IL TERMOPOLIO
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22/9/2021

Nella polvere

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di Lorenzo Vanni
L’approccio che adotta l’Occidente nei riguardi dell’Africa tende sempre a enfatizzare un certo modo di intendere la cultura dell’uno e dell’altro. Una, quella europea, civilizzata che prende se stessa come riferimento e modello su cui plasmare il resto del mondo visto, nel caso di molti paesi africani e non solo, come barbaro ed estraneo alla modernità; un’altra, quella africana, vista come terra di conquista, arretrata in una preistoria da cui deve essere sottratta per il suo bene.
   Questo atteggiamento neo-colonialista è al centro di un romanzo di Lawrence Osborne intitolato Nella polvere e pubblicato nel 2012, ma tradotto solo quest’anno da Adelphi. Il paese africano a cui qui si fa riferimento è il Marocco e l’ambientazione ci è pienamente familiare: in mezzo alla semi-povertà che esiste in molte città del paese, ci sono angoli abitati da occidentali (liberali, capitalisti, filantropi in questo ordine) dove ogni traccia di alterità è rimossa dalla vista.
   I protagonisti sono due inglesi che vengono invitati in Marocco a trascorrere un fine-settimana in uno ksar, una città fortificata in mezzo al deserto, allestita appositamente per occidentali, rimossa dallo sguardo della popolazione locale e in cui si ritrovano inglesi, americani e francesi per passare dei giorni di baldoria in totale spregio della povertà degli abitanti locali e, probabilmente, nell’illegalità. Quando la coppia di inglesi percorre la strada che li condurrà allo ksar di Azna, investono un uomo che invade la strada cercando di vendere loro dei fossili, commercio fiorente della zona. 
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    L’evento traumatizza la donna, ma l’uomo avverte solo uno spiacevole fastidio. Arrivati alla festa, tutto procederà nell’indifferenza pressoché totale finché non si presenterà il padre dell’uomo investito che pretende che l’investitore partecipi al funerale del figlio.
   L’interesse del romanzo sta nel duplice racconto che fa delle due figure del ragazzo investito e dell’investitore, David; il primo soprattutto è un personaggio sfaccettato nel passato che evoca dopo il suo viaggio in Europa, con le sue promesse di felicità come deve averne per un abitante del Marocco. Eppure nonostante questa sua disposizione tendenzialmente positiva, rimane legato alla propria cultura di origine che lo porta a leggere tutto con la chiave della religione. Così come gli occidentali dello ksar leggono tutto alla luce del loro europeismo con tutto quello che significa: sfruttamento economico a discapito della popolazione locale.
   Sono due facce della stessa medaglia e il vero problema del rapporto tra l’occidente e il resto del mondo: la polarizzazione che divide il dominio della religione, sintomo di una cultura arcaica, dal dominio dell’economia, sintomo del progresso. I rapporti umani sono visti dagli occidentali come oggetto di monetarizzazione come altri elementi della vita.
   Osborne è occidentale e critica quel che conosce, l’Occidente: l’Occidente è corrotto, venale e classista. Questo, ci dice. Non che non si sapesse, ma fa sempre bene ribadirlo.
   
Fonte immagine:
amazon.it

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15/9/2021

E se la ruota non gira?

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di Beatrice Gambogi
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Angela e Roberto sono sul divano, abbracciati, che guardano la televisione non troppo interessati.
ANGELA Sai, Silvia ha ricevuto una promozione.
ROBERTO Bene, sono felice per lei!
ANGELA Anche io, però… a tutte le mie amiche le cose stanno girando bene, tranne che a me! Laura ha addirittura fatto un servizio per “Vanity Fair”! E Katia l’hanno presa a insegnare canto in quella scuola di cui ci parlava. Io invece nell’ultimo mese ho fatto solo un provino!
ROBERTO Ma quello che vuoi fare tu, amore, è molto difficile…
ANGELA Anche quello che vogliono fare loro è difficile! Ma stanno vedendo dei risultati. Io invece…
Roberto la tira a sé con il braccio, stringendola più forte.
ROBERTO Vedrai che la ruota girerà!
ANGELA E come gira?
ROBERTO In che senso?
ANGELA Come gira? In che senso gira? Io posso fare qualcosa per aiutarla a girare? E se non girasse mai?
ROBERTO Non sono mica un indovino… ma uno non può essere sfortunato per tutta la vita.
ANGELA E invece sì!
ROBERTO Ma è raro. Di solito la vita è fatta di alti e bassi.
ANGELA E se la mia fosse fatta di bassi e di bassissimi?
ROBERTO (facendo il finto offeso) E quando hai conosciuto me cos’era, un basso o un bassissimo?
ANGELA Mi riferisco alla vita professionale, non alla vita in generale.
ROBERTO Ma tu vivi la tua vita in generale, la tua vita tutta, mica solo la vita professionale. Che però è molto importante, questo lo capisco.
ANGELA (poco convinta) Mmm…
ROBERTO Qui c’è bisogno di una tisana allo zenzero, mi sa!
ANGELA Sììììì, grazie. La fai tu?
ROBERTO (alzandosi) Vado. Ci vuoi anche un po’ di miele?
ANGELA Sì, un bel cucchiaione! Ne ho proprio bisogno!
Roberto va in cucina.
ANGELA (urlando) Mettici anche un pochino di cognac! (piano) Che ho bisogno anche di quello...
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Immagini tratte da pexels

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8/9/2021

Eugenio Montale: della razza di chi rimane a terra

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di Agnese Macchi

Ci vuole più coraggio a scegliere il mare o la terra? L'istinto o la ragione? È meno doloroso vivere in un’armonia panica con la natura senza affermarsi come singoli, o costruirsi faticosamente un’identità sulla terra attraverso i doveri e con impegno e sacrificio?   
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Sono questi i quesiti che convivono in “Falsetto”, un componimento montaliano compreso nella prima raccolta del poeta, Ossi di seppia, pubblicata nella sua prima edizione nel 1925. Il titolo della raccolta poetica ci lancia già di per sé un segnale, gli ossi di seppia sono scarti del mare, trasportati sulle rive dalle correnti e dalle onde, rifiuti del mare alla deriva. La protagonista della poesia “Falsetto" è Esterina, forse riconducibile a una certa Esterina Rossi, conoscenza delle estati giovanili di Montale alle Cinque Terre. Esterina è una giovane donna sulla soglia dei vent'anni, sostanzialmente viene colta durante l'atto di tuffarsi in mare. Tuffo che diventa allegoria di un abbraccio quasi amoroso con il mare, quindi con la natura, l'istinto primordiale dell'uomo, l'armonia con il tutto. Esterina segue l’istinto naturale e non ha paura di buttarsi fra le braccia del mare in un’esperienza di totale libertà, si realizza nell’elemento dell'acqua dove non ci sono vincoli o confini. Una donna che diventa una creatura del mare, una ninfa, un evidente richiamo alla dimensione panica della Pioggia nel pineto, di Gabriele D’Annunzio. Esterina fa parte della razza di mare, di chi sceglie l'indifferenziato e si mischia con il Tutto in una mistica metamorfosi. 
Gli occhi di chi la osserva sono però lontani, collocati altrove, radicati sulla terra. Chi la guarda non ha il coraggio di seguirla, o forse non ne ha la possibilità. Non si capisce infatti se la terra sia una scelta o una condanna, se “la razza di chi rimane a terra" condanni o ammiri Esterina per il suo coraggio. L'io, della razza di terra, si sente diverso da chi vive un'esistenza aproblematica, spensierata e accetta e si muove in totale armonia con l'andamento della vita. L'io poetico è l'osso di seppia, rifiuto espulso dal mare, radicato sulla terra, dove hanno vigore regole e leggi, e si rendono necessari impegno e sacrificio, dove hanno luogo tutte le avversità del vivere. La scelta della terra come presa di distacco dal mare è da intendere anche come fine dell'infanzia, inizio dell'età adulta, con tutte le sue preoccupazioni e sofferenze. 
Cosa spinge a differenziarsi dal mare? Cosa innesta il processo di crescita e tutte le complicazioni che questo comporta? Quale volontà getta l'osso di seppia sulla riva?  
Forse la macchina più grande mai costruita nella storia, l’artifizio immenso dentro al quale tutti viviamo, grande e dissimulato al punto di crederlo reale: la società. Forse. 
La dialettica mare-terra, libertà-prigionia, infanzia-età adulta, istinto-ragione, rimane aperta. I quesiti non trovano le risposte; non si possono trarre conclusioni. Non resta che continuare a rifletterci su… 

Immagini tratte da foto dell'autore

 

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1/9/2021

Jonathan Bazzi: limiti e doveri della letteratura

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Su un recente dibattito nato tra giornali e social
di Tommaso Dal Monte

​Cosa distingue un articolo di giornale da un racconto? Questa domanda potrebbe riassumere l’acceso dibattito nato intorno a Jonathan Bazzi, scrittore classe 1985 famoso soprattutto per il romanzo autobiografico Febbre (2019), con cui si è classificato tra i finalisti del Premio Strega 2020.

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Ma andiamo con ordine. Oltre ad essere un romanziere, Bazzi collabora con alcune testate giornalistiche ed è molto presente sui social, dove si è sempre mostrato vicino alle rivendicazione della comunità LGBTQIA+ e ad altre tematiche impegnate. Un personaggio positivo, insomma, sulla cui nettezza morale nessuno dubiterebbe. Questo fino a domenica 22 agosto, quando, nel supplemento di «Domani», il quotidiano per cui Bazzi scrive da qualche tempo, esce un testo a sua firma intitolato Lascio a voi la body positivity. Io voglio solo essere magro. Il supplemento, intitolato «DopoDomani», raccoglieva una serie di racconti, ma il layout di questi ultimi era in tutto e per tutto identico a quello dei normali articoli. Di conseguenza, chi si imbatteva nel pezzo – soprattutto nella versione digitale ‒ non aveva le informazioni paratestuali per considerarlo un testo di narrativa, e vi si approcciava pensando di leggere un pezzo d’opinione, uguale ai molti già pubblicati da Bazzi.
Dopo le prime righe, però, i dubbi si dissipano e un lettore attento capisce di trovarsi di fronte ad un testo narrativo, come suggeriscono l’uso marcato dell’aggettivazione, l’andamento drammatico e digressivo, il parossismo di certe posizioni sostenute dal narratore autodiegetico – cioè che parla di sé in prima persona ‒, un personaggio grassofobico, anoressico e che desidera continuare a perdere peso.
Subito dopo la pubblicazione e la diffusione sui social del racconto, sia a Bazzi che a «Domani» sono arrivate numerose critiche, manifestate anche in una lettera inviata alla redazione e pubblicata i giorni successivi. Queste erano incentrate principalmente su due punti: il paratesto suggerisce di leggere il testo come un articolo d’opinione; il testo è potenzialmente dannoso. Aggiungo una postilla, secondo me rimasta implicita: Bazzi è un ipocrita perché sui social si mostra in un modo mentre nella realtà è in un altro. I giudizi avanzati dai lettori sono utili per estendere il discorso dal caso singolo alla visione odierna dei doveri e dei limiti della letteratura – e ad alcuni fraintendimenti.
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​Il problema della contestualizzazione è quello più evidente, e in parte lo abbiamo già descritto. In effetti, non ci sono indizi paratestuali che indicano il genere letterario a cui il testo appartiene e, in assenza di segnali chiari, un lettore crede di leggere un articolo di giornale. Come spiegava il narratologo Gérard Genette nel suo Soglie, il paratesto è portatore di significato tanto quanto il testo, perciò un errore nella costruzione del paratesto porta a inevitabili difficoltà di interpretazione dell’opera. Il titolo stesso (Lascio a voi la body positivity. Io voglio solo essere magro) contribuisce ad aumentare la confusione, sia perché il sintagma “body positivity” allude a un tema caldo del dibattito online, sia perché l’uso della prima persona nel titolo, così decontestualizzato, sembra mettere al centro l’autore. Entrambi questi elementi, infatti, rimandano a un tipo di scrittura giornalistica ‒ incentrata sull’attualità e dove chi scrive esprime direttamente il proprio punto di vista ‒ e accentuano inevitabilmente lo spaesamento del lettore. Bazzi ha dichiarato che il titolo è stato scelto dall’editore, ma il controllo di tutti gli elementi paratestuali dovrebbe essere di competenza autoriale, tanto quanto lo è la sostanza del testo, perché entrambi determinano il significato e indirizzano un certo tipo di lettura. La critica di questo aspetto è quindi più che legittima e condivisibile.
Più problematico è invece il giudizio morale sul testo e sull’autore. Anche quando risultava chiaro di trovarsi di fronte a un racconto, a molti non è piaciuto il romanzamento dell’anoressia e l’atteggiamento grassofobico, entrambi discriminatori e dannosi per un pubblico suscettibile e, magari, invischiato in quelle stesse dinamiche. Questo senso di immoralità risultava poi accentuato dal fatto che, come detto, la figura mediatica di Bazzi è vicina a tematiche eco/gender/body friendly: oltre all’immoralità, quindi, anche l’ipocrisia. Nel caso specifico del racconto, il rischio di attribuire le idee espresse dal narratore/protagonista all’autore era anche accentuato dal fatto che il personaggio letterario era costruito come un alter ego dell’autore, con cui condivide l’orientamento sessuale e la passione per lo yoga. Tecnicamente si dovrebbe parlare di autofiction – come si dovrebbe fare per Febbre – cioè quel genere di autobiografia falsificata, in cui non dobbiamo prendere il testo come una vera confessione autoriale, ma considerare autore e narratore/protagonista come due entità distinte, portatrici di punti di vista autonomi. Tuttavia, appellarsi all’autofiction potrebbe anche essere un semplice pretesto per esprimere visioni del mondo estreme, senza però assumersene piena responsabilità ‒ come invece un giornalista è tenuto a fare.
Come capire, allora, il modo di approcciarsi al testo e giudicarlo in modo appropriato? Rispetto a un pezzo d’opinione o di cronaca, il racconto di Bazzi utilizza il pretesto dell’anoressia per parlare di un dilemma più profondo, cioè il conflitto tra desiderio e sua dannosità. Il narratore è un personaggio tormentato perché comprende che la propria ossessione è sia condannata socialmente che fisicamente nociva, ma non può respingerla con un atto di volontà. Le conclusioni a cui arriva colgono un problema reale, ma il narratore non vuole certo essere preso come modello: suscita più un senso di pena che un moto identificativo. Limitare l’analisi del testo ad un giudizio morale, basato su un livello superficiale di lettura, è una scelta lecita, ma che non coglie lo strato più profondo del racconto. Se infatti un testo saggistico o giornalistico vuole essere criticato essenzialmente per le proprie idee, un testo narrativo può accogliere qualsiasi nefandezza a patto che essa sia parte di una struttura formale impeccabile, dove i livelli si tengono tra loro e i singoli elementi hanno delle interpretazioni ulteriori. Un articolo di giornale non sarebbe stato costruito in questo modo: i suoi obiettivi sarebbero stati informare (ma servirebbero dati che in Bazzi sono assenti) o esprimere nella forma più piana possibile un’opinione, senza lo spessore che presenta il testo di Bazzi e che lo identifica come un testo narrativo.
Per la letteratura non è importante il grasso o il magro, ma salvaguardare lo spessore.

Immagini tratte da:
Immagine 1 da Profilo Facebook Jonathan Bazzi 
Immagine 2 da it.mashable.com

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