La scrittrice torna a Pisa dopo il successo del suo primo libro
Le due metà del mondo è il romanzo d’esordio di Marta Morotti, edito da Harper Collins; un esordio che dati i numerosi premi (solo per citarne alcuni: Premio della critica al Festival letterario internazionale Montefiore 2016, Premio speciale della giuria del Festival letterario internazionale “Il Molinello” 2016) non poteva che riportare la scrittrice a Pisa, dove sarà ospite per la seconda volta della Libreria Fogola. Un romanzo dalla scrittura semplice e fluida (poco più di 200 pagine che si leggono rapidamente), ma non scontato nei suoi contenuti. Se leggendo il titolo o guardando la copertina vi state immaginando una storia d’amore siete completamente fuori strada. Il romanzo è un romanzo familiare, una storia di quotidianità che ci racconta Maria. Maria ha 19 anni, ha appena finito la maturità e vive a Torino. Una ragazza qualunque, apparentemente normale nelle potenzialità ma non nella realtà; perché Maria non esce, ha un solo amico, Salvatore, e vive in una realtà in cui si è volontariamente confinata. Ma questa volontà può vacillare davanti alla possibilità di aprirsi al mondo, avere amici, magari anche un ragazzo, e di non finire a lavorare in fabbrica come suo padre, ma di continuare gli studi e coronare il suo sogno di diventare psicologa. Uscire allo scoperto ha ovviamente un costo, ma è quello che Maria paga per essere libera di vivere il proprio futuro, scacciando i fantasmi che invece la tengono imprigionata nel passato. Suo padre, essendo il proprietario del negozio, non doveva chiedere il permesso a nessuno per partire. Bastava che tirasse giù la serranda, attaccasse un cartello con scritto Chiuso per ferie e se ne andasse. Anche a me sarebbe piaciuto fare così. Attaccare un cartello sulla mia vita a Torino e scriverci Chiuso per necessità. Sparire. Andare lontano e portare con me solo i pensieri positivi e i ricordi del tempo che non c’era più. In questo senso il romanzo di Marta Morotti è anche un romanzo d’amore, l’amore per i propri cari, per la famiglia che abbiamo, ma anche per le persone a cui permettiamo di camminarci a fianco. L’apparente semplicità di questo romanzo scuote inevitabilmente il lettore per la sua capacità di entrare così in profondità nell’animo della sua protagonista, fornendo anche una chiave di lettura inusuale. Ma Le due metà del mondo è anche un affresco del nostro Paese. Sì parla della mafia, che costringe Lucia e Alfio, i genitori di Maria, a lasciare la loro amata Agrigento per rifarsi una vita a Torino. Non è solo la mancanza della propria terra e il trovarsi da soli in un luogo nuovo il problema: ma la distanza dai propri affetti, il fatto di non poter essere presente, di condividere insieme i momenti belli e quelli brutti. Mi parve un bambino spaurito che corre dalla mamma a chiedere aiuto. Lui, però, stava chiedendo perdono per non esserci stato, per non averla potuta sostenere. Non ci avevano detto niente, forse per non preoccuparci, ma avevamo diritto di sapere, Alfio aveva diritto di sapere. Pensai che se fosse morta senza che lui l’avesse rivista, avrebbe cancellato per sempre la sua terra dal cuore e non si sarebbe mai perdonato la sua mancanza. Era questa la sua rabbia. Di nuovo la famiglia, in tutte le sue bellezze, contraddizioni e difficoltà. Dalla felicità di Lucia e Alfio per la nascita della loro primogenita si passa all’angoscia nel sapere che Omar, il fratellino minore di Maria, vivrà per sempre con dei problemi debilitanti, dei deficit visivi e mentali. Il mondo perfetto in cui ha vissuto Maria per i primi suoi sette anni vacilla, la felicità familiare svanisce, tra le apprensioni, i rimorsi e il senso di impotenza dei genitori. Fuori dalle mura domestiche è anche peggio: quello è il luogo del pregiudizio, dei pettegolezzi, delle persone che sono più pronte ad additare e giudicare piuttosto che a comprendere. Le due metà del mondo è un libro da leggere tutto d’un fiato, lasciando che tocchi le corde più profonde dell’anima. Una volta che l’avrete fatto, non mancate alla presentazione dell’autrice che si terrà sabato 7 ottobre alle 15:45 presso il Chiostro della Chiesa del Carmine di Pisa. Foto tratte da: http://tuttacolpadeilibri.altervista.org/blog/2017/01/anteprima-le-due-meta-del-mondo-marta-morotti/ I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/ Potrebbe interessarti anche:
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30/9/2017 Il Gan ‘Eden e la metafora del giardino nelle sacre scritture e nei testi classiciRead Now
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Nella cultura occidentale il fondamento mitico del giardino è rimasto nei secoli quello dato dalla Bibbia nel libro della Genesi. L'Eden, o Paradiso Terrestre, un giardino lussureggiante per varietà di fiori, piante e animali, dove vivevano, prima del peccato originale, Adamo ed Eva. Conosciuto universalmente come il Paradiso Terrestre (edinu, campagna, 'dn, delizie), viene definito dalla Bibbia con un significato leggermente diverso, vale a dire un luogo sacro e protetto posto all'interno dell'Eden, un luogo recintato in cui gli Elohim, dei nell'Esodo e Dio in alcuni passi della Genesi, coltivano/coltiva vegetali di ogni tipo. Gan ‘Eden, che significa in ebraico luogo recintato e custodito, a garden as enclosure, trova corrispondenza sia nella lingua iraniana, in cui pairidaeza, giardino recintato e protetto, non è altro che il paradisum latino, che nella Bibbia dei Settanta, in cui l'Eden venne tradotto con la parola greca paràdeisos, che nella traduzione in latino della vulgata divenne paredisus, ossia il paradiso universalmente conosciuto. Il termine parádeisos ricompare in alcuni testi greci, Senofonte primo su tutti, in riferimento ai giardini persiani. In questo caso l'accezione paradisiaca del “gan eden” deve essere colta in senso lato, ossia, non il paradiso luogo reale e ameno descritto nei testi biblici e custodito da cherubini e dai serafini, bensì un bellissimo parco in cui crescevano rigogliose piante di ogni tipo e vivevano svariati animali. Lo stesso Senofonte scrive nell'Economico dello stupore provato da Lisandro di fronte al giardino di Sardi, luogo che per le sue caratteristiche ricordava, in scala ridotta, un microcosmo che, allo stesso tempo, era giardino, orto botanico e zoo: «Lisandro ne rimaneva meravigliato: gli alberi erano belli, piantati a distanza regolare e tutti formavano angoli perfetti; molti e gradevoli erano i profumi che li accompagnavano nella loro passeggiata». Un giardino in cui si applicavano tecniche avanzate, una sorta di terreno sperimentale in cui si coltivava di tutto, proprio come nel Gan ‘Eden, è il giardino di Alcino, descritto da Omero nell'Odissea. Lo stesso giardino in cui Ulisse incontrò Nausicaa non è altro che un grande giardino recintato (erkos) in cui, non solo si coltivano alberi di vario genere, ma i frutti sono presenti in tutte le stagioni dell'anno: « pera su pera appassisce, mela su mela, e presso il grappolo il grappolo e fico su fico […] una vigna è piantata e mentre una parte sta maturando al sole, su un’altra già si vendemmia e si pigia, ma intanto ci sono già grappoli verdi che gettano il fiore mentre altri stanno maturando […] e a parte matura ogni sorta di ortaggi». Un luogo che potrebbe essere diversamente descritto come oasi di serena bellezza, un posto in cui la presenza di animali docili e domabili e di brezze leggere e carezzevoli lo rende amoenus, idilliaco, proprio per questa allusione alla serenità e alla fecondità della natura. Il locus amoenus ricompare, infine, nella descrizione del giardino di Calipso: «un bosco intorno alla grotta cresceva, lussureggiante: ontano, pioppo e cipresso odoroso [...] si distendeva intorno […] una vite domestica, florida, feconda di grappoli, Quattro polle sgorgavano in file, di limpida acqua [...]. Intorno molli prati di viola e di sedanerano in fiore; a venir qui anche un nume immortale doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore». Anche in questo caso ritroviamo, proprio come nel giardino di Alcino, un bosco rigoglioso, composto da alberi di ogni tipo e abbondanti grappoli fecondati dalle acque che sgorgano dalle quattro sorgenti al centro dell'isola. Assente, in questo caso, la recinzione, delimitata, tuttavia, dal perimetro dell'isola di Ogigia.
Immagini tratte da:
menachemkuchar.com www.judaica-art.com www.reterurale.it
L’autore sarà a Pisa per presentare il suo ultimo libro “Dammi tutto il tuo male”
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“Sono un padre e un assassino”, inizia così il terzo e ultimo libro di Mattero Ferrario edito per Harper Collins. Una sorta di thriller psicologico, dove è subito chiaro che non sarà la caccia all’assassino il nodo della narrazione.
Andrea Bertone ce lo dice nella prima pagina: “sono stato io”; ma chi è Andrea? Un uomo semplice, mite, forse anche un po’ introverso; ha rinunciato a diventare avvocato come il padre per fare il bibliotecario, nutre una viscerale passione per i Depeche Mode e un amore incondizionato per la figlia Viola. Ma perché un uomo come lui ha commesso un omicidio? Cosa lo ha spinto a farlo? Queste sono le domande che si porrà ogni lettore ed è proprio questo il vero punto forte del romanzo di Ferrario: il colpevole si rivela alla prima pagina, ma non si confessa totalmente. Inizia una narrazione che si divide tra il presente, in cui padre e figlia affrontano una quotidianità del tutto normale, se non fosse per l’assenza della moglie e madre Barbara, e una serie di flashback che svelano, ma solo parzialmente quella che è la vera storia. Ferrario ci fornisce poco alla volta qualche pezzo del puzzle, ma fino alle ultime venti pagine siamo completamente travolti e avvinti dalla lettura, perché niente ci è chiaro, quasi non si intravede il disegno generale. Dammi tutto il tuo male parla proprio di questo: del male, quello vero, quella parte oscura che si annida dentro ognuno di noi e che spesso ha origine nei luoghi più impensati, quelli che per definizione dovrebbero difenderci.
La famiglia è da sempre un luogo ambiguo nelle narrazioni di Ferrario; già dai primi scritti Buia e Il mostro dell’hinterland, entrambi editi per Fernandel, il nucleo che meglio dovrebbe proteggere in realtà si rivela teatro di orrori. Così accade anche in Dammi tutto il tuo male, dove qualcosa di non detto, non detto perché inconfessabile, caratterizza la protagonista femminile, Barbara. Una tatuatrice, una donna che nasconde tutte le sue fragilità dietro una maschera di sicurezza e istintività. Un’anima scissa, come dimostra il suo tatuaggio sulla schiena: due ali, una candida, piumata come quella di un angelo, una demoniaca simile a quella di un pipistrello. E se fin qui qualcosa di questo personaggio più ricordarci la Lisbeth Salander di Uomini che odiano le donne, le scelte successive sono molto diverse. Barbara cerca di combattere ciò che la tormenta e lo fa costruendosi un mondo nuovo solo suo e di Andrea.
Ma cosa succede se ciò che ha allontanato torna a minacciare quello che lei ha creato con fatica? Accade che Andrea, l’uomo di cui si è innamorata a prima vista, sempre gentile e protettivo, colui che mai avrebbe fatto male a una mosca, si trasforma in un assassino e paradossalmente cede alla parte più oscura di sé. Il vero paradosso è proprio che lo fa a “fin di bene”. Infatti, nel momento stesso in cui Andrea parla al lettore non sembra provare rimorso o essere pentito delle sue azioni; traspare forse un’incredulità verso la propria natura così duplice, così diversa da come fino ad ora l’aveva interpretata. Non sarà quindi un caso che in apertura al libro Ferrario citi proprio Joseph Conrad, colui che meglio di ogni altro in Cuore di tenebra ha descritto la natura umana, anche e soprattutto, nelle sue parti più recondite.
“Fu amore come lo concepivano gli antichi: un impulso irresistibile e fatale – una possessione!” Un libro intenso dai molti spunti: per questo vi invitiamo sicuramente a leggerlo, ma anche a partecipare all’incontro con l’autore organizzato dalla libreria Fogola di Pisa. La presentazione avrà luogo sabato 30 settembre alle 18:00 presso il chiostro della Chiesa del Carmine. Foto tratte da: http://thrillernord.it/ I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/ Potrebbe interessarti anche:
Mohsin Hamid è giunto alla finale del Man Booker Prize. Ci è arrivato con quello che è il suo romanzo più impegnato, più “politico” e che affronta in modo più diretto i temi di cui tratta. Exit West è, con ogni probabilità, uno dei romanzi più importanti dell’anno e la storia d’amore tra Nadia e Saeed, i due protagonisti, una delle più poetiche degli ultimi anni. Partiamo da qui.
I personaggi di Hamid, autore anglo-pakistano, sono personaggi liminali e non a caso nel romanzo si parla soprattutto di attraversamenti. La storia racconta il viaggio nel mondo e nella vita di Nadia e Saeed che, incontratisi durante l’adolescenza, crescono insieme affrontando le diverse fasi della vita. Il passaggio all’età adulta coincide con una maggiore apertura verso il mondo e la presa di coscienza che la città in cui vivono è sottoposta alle azioni di guerriglia di militanti dell’area. Di essi non sappiamo niente ed è giusto che sia così perché fanno da controcanto realistico e brutale alla favola d’amore vissuta inizialmente dai due innamorati. Passano quasi inosservate, inizialmente, le bombe e gli altri spari in città mentre l’amore di Nadia e Saeed cresce. È qui infatti, nella creazione di una utopia personale in cui i due si rifugiano che Hamid dà il suo meglio: la limpidezza della scrittura si giustappone nel modo migliore alle ripetizioni di parole chiave ricorrendo a proposizioni talvolta involute, dando ad alcuni passaggi un tono quasi sognante. La città che fa da sfondo alla narrazione non ha nome e, dunque, può essere una qualunque città mediorientale in guerra. La mente corre quindi alla capitale del Pakistan, Islamabad, ma anche ad Aleppo, in Siria, e Raqqa, in Iraq. Ma quel che fa realmente la differenza e costituisce il vero colpo di genio (nella sua semplicità, perché il genio è spesso semplice) sta nel trucco narrativo di immaginare porte nella città attraversate le quali si finisce in altre aree del mondo, ed è qui che il talento di Hamid emerge nel modo più chiaro. Quel che distingue Hamid da altri scrittori che parlano dei migranti è che, mentre tali autori mettono in rilievo le sofferenze e le privazioni a cui i migranti sono sottoposti durante il viaggio per mare o attraversando i diversi paesi, suscitando la pietà dell’Europa e sostanzialmente disinnescando le complessità del fenomeno migratorio, Hamid si concentra invece sulla fine del viaggio, sull’arrivo nel campo di rifugiati, rifiutando ogni facile soluzione consolatoria. Va anche notato che, sebbene questo espediente collochi apparentemente il romanzo in una sorta di “realismo magico”, l’elemento fantastico si inserisce perfettamente nel tessuto narrativo tanto da poter essere considerato parte integrante della realtà stessa. Exit West è un romanzo di cui qualunque cosa si possa dire non sembrerà mai abbastanza e al tempo stesso si avrà l’impressione di aver detto fin troppo. Si può solo aggiungere che all’interno del dibattito europeo sul tema dei migranti, è utile e fondamentale avere una voce che parli delle esistenze dei singoli che si spostano e che se ne faccia carico, rappresentandoli nella scrittura. Non resta che scoprirlo e calarsi nei panni di Nadia e Saeed. Diventare l’Altro, appunto. Immagine tratta da: https://www.ibs.it/exit-west-libro-mohsin-hamid/e/9788806233884
Dopo “Il Canto degli Innocenti” Pulixi torna in libreria con “La Scelta del Buio”
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Dopo i numerosi premi vinti da Il Canto degli Innocenti (solo per citarne alcuni il Premio Franco Fedeli e I Corpi Freddi Awards 2015) Piergiorgio Pulixi è uscito da un paio di settimane in libreria con La scelta del buio, secondo canto della serie I Canti del Male.
Cagliaritano, classe 1982, Piergiorgio Pulixi è un giovane e promettente scrittore di gialli e noir dal forte impatto emotivo. In occasione della presentazione con autore che si terrà a Pisa il 23 settembre, organizzata dalla libreria Fogola, abbiamo deciso di parlare in questo articolo principalmente della serie dei Canti del Male, ma tra le sue opere ricordiamo la serie ispirata all’ispettore Mazzeo e vi consigliamo di non perdervi il noir L’appuntamento e la serie di racconti L’ira di Venere.
I Canti del Male nel progetto dell’autore è una serie poliziesca incentrata sulla figura testarda, impulsiva, ma estremamente coinvolgente del commissario Vito Strega. La serie sarà composta da tredici canti, tredici libri, ognuno dei quali caratterizzato da un tema dominante, sempre legato alla sfera del male, con il quale il nostro commissario dovrà fare i conti.
Abbiamo iniziato a conoscere Vito Strega poco alla volta già nel Canto degli Innocenti: “Un altro Martini, per favore” disse la bionda al bancone. Appena la servirono, la donna di accomodò a un tavolo. In quello di fronte a lei era seduto un uomo solo, i vestiti bagnati di pioggia. Aveva i capelli cortissimi, che sommati a quel fisico massiccio, lo sguardo serio e un’ombra di barba gli davano un’aria da soldato della Legione straniera. Era vestito in modo classico, si vedeva che aveva buon gusto. Non aveva la fede al dito, e le dava l’impressione di una persona solo, ma a cui la solitudine piaceva. La donna si divertì a immaginare chi fosse quell’uomo e che vita facesse. Eccolo qui il nostro commissario Strega, un uomo imponente, affascinante ma molto tormentato: tormentato dalle sue vicende personali, ma anche dal suo stesso lavoro, un lavoro che gli entra dentro e non lo abbandona mai. Si insedia nella sua testa come un’emicrania che trova pace forse soltanto una volta che arriva alla verità. Ossessione o professionalità? Tra queste due opinioni si dividono colleghi, superiori, detrattori e difensori, ma anche noi lettori. Sì perché fuori dall’ambiente lavorativo, una volta dismessa la maschera del commissario, in pochi sanno cosa si nasconda dietro Vito Strega. Un uomo che si ritira nel suo loft, tra musica jazz e libri, che ha scelto come sua compagna Sofia, gatta nera e un po’ gelosa, e come sua confidente Jessica, una ragazzina di quattordici anni sua vicina di casa.
Strega si trova, a causa del suo lavoro, a fare i conti con i più atroci crimini e se in Il Canto degli Innocenti era riuscito a capire cosa spinge una serie di ragazzini a diventare dei feroci killer, in La Scelta del buio il caso su cui deve indagare sembra sicuramente più semplice. Appena rientrato in servizio operativo gli viene affidato un compito facile: indagare, pro forma, sulla morte di un collega, Roberto Larocca. Tutto sembra far pendere l’ago della bilancia verso il suicidio: Larocca si è sparato con la sua pistola di ordinanza, nessun segno di effrazione nella casa dove è stato trovato il corpo, un biglietto d’addio nella stanza. Ma allora perché Strega sente fin da subito che c’è qualcosa di sbagliato in quel caso?
Pulixi anche questa volta ci regala un romanzo che è capace di catapultarci nel buio insieme a un personaggio con cui è impossibile, nel bene o nel male, non entrare in sintonia. Strega alzò il volume dell’autoradio. Presagiva già l’eccitazione data dalla caccia e il brivido vitale per essere tornato di nuovo in gioco. Era consapevole che rituffarsi nel buio l’avrebbe fatto stare male. Ma al momento il buio era tutto ciò che gli era rimasto. L’unica cosa che desse un senso alla sua vita. Per scoprire qualcosa di più su questa serie non vi resta che assistere alla presentazione che avrà luogo a Pisa il 23 settembre alle ore 18:00 nel chiostro della Chiesa del Carmine. Immagini tratte da: https://www.edizionieo.it/book/9788866328735/la-scelta-del-buio I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/ Potrebbe interessarti anche:
I Giorni del Potere, primo capitolo di una serie di sei romanzi dedicato all’ultimo periodo della storia repubblicana di Roma, ricostruisce con verosimiglianza le vicende politiche, sociali e militari del I secolo a.C. che condussero Gaio Mario al potere. Colleen McCullough, scrittrice australiana resa celebre da Uccelli di Rovo, alterna, sapientemente, ipotesi romanzesche a veridicità storica. Questa verosimiglianza trasporta il lettore, sin dalle primissime pagine, nei vicoli del Foro, del Palatino e della Suburra.
Nei Giorni del Potere la McCullogh ripercorre l'ascesa di Gaio Mario, un uomo dalle grandi ricchezze e dalla brillante carriera militare che diventa generale e governatore di una provincia straniera. Poiché appartiene a una modesta famiglia di Arpino e non scorre in lui “vero” sangue romano, rischia di vedere sfumare il coronamento dei suoi sogni, da anni ostracizzati dall’invidia dei patrizi. A questa figura in forte ascesa si contrappone Lucio Cornelio Silla, un personaggio maggiormente esaltato nei Giorni della Gloria, patrizio dalla nascita, di nobili origini ma “offuscato” dalla etichetta di Don Juan, amante delle donne, dei piaceri e per questo incapace di mettersi in luce nell'esercito e nel foro romano. La vita di Gaio Mario cambia radicalmente una notte del 110 a.C., quando Cesare, avo del ben più celebre Giulio, propone all'homo novus di favorire la scalata sociale dei suoi figli, garantendogli prestigio sociale, in cambio di sua figlia Iulia. Un’occasione irripetibile per Mario che ha l'opportunità non solo di cancellare l'etichetta di uomo dalle umili origini sociali, ma di aspirare, concretamente, al consolato. ![]()
Machiavellica è invece l'ascesa di Lucio Cornelio Silla che, geloso del successo dell'inizialmente amico Gaio Mario e stanco di essere etichettato come un donnaiolo, precludendogli di fatto ogni possibilità di carriera politica, uccide Clitumna e Nicopolis in modo da essere l'unico erede dei loro beni. Ottenuto il censo di cavaliere, Silla sposa Iulilla, la seconda figlia di Cesare, diventando cognato di Mario. Eletto console, vince in tempi brevi la guerra contro i numidi, catturando Giugurta grazie a uno stratagemma ideato da Silla. La vittoria sui Cimbri e i Teutoni ad Aquae-Sixtiae costituiscono il punto più alto della carriera di Mario, minacciata da un senato sempre più ostile nei suoi confronti.
Se l'antico presagio dell'anziana Martha - qualcuno avrebbe cancellato le sue gesta nel giro di pochi anni - inizia a cambiare radicalmente la figura di Mario, portandolo a un crescente odio verso Lucio Cornelio Silla e a pensare che mai avrebbe raggiunto il settimo consolato «solito vecchio Senato, il solito vecchio Popolo, la solita vecchia Roma; il solito vecchio Caio Mario. Vecchio, quarantasette anni. Tra un anno ne avrebbe avuti cinquantasette, e l’anno dopo sessantasette, e poi l’avrebbero issato al centro di una pira di tronchi e fascine e sarebbe svanito in una nuvola di fumo. Addio, Caio Mario, parvenu dei porcili di Arpino, neppure cittadino di Roma», il cognato fatica sempre più a nascondere la sua natura crudele. I Giorni del Potere, per quanto sia un ritratto della Roma repubblicana inevitabilmente romanzato, racconta in modo fedele e minuzioso gli usi e i costumi di quel tempo; inoltre, ci presenta dei personaggi vividi, reali, che amano, si arrabbiano, pensano, piangono e muoiono. Questa la fine non solo del romanzo, ma della giovane Iulilla, suicidatasi dopo aver scoperto che Silla aveva una relazione omosessuale, che vede un irato Gaio Mario minacciato da una nuova figura, Caio Giulio Cesare, figlio di Aurelia Cotta e di suo cognato Caio Giulio.
Immagini tratte da:
http://win.storiain.net/arret/num193/artic7.asp.
Sam Selvon e i Londinesi Solitari
L’Inghilterra è per molti, nell’immaginario comune, una terra di possibilità. Lo è per tutti coloro che per i motivi più diversi sono costretti a emigrare in cerca di un futuro migliore o per chi, semplicemente, cerca un humus più positivo in cui sviluppare i propri talenti; lo era ancor più nel secondo dopoguerra quando, dopo che l’Europa era stata ridotta in macerie dalla macchina militare nazista, la Gran Bretagna cominciò a riprendersi e a ricostruire soprattutto il morale del popolo inglese. Fu in questa fase che iniziò la serie di immigrazioni che portò Londra a diventare quella capitale multiculturale che oggi conosciamo. Erano gli anni ‘50 e tra i numerosi scrittori provenienti dalle colonie ve ne era uno, Sam Selvon (1923-1994), che più e prima di altri comprese che cosa significava il distaccamento dalla propria terra di origine. Selvon veniva dall’isola di Trinidad come il collega V.S. Naipaul, e come lui sperimentò in prima persona il senso di alienazione e perdita di identità a cui erano soggetti tutti coloro che provenivano dalle colonie. Il romanzo per cui Selvon è più noto si chiama Londinesi Solitari (1956) e vede come protagonista Moses muoversi nella città di Londra; in effetti la trama si riduce a poco più di questo perché la sensazione che si ricava maggiormente dalla lettura di questo romanzo è quella di un’intera città in movimento filtrata dallo sguardo del protagonista. Leggiamo dei modi diversi in cui si articola la vita di un immigrato di allora tra donne facili, ricerca di lavoro e i tentativi di mantenere i propri usi e le proprie abitudini. Tutti i personaggi che Moses incontra sono in cerca di una guida, per cui non appare casuale la scelta del nome biblico: così come Mosè aiuta gli schiavi d’Egitto a liberarsi dalla presa del faraone e a fuggire in Terra Santa, così Moses aiuta gli altri immigrati a integrarsi all’interno di un continente che tanti di loro conoscono solo attraverso il mito che l’Occidente stesso ha generato. È da qui che si alimentano speranze e sogni: rimane in mente l’idea ingenua che avevano i giamaicani delle colonie ritenendo che le strade di Londra fossero lastricate d’oro. Al di là di questo però esiste anche il rovescio della medaglia: è possibile interpretare il romanzo a partire delle parole iniziali con cui Selvon avvia la narrazione parlando di “città irreale” (unreal city). Ogni volta che nella letteratura inglese del Novecento si parla di città irreali si fa sempre riferimento in modo più o meno esplicito alla Terra Desolata di T.S. Eliot, e, nell’uso che fa Selvon del termine, l’irrealtà sta nel fatto che Londra non corrisponde esattamente all’immagine che Moses se ne era fatto all’arrivo. La Londra di Selvon è plumbea, spesso cupa come se fosse anch’essa soffocata e annegata nei fiumi di alcol che Moses vede scorrere ogni sera; questa immagine si lega all’alienazione provata da chi venendo dalle colonie si ritrova a perdere parte della propria identità che deve essere costantemente messa in discussione nel rapporto con gli inglesi.
Trinidad non è infatti un luogo neutrale, è il luogo dove vivono quelli che Naipaul chiamava I Mimi, persone che non sono realmente se stesse ma imitano in modo più o meno consapevole gli atteggiamenti e la cultura della madrepatria a causa di un senso di inferiorità culturale trasmesso nei secoli dall’Occidente alle sue colonie. Questo sentimento era tanto diffuso da costituire un argomento di discussione all’interno della stessa psichiatria, infatti è di Frantz Fanon l’espressione I Dannati della Terra usata per indicare tutte quelle persone che subivano l’influenza negativa dell’Occidente e che auspicavano il sorgere di un movimento terzomondista che potesse liberare le colonie da giogo degli inglesi.
Per quanto riguarda invece il ricorso costante alle prostitute da parte degli immigrati del romanzo di Selvon e dello stesso Moses, questo si lega alla teoria relativa all’antropologia del viaggio la cui ultima fase è, appunto, quella dell’erotismo. L’erotismo è il modo che ha il viaggiatore di entrare a contatto con la cultura altra e la donna che ne diventa il mezzo fa da mediatrice tra le due culture. Assistiamo, nel caso di Selvon, a un rovesciamento della situazione classica per due motivi: innanzitutto a compiere il viaggio non è un occidentale (a cui si applicano generalmente queste categorie), ma un uomo delle colonie e in secondo luogo perché l’erotismo diventa una fonte di esotismo che attrae nelle grinfie dello stereotipo sia le inglesi che interpretano, pur con le migliori intenzioni, la diversità come fonte di orgoglio vanesio nel possedere qualcosa che le altre non hanno, sia gli immigrati che vedono l’erotismo come occasione di riscatto e acquisizione di valore di fronte all’Occidente, senza rendersi conto che si fanno vittime inconsapevoli di una nuova forma di dominio, più subdola: quella che porta a pensare di essere tutti fratelli, mentre in segreto, di nascosto, affiliamo le armi.
Bibliografia:
V.S. Naipaul, I Mimi, Adelphi, Milano, 2011. F. Fanon, I Dannati della Terra, Einaudi, Torino, 2007. Immagini tratte da: http://www.ewallpapers.eu/55986-dark-london.html https://www.amren.com/features/2013/07/the-lonely-londoners/ http://www.brixtonblog.com/comment-immigration-lets-hear-it-for-the-pioneers/34680
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Una delle critiche più frequenti rivolte spesso ai social network è quella è di contribuire alla perdita d’identità nel momento stesso in cui questo sembra difenderla, in altre parole di consentire l’esposizione di sé su una vetrina virtuale dove chiunque può vederci, ed essendo così legati all’immagine che gli altri hanno di noi tendiamo a ripetere quelle stesse caratteristiche psico-fisiche che si ritrovano negli altri. Perché in fondo è un gioco all’omologazione e niente di più.
Vengono allora rievocate le più inquietanti distopie, tra cui la sindrome da controllo orwelliana (fondata fino ad un certo punto) oppure quella più calzante di Huxley e il suo “mondo nuovo”. Ancor più di questi, però, risulta incisiva e a mio parere più pertinente (proprio perché meno legata all’interpretazione, ma alla contestualizzazione storica) la critica rivolta dagli scrittori modernisti, in particolare Virginia Woolf (1882-1941) alla nascente società capitalista. ![]()
Il capitalismo di cui si parla qui rappresenta gli albori del capitalismo delle multinazionali, come venne definito da Fredric Jameson negli anni ’70. I fenomeni a cui assiste la Woolf sono molto concreti: la folla che percorre le strade di Londra, il procedere indaffarato delle persone, l’incremento dei ritmi lavorativi e il linguaggio della politica che cambia rivolgendosi non più alle singole classi sociali, ma alla massa. Quest’ultima è una parola chiave per la Woolf: i suoi romanzi, specie quelli più sperimentali come Mrs. Dalloway (1925) testimoniano di quanto il mondo stava cambiando sostituendo l’individuo con la massa, cosicché le singole differenze individuali scompaiono sotto il peso della collettività. La poetica modernista riattribuisce valore all’esperienza individuale nei suoi dettagli più insignificanti.
La signora Dalloway del romanzo di Virginia deve organizzare una festa che si terrà la sera e il romanzo attraversa l’intera giornata raccontando che cosa fa e che cosa pensa questa donna. Abituati come siamo oggi a una trama ricca di avvenimenti questo romanzo può apparire vuoto, ma in realtà contiene l’uomo (o la donna in questo caso). Veniamo a sapere che l’uomo di cui era innamorata è appena tornato dall’India e questo le rievoca pensieri che pensava di aver rimosso quando si era sposata. Veniamo a conoscenza della storia di altri due personaggi le cui vicende scorrono parallelamente a quella di Clarissa Dalloway, Lucrezia e Septimus. Quest’ultimo è forse il personaggio più bello del romanzo e la storia d’amore con Lucrezia è una delle più belle della letteratura inglese perché più vera. ![]()
Septimus è un disadattato nel senso proprio del termine, un ex soldato che dopo aver combattuto nella prima guerra mondiale e aver visto uno dei suoi compagni morire è ossessionato da allucinazioni ricorrenti in cui vede il suo amico calpestare una mina e saltare in aria. Septimus è per Virginia il prototipo dell’artista, il visionario che vede cose che gli altri non vedono perché abituati a vivere una realtà ovattata dove nascondono tutti i loro tormenti di esseri umani. Septimus è anche colui che, proprio perché vede così chiaramente il mondo, si rende conto dello scartamento esistente tra la realtà della guerra sul Continente e la realtà delle tazze di tè in Inghilterra.
Il suicidio finale di Septimus (che sostituisce quello non messo in atto dalla signora Dalloway) rompe il legame con Clarissa. Nonostante i due personaggi non si siano mai conosciuti, le loro storie sono legate perché, pur vedendo entrambi le stesse cose (anche se non con la stessa chiarezza) la Signora Dalloway è disposta a rinunciare a una parte di sé per giocare il suo ruolo nella società di massa. Il talento di Virginia Woolf sta nell’esplicare il problema della perdita di individualità attraverso un gioco di società: afferma la linguista e sociologa Deborah Tannen che l’interazione con gli altri è frutto di una negoziazione tra le proprie necessità di autonomia e le richieste dell’altra persona di rinunciare a parte di essa per accoglierla.
Nei rapporti sociali descritti da Virginia Woolf questo principio si trasforma in un gioco al massacro. Troppo si perde di sé nella società di massa e così facendo Clarissa Dalloway è spinta sempre di più a tentare di ribellarsi a questo stato di cose: vorrebbe quindi esporre apertamente i suoi dubbi e le sue esitazioni ai suoi ospiti, vorrebbe annullare la festa ma alla fine le esigenze del gruppo prevalgono su quelle dell’ospite. Per Septimus non è così e paradossalmente proprio perché visionario, proprio perché vede cose che non vengono viste dagli altri è libero. La sua libertà si manifesta rifiutandosi di partecipare al gioco al massacro, negandosi la vita. Non tutti sono in grado di gestire questa libertà, per questo servono i visionari: perché fanno la cosa giusta quando gli altri non ne hanno il coraggio.
Fonti: F. Jameson, Postmodernismo, Ovvero la Logica Culturale del Tardo Capitalismo, Fazi Editore, Milano, 2015. D. Tannen, Ma perché non mi capisci?, Sperling & Kupfer, Milano, 2004. Immagini tratte da: http://soniatoncelli.blogspot.it/2015/07/virginia-woolf-e-il-suo-amore-per-il.html https://www.ibs.it/signora-dalloway-libro-virginia-woolf/e/9788807900594 https://thelarkandtheplunge.wordpress.com/2015/01/25/il-soldato-di-virginia-woolf/
Giampaolo Simi torna con un nuovo giallo Sellerio
Giampaolo Simi, scrittore e sceneggiatore classe 1965, è tornato recentemente e prepotentemente sugli scaffali delle librerie nazionali con un nuovo giallo edito da Sellerio: La ragazza sbagliata.
Dopo la neve che ricopriva Viareggio nel suo Cosa resta di noi, edito sempre da Sellerio nel 2015, Simi decide di ambientare anche la sua ultima opera nella sua Versilia: "Dovessi riassumere in poche righe la Versilia, direi che il mare è la coperta e la spiaggia il risvolto morbido del lenzuolo. E se le Alpi Apuane sono la testata del letto, le colline coperte di ulivi e castagni sembrano cuscini per appoggiare la testa."
Romanzo autoconclusivo quello dell’autore, un giallo particolare, psicologico, con una forte attenzione nella delineazione dei personaggi, senza sfociare nel thriller. La morte, quella presente in ogni giallo che si rispetti, c’è, ma è una morte lontana, avvenuta ben ventitré anni prima del presente della narrazione. Un omicidio brutale, una ragazza appena diciottenne scompare da Marina di Pietrasanta; il corpo di Irene Calamai viene ritrovato solo qualche tempo dopo, ma le indagini sono già in corso e dopo un lungo processo viene incriminata una ventenne, Nora Beckford, figlia di un famoso artista inglese trapiantato in Toscana. Ma chi è che scoperchia un vaso di pandora già chiuso? Lo stesso giornalista che allora aveva seguito il caso per un giornale locale: Dario Corbo. La volontà di rivalsa, il bisogno di nuovi stimoli, ma soprattutto di denaro, è ciò che fa immergere di nuovo Corbo in una storia chiusa dentro polverosi scatoloni. Ma presto quello che Corbo e il lettore si troveranno ad affrontare è qualcosa di ben più complesso di quello che appare in superficie.
Una storia ben congegnata, una scrittura scorrevole, ma soprattutto una narrazione che tiene con il fiato sospeso, dove il lettore non ha mai la sicurezza di potersi fidare della voce di nessun personaggio, da quelli principali fino ai più marginali. La verità si rivela in tutte le sue molteplici sfaccettature, a volte anche contraddittorie; Simi ci mostra con abilità come sia spesso facile dirottare l’attenzione verso quello che è più comodo far credere, come spesso ciascuno di noi riesca a celarsi dietro la facciata più semplice e come noi stessi preferiamo credere a quella facciata piuttosto che provare a scavare, anche una sola volta, più in profondità. Il protagonista di Simi, Dario Corbo, deciderà di scavare, ma presto capirà che una volta iniziato, oltre a non poter tornare indietro, dovrà anche scegliere la sua verità. La ragazza sbagliata si rivela un libro interessante e completo, dove le storie individuali, con tutte le loro problematiche e criticità (separazioni, crisi lavorative, rapporti genitore-figlio,…), si intrecciano a quella che è stata anche la storia nazionale del nostro Paese. Sfondo di queste vicende una Versilia ambivalente: quella presente dalle tinte noir, tra luoghi abbandonati e una ricchezza ostentata ma quasi decadente; riaffiora poi nei ricordi quella passata, la nostalgia dell’estate spensierata dei ragazzi liberi dalla scuola e carichi di aspettative per il futuro. Se avete già letto La ragazza sbagliata o se questo breve articolo vi ha invogliato a farlo, non perdetevi la presentazione organizzata dalla Libreria Fogola: Giampaolo Simi sarà a Pisa sabato 9 settembre alle ore 18:00, presso il chiostro della Chiesa del Carmine
Foto tratte da:
https://www.alpassoconilibri.it/books/la-ragazza-sbagliata/10596 I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/?hc_ref=ARSRlR56_Kqd_xQcg8Acu93AF9RyghsJnjOGwjid-UDm2UsvOWAp6alzv0L-swrXe4s
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