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28/9/2019

La campana non suona per te

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I nuovi taccuini del vecchio sporcaccione
Di Cristiana Ceccarelli
Charles Bukowski, controverso scrittore americano, è stato uno dei massimi esponenti della corrente letteraria possibilmente definibile come realismo sporco. L’underground in lingua inglese è stato infatti  la sua palestra per oltre 40 anni ed essa ha trovato in lui il più scostante dedicato avventore.

Lo scrittore e poeta ha raggiunto nel tempo una voce e penna inconfondibile, un misto tra il suo genio e una particolare metodicità artigianale, attraverso le quali è riuscito a far propri gli stili più disparati, dalla poesia al pezzo giornalistico per arrivare ai racconti e ai romanzi.

Bukowski ci ha raccontato l’America come nessun altro ha fatto: ha fatto come se non se ne interessasse, come se non ci fosse, ma a una lettura attenta tutte le sue sfaccettature sono lì, causa e conseguenza dei personaggi e di lui stesso.
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La campana non suona per te è un libro che riunisce i racconti apparsi sulle riviste tra il 1948 e il 1985: racconti settimanali per i quali lo scrittore attingeva dalla sua travagliata e piena esistenza e contemporaneità.
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Copertina del libro La campana non suona per te, Charles Bukowski
Il centro di questi racconti sono appunto le scorribande dello scrittore stesso, sia riportate in prima persona che fatte rivivere da alter ego non così poi dissimili.

Irriverente, sincero, Bukowski sembra dire tutto e non nascondere niente: ed è così. Però c’è qualcosa di sotterraneo alle vicende, un eclissi di vigore, tenacia, che può forse coincidere con una grande sofferenza tenuta lontana dal porto che colora anche le pagine oltre la lingua. Possiamo percepirne l’odore acre nel ventaglio delle condizioni di disagio, quasi berne anche noi un bicchiere nelle serate più esasperate, un bicchiere scadente per un brindisi alla stranezza del mondo.

E per quanto nei suoi racconti la stravaganza, l’alcool e il sesso possano far pensare a una vita vissuta pienamente e senza indugi, senza il benché minimo barlume di serietà, questa sregolatezza può essere associata a una conseguenza di consapevolezza estrema, talmente ampia da essere difficile da sopportare. Ed è questa serietà, proprio perché apparentemente assente, a svelarsi come peso aberrante, a rendere la vita mediocre protagonista, perché sfiancante per le coscienze che devono sopportarla. Uomini stanchi, che si dilettano poco e si ubriacano tanto; vite spericolate, al limite. E c’è anche della politica dopotutto: la politica dagli occhi dei dimenticati e discriminati, abbandonati.

Bukowski non è per chi crede che la buona letteratura possa essere definita tale solo in presenza di profondi pensieri pedantemente e pretenziosamente riportati, che i veri scrittori debbano definirsi tali perché ermetici veramente; al contrario ci insegna che è la condivisione di una condizione comune a rendere la letteratura davvero fruibile, che c’è un universo nascosto anche quando le frasi sono semplici e sembrano già palesare tutta la verità. Perché non c’è cosa peggiore dell’omologazione, che credere che qualcosa è solo perché lo credono gli altri, dell’essere chi non siamo davvero: e lui ha vissuto così, come credeva andasse fatto, non senza alcuni rimpianti certo, o incertezze, ma se si fosse adeguato solo per lo scopo di essere simile a prototipo convenzionalmente dipinti, i suoi racconti non sarebbero certo stati così calamitanti, attraenti, veri.

E con semplici parole ha descritto una grande verità: deve essere bello avere una mente omologata alla massa, credere a tutto quello che troviamo preconfezionato, senza esitare, tentennare; vivere senza miscugli, sovrapposizioni.
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Il problema è per chi non riesce a vivere così.

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21/9/2019

Fuga senza fine

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Un turbinio inarrestabile
Di Cristiana Ceccarelli
Fuga senza fine è un romanzo di Joseph Roth, scrittore e giornalista austriaco, pubblicato per la prima volta nel 1927 che racconta la storia di un solo personaggio.
“Non ho inventato né aggiustato nulla. Ormai non si tratta più di creare. L’essenziale è ciò che si è osservato.”, scrive Roth nella premessa.
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E la storia del suo amico, di cui appunto racconta, è tratta dai suoi appunti e racconti, in un susseguirsi di eventi storici che se non si riducono a sfondo, sono inscindibili da questa melliflua figura che è Franz Tunda, il protagonista.

Un unico personaggio che al lettore risulta centrale non solo della sua storia personale ma anche di tutte le vicende dell’epoca che attraversa in modo inconscio ma attivo.

Franz infatti sembra essere il centro del mondo e dell’universo intero; tutto sembra ricondurre a lui, che non cerca ma viene trovato, come un catalizzatore involontario di una vita fin troppo senza senso per fermarsi a cercarlo.

Ecco allora che durante la sua storia è un ufficiale asburgico e poi un rivoluzionario dell’armata rossa, amante di una combattente che vuole quello che dice di disprezzare e poi fidanzato di una muta paesana di un paese lontano: Franz vive i primi anni di governo sovietico e un’Europa difficile, e passa attraverso tutte queste realtà senza arrestarsi mai.

Questa sua fuga senza fine non ha una vera e propria ragione, non è per coraggio o codardia né per curiosità, è un vento che spinge e basta, che spinge non con inquietudine ma con la quiete di chi prende consapevolezza che non c’è altro senso se non il vivere stesso e quindi, non ha nulla da perdere.

Tunda vive, e vive mille vite diverse rimanendo sempre lo stesso: un uomo che non ha niente e che a niente appartiene; e in questo personaggio possiamo ritrovare un po’ l’accenno biografico dello scrittore stesso e della sua vita da nomade. Una vita di scelte apparenti per un implacabile destino da disperso.

Una storia che a strati spoglia il protagonista delle proprie conquiste occasionali, una rovina a cui sembra contribuire per divertimento alla sfida della vita stessa, fino al ripiegamento nichilista su una scalinata parigina.

Tunda, come altri personaggi innovativi della letteratura (Holden, Gatsby), è un personaggio nuovo e brutalmente critico ed evocativo, vero, che cattura per l’imprevedibilità e l’intransigenza verso il mondo; un’intransigenza che in realtà non si potrebbe permettere, perché non fa niente, non costruisce o aiuta. Il suo passaggio è quasi invisibile nel mondo perché inconsistente, il suo fievole contributo inutile perché non convinto.

Eppure lo è, si permette di esserlo, e questa intransigenza attrae il lettore e innesca un profondo processo di identificazione che lo fa avvicinare talmente tanto da considerare il libro quasi come una guida non da emulare ma a cui fare riferimento quando l’esistenza sembra acquisire la pesantezza che ha; perché Fuga senza fine è proprio uno di quei romanzi che collauda il mondo che lo ha creato, che testa la propria società paradossalmente cristallizzata in un continuo e sempre più veloce divenire di mobilità persistente. Benvenuta modernità, sembra dirci. Ecco cosa sembra aspettarci o cosa già c’è dietro l’angolo, ci avverte.

I critici hanno indicato questo libro come quello più vicino a Roth e alla sua grande sensibilità alla disgregazione del mondo moderno, una disgregazione sofferta che si ripiega sulla vita di chi dalla modernità è costantemente cercato. Un’ambivalenza dalle linee limpide e concrete che si traduce in tanti viaggi senza meta alcuna se non il viaggiare del tempo stesso.

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