidata dell’infanzia e di un’intera tradizione filosofica costruita su di essa. L’iconoclasta Golding si era già pronunciato chiaramente sulla sua visione dell’umanità durante il periodo in cui aveva lavorato come insegnante: l’uomo produce il male come le api producono il miele. Come non sentirsi chiamati in causa di fronte a una simile asserzione?
Bibliografia:
Humberg, M-L (2010) Das Sozialverhalten in den Romanen William Goldings. Bern und Pieterlen: Peter-Lang-Verlagsgruppe. Newey, G (2008) Routledge Philosophy GuideBook To Hobbes and Leviathan. London: Routledge. Saposnik, IS (1971) “The Anatomy of Dr Jekyll and Mr Hyde”. Studies in English Literature 1500-1900 11(4), Nineteenth Century: 715-731.
Immagini tratte da:
https://www.amazon.co.uk/Lord-Flies-William-Golding/dp/0571191479 Jean-Jacques Rousseau, Pubblico Dominio, Wikipedia inglese, voce “Jean-Jacques Rousseau”. http://www.famousphilosophers.org/thomas-hobbes/ https://newrepublic.com/article/76959/william-golding-lord-of-the-flies
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Io conosco John Doe. È una faccia da schiaffi specializzata in entropia, che è solo uno modo elegante per dire: ammazzare un sacco di gente, rispettando l’ineluttabile data di morte che le Alte Sfere hanno fissato per loro. In un’epoca in cui tutto è business, anche il Creato decide di darsi all’imprenditoria per massimizzare i profitti; succede quindi che il normale svolgersi della vita viene burocratizzato e seguito passo passo da uno staff di esperti altamente qualificato. Perfino Morte (con la maiuscola, mica come quella di Saramago) ha appeso la falce al chiodo, delegando al suo braccio destro tutta l’organizzazione pratica dei decessi. Una carica di prestigio che, prima di John, era ricoperta nientemeno che da Martin Bormann, il segretario di Adolf Hitler. Ma tutte le cose belle prima o poi finiscono, e il signor Doe dovrà ben presto rinunciare alle donne avvenenti e alle cena eleganti presso il ristorante ai confini dell’universo, costretto a fuggire per l’America nel tentativo di farla letteralmente in barba a Morte (che è un nome proprio di persona, ricordiamolo). Non fatevi ingannare da quell’aria da fighetto, a metà strada tra il Tom Cruise di Vanilla Sky e il Brad Pitt di Ocean’s Eleven, né dagli abiti griffati o dalle macchine superaccessoriate. John, per usare le parole del suo amico Leonida, “è uno dei più grossi figli di puttana sulla piazza”. E, se lo dice uno spietato killer geneticamente modificato, c’è da fidarsi sulla parola. Ma cos’è John Doe?
E’ un interessante esperimento editoriale nato dall’ingegno di Roberto Recchioni e del compianto Lorenzo Bartoli, durato quasi un decennio. Ai tempi della prima pubblicazione (settembre 2002), ciò che colpiva in John Doe era la forte dissonanza tra forma e contenuto: si presentava infatti come il classico bonellide da 98 pagine, 16x21 centrimetri, tutte rigorosamente in bianco e nero. Ma in un mercato come quello del fumetto popolare italiano, dove erano (e sono tutt’ora) i generi, gli eroi inossidabili e le storie all’insegna dell’Avventura più sfrenata a far da padroni, la creatura di Recchioni e Bartoli spiccava per alcune innovazioni in termini di linguaggio narrativo fino ad allora abbastanza insolite per pubblicazioni di questo tipo. Prima di tutto, l’impostazione: John Doe riprende la suddivisione in stagioni tipica delle serie tv che proprio in quel periodo stavano iniziando ad affermarsi, trovando un nuovo modo di fidelizzare un pubblico sempre più vasto ed esigente. Il primo numero di John Doe può essere visto come un pilot, l’episodio pilota che presenta i personaggi principali e l’evento scatenante, l’impalcatura, il setting che caratterizzerà tutti i numeri successivi. Non che fino a quel momento fossero mancate le serie dalla forte continuity interna, e basterebbe citare quel capolavoro di Ken Parker per sfatare questo mito. Tuttavia, per stessa ammissione e volontà degli autori, ogni stagione di John Doe avrebbe dovuto possedere una propria compiutezza, con tanto di inizio, svolgimento e fine, per poi cambiare totalmente le carte in tavola in quella successiva: l’unico modo sicuro, per loro, di non fossilizzare una serie che trovava la propria ragione di essere proprio nel trascendere tutti i limiti del fumetto popolare.
Seconda cosa, il protagonista: in un panorama editoriale dominato dai vari Tex, Zagor e altri integerrimi paladini dell’ordine, John Doe si imponeva come la versione un po’ dandy del John Constantine di Jamie Delano. Da semplice essere umano, armato solo della propria faccia tosta e della propria astuzia, John Doe è infatti costretto ad affrontare minacce ben al di della sua portata: minacce contro cui l’uso della forza bruta è del tutto fuori discussione. Già Dylan Dog (cui comunque il Golden boy della fu casa editrice Eura deve molto, a partire dall’antropomorfizzazione delle entità esistenziali), con il suo successo dirompente, aveva legittimato un genere di antieroe abbastanza atipico per il panorama italiano, destinato a scontrarsi, spesso perdendo, contro l’ineluttabilità di un quotidiano percepito con orrore, nella sua brutale normalità. Se la creatura di Sclavi era insomma caratterizzata da un poetica romantica e per certi versi decadente, in cui è l’uomo a essere il peggior nemico di sé stesso, quello di John Doe è invece un universo fortemente deterministico dove ogni aspetto della vita umana è rigidamente programmato da entità trascendenti. Un’inesorabilità contro cui si oppone un uomo solo, mostrandole il dito medio.
Ultimo appunto: le storie. John Doe possiede una duplice anima che rispecchia molto l’indole artistica dei suoi creatori, con una narrazione post-moderna e citazionista nel caso di Recchioni, più lisergica e poetica per quanto riguarda Bartoli. Si tratta comunque di storie dove è la metatestualità, la ricerca di un linguaggio più simile alla narrazione televisiva e la volontà di non ricadere in uno svolgimento “di genere” a farla da padrone. Ma, in definitiva, di che parla John Doe? Di dei che sembrano uomini e di uomini che li prendono a calci nel culo; di mali sociali moderni filtrati dall’allegoria; dei miti che fanno gli uomini e degli uomini che fanno i miti, rivoltandoli come un calzino; della dialettica tra scrittore e lettore, ma anche tra creatore e personaggio creato; di amorie capaci di piegare il Tempo (notare anche qui la maiuscola) e di fregare la Morte; di uomini piccoli in balia del Tutto, ma che possiedono dentro di loro interi mondi; della vita, la morte, l’universo e tutto quanto. Fidatevi, io conosco John Doe, e i sei volumi della Bao (di cui due già pubblicati), che ristampano tutta la prima stagione, vale sicuramente la pena leggerli.
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Nella serie infinita dei numeri naturali, ne esistono alcuni particolari, dotati di un'aura magica che li rende speciali e unici: i numeri primi. Mattia e Alice, nella Solitudine dei numeri primi, sono due numeri vicini, separati da un solo numero pari, ma mai abbastanza da incontrarsi. Questa la condizione del numero primo e, apparentemente, dei due protagonisti: al centro del libro regna la solitudine, sempre presente nella loro vita, causata dalle conseguenze irreversibili delle loro sventure adolescenziali.
Se i numeri primi, divisibili solo per se stessi e per uno, se ne stanno in disparte abbandonati al loro stato di solitudine, esistono dei numeri, chiamati principi gemelli, che vivono in coppia ma che, per la strana logica dell'universo, sono divisi da un ostacolo insormontabile, il numero pari. Vicini, ma mai abbastanza da toccarsi, unici, e infiniti, perché nella serie infinita, continuando a contare, ci si imbatte sempre in due gemelli, distanti anni luce dagli altri, ma sempre stretti l'uno l'altro nella loro solitudine. Mattia e Alice arrivano a sfiorarsi, a superare quell'apparente Muro di Berlino dettato dai pregiudizi della società. In un mondo avverso, che vede in loro degli emarginati (basti pensare il disagio di Mattia al compleanno della compagna di classe «gli altri invitati erano sparpagliati a gruppetti nel soggiorno. La maggior parte dei maschi faceva ondeggiare la testa avanti e indietro a tempo, mentre le ragazze vagavano con lo sguardo per la stanza. Alcuni di loro tenevano in mano un bicchiere. In sei o sette ballavano sulle note di "A question of time". Mattia si domandò come facessero a sentirsi a loro agio, ad agitarsi in quel modo sotto gli occhi di tutti. Poi pensò che era la cosa più naturale del mondo e che proprio per questo lui non ne era capace»), Mattia e Alice sopravvivono ai pregiudizi della società. Il primo diventa, nonostante l'autolesionismo e il ricordo atroce della sorellina gemella abbandonata in un parco, professore affermato di matematica, la seconda, invece, inferma dopo un'esercitazione sciistica, riesce a dare un senso alla sua vita apparentemente diventando fotografa.
Alice e Mattia, sin dall'infanzia, stringono un'amicizia particolare: dopo essersi incontrati ad una festa, i due, nonostante decidano di svolgere la propria esistenza autonomamente, finiscono per cercarsi per tutta la vita. Quando sembra che tra i due ci sia una svolta, quel primo bacio che sembra sciogliere il ghiaccio tra i due, ecco il litigio, le prime incomprensioni, la scoperta di Alice della mania autolesionistica di Mattia e la decisione di quest'ultimo di partire per l'estero. Separati, ma uniti da un sottile filo conduttore, Mattia decide di proseguire quella carriera matematica che lo vedrà diventare un affermato professore, mentre Alice sceglie la strada della fotografia. Innamorata di Fabio, i due entrano in crisi da una parte per il ricordo di Mattia, vivido e impresso nella mente di Alice tormentata da quale sia il vero male del suo amico, dall'altra per la sua sterilità, causata dalla anoressia. Strade che si dividono, giardini che si biforcano, per usare una citazione di Borges, che finiscono in questo libro per ricongiungersi, almeno per un secondo. Nonostante la relazione con Nadia, Mattia non esita a ricercare Alice al giungere di sue notizie: i due, senza essersi visti per quasi vent'anni, si rivedono, scatta la scintilla, quel secondo bacio che sembra finalmente porre fine a questa tormentata amicizia, per giungere ad una nuova paralisi che vedrà Mattia separarsi da lei intraprendendo una vita fondata su regole matematiche e fisiche.
Mattia e Alice sono due numeri primi gemelli, due persone che, nella loro condizione di solitudine, si riconoscono dando vita da una parte ad un'affinità profonda, dall'altra, per la stessa natura del numero, non riescono a conciliare quella distanza incolmabile perché irrimediabilmente separati da un altro numero. La loro distanza non può essere colmata, perché categorica. I personaggi di Alice e Mattia sono dunque dei vincitori, o degli sconfitti? Indubbiamente, la loro non è una solitudine assoluta: la vicinanza e la comunione con altri numeri, che però non sono primi gemelli, è possibile. Se pensiamo al numero 3, per sua natura sarà più “vicino” al numero 4, tanto da toccarlo, nonostante il 5 gli sia radicalmente più affine. Proprio perché “diversi”, Mattia e Alice sono vittime non tanto delle loro sventure, ma del loro tentativo di sopravvivere ai pregiudizi della società, che impone determinate regole per evitare di essere un emarginato. Alice non è una vinta, anzi, da una parte trasforma la passione per la fotografia in un elemento di riscatto, riuscendo a tramutare il suo sogno nel cassetto in un mestiere remunerativo che le dà l'indipendenza dopo l'esperienza fallimentare con Fabio, dall'altra si vendica di Viola, “nemica” di infanzia che si faceva gioco delle sue debolezze, rovinandole il matrimonio e bruciando le foto del medesimo.
Mattia, forse, è l'unico apparentemente sconfitto: si rifugia nel suo mondo, fatto di numeri, frazioni e strane formule matematiche, consapevole, tuttavia, della sua scelta. Il bello di Mattia è che, in tutto il romanzo, rimane ancorato alla sua logica razionale, decidendo di non cambiare nemmeno di fronte all'amore per Alice.
Nel mondo reale, sono gemelli perfetti i DSA che, nonostante siano soggetti alle continue incomprensioni dei docenti e presi di mira dai compagni perché lenti, timorosi e balbuzienti hanno numerosi punti di forza (tra cui la forte vena creativa potendo vantare un maggiore sviluppo cognitivo in specifiche aree), capaci di capirsi e sostenersi tra loro. Lo sono pure quelle persone definite brutalmente “poco carine”, “cicciotelle”, “sfigate”, capaci, nell'arco della vita, di prendersi rivincite al cospetto di chi le aveva derise. I numeri primi, o meglio i numeri perfetti, sono tutte quelle persone neglected, che rimangono vittime, per un motivo o per l'altro, della società che vede in loro delle persone non indispensabili e per questo da buttare. Persone timide, silenziose, omosessuali, di colore, dawn, vittime di una società che, troppo spesso, non le comprende. Persone che, come Mattia e Alice, si distinguono dalla massa, e per questo giudicati diversi agli occhi della società. Ma mentre Mattia e Alice restano legati indissolubilmente da una condizione profonda e radicata che lega inscindibilmente un primo gemello a un altro e che, automaticamente, li tiene di fatto lontani quel tanto che basta perché non si incontrino davvero, questi ultimi sono legati da un unico obiettivo, essere parte integrante della società, ed essere riconosciuti in essa.
Bibliografia
P.Giordano, La Solitudine dei Numeri Primi
Immagini tratte da:
www.pinterest.com www.ondacinema.it cinesound.altervista.org
Micol Arianna Beltramini e Antonio Crepax ci raccontano chi è Valentina.
Sabato 17 e domenica 18 settembre Firenze ha ospitato il Wired Next Fest, manifestazione dedicata alla rivista Wired. Un fitto calendario di eventi, conferenze, workshop, concerti ha animato il weekend fiorentino, ben accolto dai visitatori grazie alla partecipazione totalmente gratuita e alla varietà dei temi affrontati.
Nella cornice della Sala d’Armi di Palazzo Vecchio si è tenuto sabato alle ore 15 un intervento dal titolo: Un sogno chiamato Valentina. Speaker della conferenza la scrittrice ed editor Micol Arianna Beltramini e Antonio Crepax, figlio di Guido e Presidente dell’Archivio Crepax. In occasione della recente uscita del volume Viva Valentina!, edito da BD Edizioni, Micol Beltramini e Antonio Crepax hanno cercato di spiegare chi è Valentina, nel rispetto dell’idea del suo creatore, Guido Crepax. Crepax crea Valentina nel 1965 e la rende la protagonista di una saga che va avanti trent’anni, fino al 1995. In questo arco di tempo il personaggio cambia, cresce, segue i cambiamenti della società (Antonio racconta di come il padre sfogliasse riviste di moda femminile per decidere come vestire il suo personaggio, per farlo essere al passo con i tempi), fino a passare da personaggio a vera e propria persona. Valentina può essere vista come un alter ego del suo autore, considerata anche la forte interazione che Guido Crepax stabiliva tra realtà e fumetto. Col passare del tempo quindi Valentina non è più solo una donna, ma si trasforma in un’icona, fino a diventare una persona, qualcosa che non è più dipendente dal suo autore. “Valentina è la donna più bella che sia mai stata rappresentata, ci ha liberati tutti, a livello di contenuti, di grafica, di vita” Micol Beltramini
Valentina è una donna che incarna per eccellenza la bellezza, nasce proprio come personaggio bello da vedere; è una donna sensuale e affascinante, ma allo stesso tempo porta con se della caratteristiche quasi maschili. Questa ambivalenza attrae inevitabilmente il lettore. Ma come sottolinea Micol Beltramini l’aspetto innovativo che porta con sé è dato anche dalla grafica: con Valentina, Crepax si libera della griglia, del fumetto, di molti dei vincoli stilistici che costituiscono la struttura, l’impaginazione a noi più nota del fumetto.
La storia di Valentina non si concentra su battaglie, guerre o missioni impossibili da portare avanti; bensì si snoda intorno alla sua affascinante figura, che sì appartiene un po’ a una sfera onirica, ma la cui vita è composta anche da fatti comuni: la nascita di un figlio, i cambiamenti dovuti agli anni che passano,… Viva Valentina! si propone di ripercorrere i 30 anni della saga, di far conoscere e far capire al grande pubblico chi è Valentina. Lo fa attraverso le testimonianze di chi l’ha apprezzata fin da subito e ne ha seguito l’ascesa: Umberto Eco, Maurizio Nichetti, Hugo Pratt, Oreste Del Buono e molti altri. Ovviamente ci sono anche delle tavole ad arricchire il volume, ma per la prima volta è una mano diversa da quella di Crepax a disegnare Valentina; BD Edizioni ha infatti incaricato diversi autori (solo per citarne alcuni Lola Airaghi, Adriano De Vincentiis, Corrado Roi, Maurizio Rosenzweig, Tuono Pettinato) di creare una storia su di lei dove l’unico vero vincolo è quello di rispettarne il carattere, lo spirito. Ognuno ha avuto quindi un diverso approccio a Valentina, concentrandosi su un aspetto che lo colpiva. È nato così un volume eterogeneo che ruota intorno a questa bellissima donna, il cui intento non è tanto quello di trasportarla in un presente che la renderebbe altro da se, ma più di ritrovarla, di ristabilire un dialogo con chi l’ha amata e con chi, conoscendola, imparerà ad amarla.
L’Umanesimo e l’Illuminismo, pur avendo rappresentato epoche di progresso civile, umano e morale, hanno contribuito a gettare un’ombra di sospetto, di diffidenza e di terrore nei confronti del Medioevo. Esso era visto come un’età buia, oscura, superstiziosa e retrograda, dominata dai dogmi della Chiesa di Roma e dalla nascente Inquisizione, ostacoli alla vita in ogni sua manifestazione. Scopo di questa riflessione è decostruire una visione parziale e tendenziosa del Medioevo, soprattutto in ambito letterario, dimostrando come la letteratura medioevale inglese sia intessuta di obliqui riferimenti alla sessualità e a comportamenti licenziosi. Brugnolo (2013: 1-2), muovendo da Orlando (1990), individua nella letteratura una formazione di compromesso, che veicola pulsioni sessuali anche attraverso testi apparentemente innocenti come gli enigmi antico inglesi. Essi sono contenuti in una silloge eterogenea, il Codex Exoniensis (sec. 10° ), sulla quale la ricerca ha dimostrato grande interesse negli ultimi anni, in modo particolare nei confronti delle istanze erotico-sessuali.
Davis (2014), Murphy (2011) e Salvador Bello (2003) mostrano un’immagine diversa del Medioevo inglese: a loro giudizio gli enigmi, in virtù della formazione di compromesso istituzionalizzata dalla letteratura, dipingono un mondo meno castrante e soffocante così come è stato tramandato dalla vulgata tradizionale. L’enigma 44, la cui soluzione è apparentemente chiave, potrebbe essere interpretato come una sottile allusione a un amplesso.
La stessa situazione si ripresenta al 25, la cui soluzione è cipolla; subentrano i sospetti quando essa è definita “gioia per le donne”, dando adito ad altre interpretazioni.
Nonostante le forti implicazioni teologiche presenti nel codice, salta subito all’occhio la presenza di una serie componimenti dalla forte caratura terrena e mondana, che dimostrano la falsità o la surrettizia aria di moralità del Medioevo.
La lezione boccacciana (e boccaccesca) del Decameron (1350-1353) hanno una vasta eco nell’opera più celebre della letteratura inglese tardomedievale, i Canterbury Tales (1390, “I Racconti di Canterbury”) di Geoffrey Chaucer.
L’autore rappresenta in modo realistico la società della sua epoca, seguendo la tripartizione di ascendenza duméziliana: coloro che combattono (rappresentati dal cavaliere), coloro che pregano (rappresentati dai vari esponenti del clero) e coloro che lavorano (rappresentati da vari esponenti, tra cui spicca, per la sua moralità, il contadino) (Bisson 1998: 143).
Al vivace quadro bachtiniano si assommano anche considerazioni di ordine sessuale, specialmente legate al personaggio dell’indulgenziere. Nel Prologo Generale, il pellegrino Chaucer descrive con dovizia di particolari le caratteristiche psicofisiche del personaggio: i suoi capelli gialli indicano una mancanza di spiritualità, così come la voce è simile a quella di un capro. Il capro è simbolo di lussuria e la lussuria è uno dei sette peccati capitali e il genere di perversione sessuale a cui l’indulgenziere, anche a causa della fede debole, sarebbe l’omosessualità (Cocco 2008: 361-362, Burger, Kruger 2001, Myers 2000: 54-62, McAlpine 1980: 18). Vale la pena di aggiungere che Chaucer si trova a criticare gli abusi della Chiesa cattolica apostolica romana, sulla scia delle feroci critiche di uno dei prodromi della Riforma protestante, il teologo John Wycliffe (Bisson 1998: 49-62).
Tracciando questo quadro del Medioevo inglese, appare evidente come la sessualità non fosse un tabù. Seppure costruita in modo allusivo attraverso la funzione di compromesso della letteratura, essa riesce a emergere negli enigmi del Codice Exeter, i cui testi danno spesso adito a veri e propri doppi sensi. Sul finire del Trecento Geoffrey Chaucer rappresenta l’omosessualità nella figura dell’indulgenziere. Come si vede, i cosiddetti “secoli bui” erano tutt’altro che bui.
Bibliografia:
Immagini tratte da: http://www.bbc.com/news/uk-england-devon-36581705 http://colloquy.eu/chaucers-tale-1386-and-the-road-to-canterbury-by-paul-strohm-2014/ http://www.medievalists.net/2010/12/23/orality-and-the-satiric-tradition-in-the-pardoners-tale/ https://www.theguardian.com/books/2016/jun/22/unesco-lists-exeter-book-among-worlds-principal-cultural-artefacts
“Ho fatto un mestiere in cui, travestendomi, dimenticavo la mia modesta esistenza borghese, ho lavorato sempre per conto mio”
“Mi sta bene anche la miseria, purché mi permetta di rimanere signore. Un po’ di vino lo vuole?” Enfant terrible del teatro italiano, Paolo Poli, nato a Firenze, oltre che un grande attore di teatro, è stato una straordinaria personalità della cultura italiana che ha saputo coniugare leggerezza e profondità come pochi altri nel mondo dello spettacolo. Con uno stile unico, il volto, come lo definisce Natalia Ginzburg, “d’un soave, ben educato e diabolico genio del male”, ha portato sul palcoscenico commedie brillanti, talvolta surreali, spesso travestendosi e anticipando di decenni tendenze e costumi che si sarebbero affermati molto dopo. Debutta a teatro nel 1958 con “Finale di partita” di Beckett e riesce subito a farsi notare per la sua pungente ironia, il suo garbato istrionismo, la sua vena poetica e surreale contornata da momenti comici e giochi linguistici apprezzati anche da capocomici illustri come Tina Pica e Polidor, con i quali ebbe modo di lavorare. Paolo Poli ha vissuto, come ha ripetuto più volte, come un quasi sfollato negli alberghi della sua città, Firenze, e delle altre città d’Italia, portando praticamente ovunque i suoi spettacoli. È stato uno dei primi artisti e personaggi pubblici dichiaratamente e apertamente omosessuale in tempi difficili: “Giravo dopo la guerra in centro a Firenze a braccetto di un nero bellissimo, aveva tutti i capelli tinti di biondo, si voltavano tutti a guardarmi, le mie sorelle mi tolsero il saluto: fecero bene”. Ha sempre avuto posizioni tolleranti e anticonvenzionali anche nei confronti delle mode che riguardavano i gay: “Il bello degli amori omosessuali è la loro libertà e la loro riprovazione. Il matrimonio tra gay non mi interessa, come non mi interessa quello tra uomo e donna. Io voglio seguire l’istinto e la perversione, non tornare a casa e trovare qualcuno che mi chieda cosa voglio per cena. ‘Caro la vuoi la besciamella?’. Fuggirei subito, con un principe o con un marinaio. Chi vuole l’unione civile e l’iscrizione al registro comunale non se ne intende. Io sì.” Durante la sua carriera ha avuto merito di scoprire e riattualizzare autori secondari , è passato dai classici come l’ “Asino d’oro” di Apuleio fino a “Sei brillanti”, opera comune di sei giornaliste. Tante anche le presenze nel cinema: dal debutto con “Gli amori di Manon Lescaut”, con la regia di Massimo Costa del 1954 fino a “Felice che è diverso” di Gianni Amelio del 2014. Innumerevoli anche le presenze in televisione e gli interventi alla radio e le canzoni registrate in album, singoli e audiocassette. Cult una versione in cd di “Pinocchio” di Carlo Collodi, autore caro all’attore: “Senza peccato si muore di sbadigli e non accade niente […] Il peccato è foriero di ogni disgrazia, ma Collodi che era un genio, ha messo in ogni capitolo, in ogni puntata, uno spavento, un cattivone, un consiglio morale e una roba da ridere. Ci volevano tutti gli elementi. E lui lo sapeva”. Nel 2015 l’addio alla scena: lamentava la mancanza di serietà e denaro, e poi diceva: “Non ho più fiato, ho 86 anni. Qui c’è solo da morire, ma non ho paura della morte: quando arriva, dicevano i greci, non ci sono più io”. Il destino ha voluto che l’ultima sua apparizione pubblica avvenisse nel cuore culturale e storico di Firenze, in un indimenticabile racconto della sua vita che oggi è diventato il suo testamento artistico.
Immagini tratte da:
http://www.today.it http://www.corriere.it/spettacoli http://xl.repubblica.it/articoli/paolo-poli-intervista-al-vate-del-teatro-italiano/16612/
Amelia Rosselli
Il primo libro di poesie di Amelia Rosselli, Variazioni Belliche, costituisce uno dei punti più alti e di maggiore sviluppo della neoavanguardia italiana. Una raccolta in cui la Rosselli iscrisse la propria vita, il ricordo del defunto padre - colpito da ventisette pugnalate -, senza mai cadere in un banale autobiografismo, facendo del linguaggio stesso il luogo di interrogazione della propria esistenza in rapporto al contesto storico e socio culturale in cui si trovò a vivere.
La lacerazione dell'io, derivata dalla condizione di esule e dal trauma della morte del padre Carlo – e successivamente della madre Marion e di Rocco Scodellaro – si riflette dal punto di vista linguistico in un continuo gioco di parole e suoni che fanno saltare non solo la sintassi, ma l'integrità stessa dei segni. Il termine Variazioni, dichiara Amelia in un'intervista, si rifà alla tecnica musicale delle variazioni (alternanza di ritmo, riproposizione di un'idea in cui essa subisce modifiche), mentre Belliche assume diverse sfumature: da un lato rimanda alla dolorosa vicenda del padre, ucciso, forse, per comando di Mussolini, dall'altra a un tormento di natura amorosa (si pensi al rapporto fraterno con Rocco Scodellaro, amico, confidente e amante). Questa musicalità, sotto forma di variazioni, la ritroviamo nella sua poetica in un registro caratterizzato da forti contrasti e conflitti di senso: frasi che negano affermazioni precedenti a distanza di pochi versi, un uso molto frequente degli ossimori . Una poesia, come afferma Amelia, «di onde, che si ritrae per tornare, si disfa per ricomporsi, è uno struggimento che conosce l’ironia e la disperazione del ridere in cui le frasi compongono un senso costantemente in procinto di svanire», la cui apparente incoerenza, fatta di lapsus e flashback, non è altro che manifestazione della sua tragica esperienza, del suo essere donna dopo la diagnosi di schizoide e di scissione dell'io. Una poesia, frutto di una ricordanza di ricordi, mero linguaggio dell'inconscio, connessa semanticamente al termine bellum (guerra) e a bello (bellezza). Questa, forse, la vera intenzione di Amelia, che in maniera ironica cerca qualcosa che possa essere bellezza estetica in un mondo, il suo, in cui la bellezza è morta perché oscurata dalla guerra, dalla società consumistica e dagli avvenimenti a cavallo della Seconda Guerra Mondiale «e cosa voleva quella folla dai miei sensi se non la dimensione dell'estetismo […] mai più correrò dietro la bellezza, la bellezza è vinta».
Un'opera, pertanto, il cui titolo rimanda a cambiamenti – personali e oggettivi - derivati dalla guerra e dalla morte del padre, alla musicalità del verso, e a un mondo in cui “bellum” non è solo qualcosa di dinamico, ma anche una manifestazione ineluttabile e ripetitiva della violenza. Due realtà, il conflitto e il trauma, stabili, di fronte a un mondo che non è altro che una variazione di questa amara realtà.
La guerra, oltre ad essere rievocazione di amare vicende storiche (si veda il racconto delle fosse ardeatine) – Amelia, avendo impresso il ricordo degli omicidi che videro vittime Carlo e lo zio «la morte era una crescenza di violenze che non si sfogavano nella tua testa d’inganno», ricorre ad un lessico carico di rifermenti alla carne umana –,capovolge la brutalità della guerra in una metafora della violenza che mira a distruggere le relazioni personali convertendo l'amore in morte. «Le fosse ardeatine combinavano credenze e sogni io ero partita, tu eri tornato- la morte» – è un chiaro intreccio tra pubblico e privando, rendendo la guerra come forza creatrice e vitale. Che cosa è dunque Variazioni Belliche? Morte e bellezza – un continuo gioco di Ossimori che si rifà alla dialettica degli opposti di Eraclito «la guerra è l'origine e il signore di tutte le cose, è l'armonia dei contrari», un eterna antitesi hegeliana, –ricordo e fantasia, un alternanza continua di assonanze, pensiero dell'inconscio che gioca sulla polisemia delle parole, distruggendone il significato originario per restituirne una luce che già possedeva, invisibili fino al rigo precedente. É ricerca di perfezione, una variazione musicale, che si rifà ai sonetti trecenteschi, strettamente connessa alla formazione della poetessa in musica alla scuola di Darmstadt. Se Luca Pacioli ricercava la sezione aurea nelle stelle e nei corpi celesti, la proporzione divina quintessenza della perfezione e dell'armonia nel mondo, Amelia si limitava a ricercare un legame tra musica e poesia convinta che entrambe le discipline fossero fondate su categorie universali in cui è possibile risalire a una certa “forma geometrica”. Amelia, pertanto, da una parte cerca di racchiudere la poesis in un tempo e in uno spazio assoluto, dall'altra essendo le parole libere associazioni del suo inconscio (si ricorda la diagnosi di schizoide e di io scisso) si viene a creare un groviglio di parole.
«Il versificare equivale al sentire e pensare [...] in forme approssimativamente cubiche» esprime al meglio il tentativo, da parte di Amelia, di iscrivere la propria poetica secondo canoni geometrici, conferendo al componimento una dimensione di profondità creando un continuo legame associativo tra le parole e le lingue (si ricorda la condizione di esule, rifugiata e di trilinguismo della Rosselli).
Una poetica sperimentale, originale, codificata in Spazi Metrici che gioca sull'eterna polarità tra ordine e disordine, tra sperimentazione, e ricerca di regolarità metrica (una sintesi hegeliana che coincide con le materne praterie di un lontano giorno del '68 nelle dolomiti) «Sulla pagina bianca i confini metrici raccolgono e comprimono idee e parole, le barriere grafiche salvano la parola poetica dallo schizofrenico propagarsi dei significati, perimetrando senza tuttavia annullare il formicolio dei ritmi e dei timbri, lasciando il loro insieme parlare da sè senza che questo conduca alla dissoluzione del messaggio». Tralasciando la dimensione amorosa (per il padre e per Rocco Scodellaro), Variazioni Belliche è un effetto estetico raggiunto attraverso l'uso ossessivo della ripetizione. Basti pensare alla ricorrenza, sempre crescente, della parola contro – quasi a ricordare ancora una volta l'antitesi -, dell'utilizzo di sintagmi volti a creare un groviglio di assonanze che, come direbbe Amelia, è «un onda che non trova requie ma solo pause di spazi vuoti, fino a raggiungere poesie perfette composte da una manciata di sillabe che implorano e imprecano» Compattezza e sregolatezza, amore e morte, continue giustapposizioni di immagini che si ricongiungono sempre ad un unico ricordo, il padre Carlo. Pensieri che sono come fiumi violenti, arginati dal rettangolo mentale di Amelia che non permette l'assenza di metrica.
Bibliografia
A. ROSSELLI, Variazioni Belliche, Milano: Garzanti, 1964 A.Rosselli, Introduzione a Spazi Metrici, in Scrittura Plurale, 200 D.La Penna, La promessa di un semplice linguaggio, Milano: Carocci, 2014 Laura Barile, Laura Barile legge Amelia Rosselli, Roma, Nottetempo, 2014
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www.youtube.com boinlettere.wordpress.com tremendousandsonorouswords.tumblr.com Un po' strana, la genesi di questo libro di Baricco, almeno a sentire l'autore. Innanzitutto, I Barbari (edito da Feltrinelli) è un saggio. Anzi, per essere precisi, un saggio sulla mutazione: e scoprire cosa sta mutando, in che modo e per quale motivo, è l'obiettivo delle 213 pagine in cui si snocciola il Baricco-pensiero. Uscito a puntate nel 2006 su La Repubblica, e poi raccolto in volume, I Barbari vuole essere una riflessione in divenire su un mondo che cambia più velocemente di quanto noi siamo in grado di comprenderlo, rischiando di sfuggirci di mano: i barbari, proprio loro, ne sono la prima avvisaglia. Le branchie dietro le orecchie «Tutti a sentire, nell'aria, un'incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari». Sì, perché i barbari sono già qui. Rappresentano il cambiamento, la rottura con la tradizione, la «trasvalutazione di tutti i valori». Sono quelli che respirano con le branchie dietro le orecchie, quelli che a noi sembrano strani o pericolosi, che rovesciano la tradizione in nome del nuovo. I barbari abbandonano i libri, la cultura in senso forte e il Chianti d'annata per la giungla dell'ipertesto, i reality show e i fast food. Qualcosa sta cambiando: loro sono il risultato della mutazione, o l'antipasto dell'evoluzione. L'obiettivo di Baricco è di studiarli per decifrarne il modo di pensare e riuscire così a comprendere il senso della mutazione. Per capire come mai la cultura romantica su cui, fino a qualche decennio fa, si è avvitata la civiltà occidentale, stia cedendo il passo rispetto all'incalzare di una nuova forma mentis. E per farlo bisogna passare attraverso il vino, i libri, il calcio e la Nona di Beethoven. Senza dimenticare (ed è questo uno degli spunti più interessanti del libro: peccato che non venga approfondito) che anche la nostra civiltà è (o è stata?) il risultato di un'invasione barbarica. A guardar bene, Beethoven era uno dei barbari. Dal vino d'annata alla muraglia cinese I Barbari è tutto tranne che un saggio accademico: lo stile è colloquiale, gradevole, ironico e suggestivo. Leggerlo, da questo punto di vista, è un piacere. Eppure, si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad una galleria delle curiosità travestita da British Museum. Una carrellata di aneddoti a volte bizzarri, di citazioni colte e tesi di fondo non sempre condivisibili, confezionati con una prosa accattivante e furba, non è abbastanza. Si arriva alla fine sicuri di aver colto un'idea di fondo, di aver inquadrato il problema ed il punto di vista generale dell'autore: ma mancano i dettagli, la definizione dell'insieme e l'esposizione chiara di quest'idea. Baricco parla sempre per metafore: accattivanti, ma a volte vuote. Non vi sto sconsigliando di leggere I Barbari: la lettura non annoia, ed il libro è attraversato da buoni spunti per riflettere sul valore della cultura e sui percorsi di senso che ogni civiltà si costruisce per orientarsi nel mondo. Eppure, viene da chiedersi se lo stesso Baricco non sia, a sua insaputa, uno dei barbari di cui parla. IMMAGINI TRATTE DA:
Tra i 10 migliori libri del 2015 per il New York Times scopriamo insieme chi si nasconde dietro Elena Ferrante e uno dei suoi romanzi di maggior successo.
Chi è Elena Ferrante? Ancora oggi non sappiamo rispondere a questa domanda, ma sappiamo che i suoi libri sono diventati un vero e proprio fenomeno editoriale, soprattutto in America, dove il New York Times ha inserito L’amica geniale tra i 10 migliori libri del 2015. L’assoluta volontà di anonimato, se da un lato non ha fermato la caccia all’autore misterioso (tra le ipotesi più accreditate si nomina Domenico Starnone, sua moglie Anita Raja o Goffredo Fofi), dall’altra non ha impedito la fortuna dei suoi romanzi. Forse il Paese dove hanno avuto meno risonanza, almeno inizialmente, è proprio l’Italia (anche se Amazon ha inserito L’amica geniale al primo posto tra i libri più venduti in Italia negli ultimi 12 mesi); c’è chi vede questa scelta come una trovata di marketing, altri come una volontà di tenersi lontania dal circo mediatico, in favore di un successo dato solo dai meriti della propria opera. Non resta che chiederci se questi meriti siano sufficienti a spiegare il successo di L’amica geniale.
Il romanzo esce nel 2011 per la casa editrice E/O. Primo libro di una serie conclusasi al quarto volume, inizia con un prologo che sembra fare da cornice alla storia vera e propria. Rino chiama Elena (voce narrante), chiedendole se ha notizie della madre. La madre è Raffaella Cerullo, detta Lina, anche se Elena ammette che per lei è sempre stata solo Lila. Inizia così un lungo flash back: Napoli, un rione di periferia, le famiglie che la abitano, le vite che si intrecciano e al centro Elena e Raffaella, anzi Lenù e Lila. Siamo nell’Italia degli anni ’50, Lenù e Lila sono due bambine abbastanza diverse: insicura, disciplinata e bisognosa di conferme la prima, forte, spavalda e di un intelligenza brillante la seconda. Le seguiamo crescere nel rione, giocare con le loro bambole nel cortile, studiarsi fino a diventare amiche. Sono diverse, ma complementari, amiche ma rivali, mai nessuna delle due riesce a prevalere totalmente sull’altra. Cercano di condizionarsi, ma in realtà spesso riescono solo a provocarsi un reciproco senso di inadeguatezza; è quando si arriva a questo punto che però entrano in gioco la solidarietà e la complicità. La trama non sembrerà brillare per originalità, però il modo con cui l’autrice delinea i profili delle due ragazzine ha indubbiamente qualcosa di particolare. Non c’è la nascita di una comune amicizia, un sodalizio, un legame di profondo e paritario di affetto, c’è qualcosa di più viscerale, di meno limpido, ma forse più umano. “C’era già allora qualcosa che mi impediva di abbandonarla” ci dice Lenù; è attratta dalla compagnia di Lila, dalla sicurezza che i suoi gesti riescono a infonderle. Lila si comporta spesso in modo cattivo ma anche in questo c’è dell’accettazione, una sorta di sodalizio: “Quello che fai tu, faccio io”. E non può che essere così nel rione: “Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi. (…) Far male era una malattia”. Questo ammissione di consapevolezza non implica l’assenza della volontà di cambiamento, di riscatto, semplicemente si preferisce lacerare immediatamente qualsiasi velo illusionistico. L’amica geniale è una storia di gente comune, ma leggendola vi ci sentiamo immersi, viviamo anche noi in quel rione di Napoli, intrecciamo le nostre vite con quelle delle famiglie che la abitano. Intanto le protagoniste attraversano l’adolescenza, si avvicinano, ma si allontanano anche per lunghi periodi, legate a scelte e destini diversi. Allo stesso tempo il rione subisce i cambiamenti del tempo: in seguito alla guerra si intravede un certo benessere, c’è chi decide di andarsene, chi invece resta e prova a far fortuna, inserendosi negli ambigui giochi di forza che legano le varie famiglie. La narrazione scorre fluida e trascinante (proprio come quella che usa Lila nelle lettere che incantano Lenù) e ci porta ad un finale che in realtà non è tale: tutto si ribalta e al lettore non resta altro da fare che iniziare dalla prima pagina del secondo volume, Storia del nuovo cognome.
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«Fu mia madre a farcelo sapere che era stato assassinato e ha chiamato mio fratello minore e me in camera sua. Stava molto male di cuore credo già da molto e ci ha semplicemente chiesto se sapevamo cosa voleva dire la parola ‘assassinio’. E abbiamo risposto di sì. E credo io avevo sette anni e mio fratello Andrea sei. Poi mi ricordo con le vestagliette siamo tornati in camera. Poi non ricordo niente». ![]()
Parigina di nascita, emigrante in Svizzera e, successivamente, negli Stati Uniti, divisa tra gli studi in Inghilterra e brevi soggiorni in Italia: solo una piccola parte della difficile e tormentata esistenza dell'ultima poetessa delle viscere e non della penna, capace con la sua poetica di fondere premesse biografiche a un bisogno inconciliabile di sperimentazione, è racchiusa in questa premessa.
Un episodio tragico segna la vita della piccola Amelia: all'età di sette anni, il padre Carlo e lo zio Nello, appartenenti allo schieramento antifascista, fondatori del periodo clandestino liberal democratico Non Mollare e sostenitori del movimento di Giustizia e Libertà, vengono uccisi in un’imboscata organizzata dalle squadre fasciste. Da questo episodio scaturisce la poetica del lutto di Amelia: la sua poesia, fatta di flashback e lapsus, non è altro che l'estremo tentativo consapevole di una bambina, lacerata nell'anima, di stabilire con il padre un difficile, ma improbabile, ponte: colmare, con le parole, il vuoto lasciato da Carlo e dallo zio Nello, cercando briciole del suo amore in un ricordo straziante. La poetica di Amelia si traduce, pertanto, in una riproposizione senza pudore del proprio vissuto: il suo struggente amore, la sofferenza del suo sentire, la scissione dell'io non sono altro che gli ingredienti essenziali della sua poetica del lutto. L'immagine del corpo, ricorrente in particolare in Variazioni Belliche, non è altro che il ricordo, inconscio, della morte del padre «tu eri il mio re debolissimo io la sua regina di sangue, tu sei il mio re debolissimo imbrattato di porpora». Il re ucciso, quindi debole, è il padre assassinato che giace a terra in un lago di sangue. Con la morte di Carlo inizia la difficile vita da “rifugiata”: i continui viaggi tra l’Europa e gli Stati Uniti - figlia della guerra, apolide cosmopolita, “confinata” in diversi paesi perché perseguitata politica – non solo incidono profondamente sulla già labile personalità di Amelia creando problemi di identità «Non sono apolide, «sono di padre italiano e se sono nata a Parigi è semplicemente perché lui era fuggito […] perché era stato condannato per aver fatto scappare Turati», ma anche sulla sua poetica fatta di surrealismo sospeso tra bilinguismo e trilinguismo. In Dialogo in tre lingue emerge questa lacerazione dell'io, la scissione quasi totale della personalità - causata dall'assenza di identità e dai continui lutti mai somatizzati - che si ritrova, a livello linguistico, nel continuo gioco da parte di Amelia di parole e suoni che fanno saltare non solo la sintassi, ma l'integrità stessa dei segni. La metalingua di Amelia non è altro che un senso di fedeltà a se stessa, al proprio vissuto culturale, un marchio – forse l'unico – della sua precaria identità: la lingua del padre assassinato, l'estremo tentativo di ridar voce a chi non poteva più parlare. Prima di Variazioni Belliche, con cui si conclude il trilinguismo e prevale l'italiano (eccezion fatta per Sleep), tutta la produzione di Amelia è una continua alternanza di inglese, francese, e italiano. «La goutte qui coute (-ecoute) la lune sale qui sale», “Marionravic”, la fusione del nome della madre con l'aggettivo francese, non è altro che un assaggio della complessità e dell'enigmaticità della poetica di Amelia, sono solo un piccolo assaggio delle continue sgrammaticature rese attraverso un abile distorsione dei suoni «Petite notion authobiographique nécessaire/ auto bio proport/ sionel gravitationel/elisionel/ del esiles a la terible legende des coupes – a – mort en 17 pieces» (l'amaro ricordo dell'efferattezza del delitto dello zio e del padre, colpito da 17 pugnalate e altrettanti colpi di pistola). La fitta intelaiatura di lapsus, che finiscono per ricreare un mondo in cui suoni, allitterazioni e un'accurata scelta lessicale ricreano un mondo sospeso tra l'immaginario della morte e colpi di rivoltella, si ritrovano anche nelle celebre frase «if I were a town towering or a tower bloody against a sky fit for birth, if I were a Japanese I might ask you why fit a fight with you fist in it», in cui è evidente il richiamo alla morte del padre reso dal gioco di parole town – towering e tower così come tra fight, fit e fist.
Già sofferente a brusche oscillazioni dell'umore (insonnia, scatti d’ira e esaurimenti nervosi)” – , le condizioni psicofisiche di Amelia si aggravano drammaticamente dopo la morte della madre e dell'unico confidente, grande amico, Rocco Scodellaro. La diagnosi di dimissione, schizofrenia paranoide, non è altro che il risultato dell'incapacità di giungere a quelle “materne praterie”, a quel mondo salvifico in cui sperava nel lontano 1986 durante una gita alle dolomiti: «un giorno, in mezzo alla prateria, Amelia disse che sarebbe bello se ci fosse una sorta di immortalità, se le anime potessero vagare a piacimento e incontrarsi. La sua anima avrebbe scelto di volare da cima in cima, di posarsi sulle materne praterie. Poco dopo, ci parlò della madre, della propria difficoltà a ricordarla sana, perché dopo la tragedia la sua malattia di cuore si era aggravata e in pochi anni l'aveva condotta alla morte. Disse che la madre aveva voluto che lei e i fratelli vedessero la salma del padre, colpito da 27 pugnalate. Lei aveva soltanto sette anni».
Ecco allora la Amelia asceta, religiosa, colei che vede, nelle “materne praterie”, un mondo utopico, un mondo senza guerra proprio come dovrebbe essere il rapporto dei figli con la madre e con il padre. Il rapporto con la madre, fatto di assenza, viene raccontato amaramente dalla stessa Amelia nell'Epistolario Familiare. Ricorda Marion come insufficiente, nel senso winnicotttiano del termine, di affetto nei suoi confronti (la presenza di “care” e “holding” rimarcano una madre deficitaria negli affetti), tanto che alla nascita era un peso per entrambi i genitori «gran delusione». La morte di Marion simboleggia, un po' come la Silvia leopardiana, la fine delle speranze: quel sottile filo che la legava alla vita si spezza, lasciandole un vuoto incolmabile come una bara. Una Rosselli “sacerdotessa”, scissa nell'anima e sempre più dedita alla trasmissione di una gnosi esoterica, inizia a nascondere nelle sue poesie (si veda Variazioni Belliche) il proprio dolore personale. L'instabilità psichica, accentuata dalla triplice identità culturale e linguistica, una e trina, si traduce nella sua tarda poetica in un estremo tentativo di ritagliarsi la propria lingua – unico mondo di appartenenza – , un modo per bucare l'involucro della propria solitudine e sentirsi parte del mondo. Quello di Amelia è un corpo poetico distopico, fatto di ridondanze, di lapsus, di cortocircuiti semantici, di adiacenze e di infermità, legate ad una pratica trilingue che non trova, apparentemente, un baricentro. Questa poesia surreale, ai limiti del non sense, acquista significato solo se compreso il suo you want the cube e il suo nuovo percorso poetico a partire da Variazioni Belliche: la volontà di iscrivere la poesia dentro un principio, spezzando da una parte uniformemente il ritmo e fornendo dall'altra l'idea di uno spazio che si riempe sino al suo limite - lasciando grazie all'enjambement vuoti che riflettono la sua condizione di solitudine -, non è altro che la ricerca di saldezza mai avuta nel corso della propria vita (il cubo rimanda, a livello simbolico, all'assolutezza e al divino). Variazioni Belliche, pertanto, è il risultato di anni di sperimentazione, anni in cui tenta ripetutamente di tradurre la molteplicità dei tratti morfologici in un disegno unitario e coerente.
Fonti:A.Casadei, Poetiche della Creatività, Milano, Mondadori, 2011
A.Rosselli, Le Poesie, Garzanti 1997, Milano S.De March, Amelia Rosselli tra poesia e storia, L'ancora del Mediterraneo, Napoli, 2006 A.Baldacci, Amellia Rosselli, Laterza, Milano, 2007 E.Campi, Il colpo di coda: Amelia Rosselli e la poetica del lutto, Saya editore, Milano, 2016 |
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Maggio 2023
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