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15/10/2016

Craig e la Supermarionetta

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di Ludovica Delfino

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Il teatro, come in ogni forma artistica, riflette, con le adeguate mediazioni, lo spirito del tempo, il pensiero, le trasformazioni della società, i suoi problemi risolti e irrisolti, l’approccio a sé stessi e al mondo esterno. E’ necessario, pertanto, individuare in ogni autore, in ogni rappresentazione artistica, il quadro storico e sociale entro cui prende corpo l’opera , per individuarne eventuali aspetti superati o d’avanguardia, e per poterne raggiungere una comprensione più completa e approfondita.

Nel Novecento assistiamo alla trasformazione dell’esperienza estetica che assume la particolare configurazione di un’esperienza non vincolata alle emozioni, al sentimento e al sentire soggettivo, come era stato in precedenza.

La de soggettivazione del sentire estetico operata dalla psicoanalisi e dalla filosofia nel secolo scorso ha aperto, infatti, uno squarcio nel cuore del soggetto moderno.

Filosofia, psicoanalisi, arte e teatro vengono smosse da una nuova concezione dell’io, a dispetto del cogito cartesiano, del naturalismo, dello stesso idealismo, e si insinua l’idea che scendendo al di sotto di un’identità che appare sempre più immaginaria che reale, quello che riusciamo a toccare è soltanto il proprio nulla.

L’Io non è più soggetto, viene decostruito; eppure, è proprio a partire da tale decostruzione dell’io che si rende possibile un’intimità, del tutto nuova, che è altra cosa dalla presenza a sé. Approssimarci a noi stessi vuol dire sperimentare tutta la distanza che ci separa dall’ideale di una presenza piena e senza scarti: sperimentare un soggetto che si coglie proprio in questo scarto, vacillamento, taglio.

Là dove vi è questa mancanza, una non reperibilità a sé, sorge un soggetto che appare nell’istante in cui sparisce, dandosi come ciò che sempre sfugge.

La percezione di sradicamento e frammentazione ha investito nel suo processo il teatro che non poteva che essere parte attiva del progressivo superamento della visione statica dell’identità. Molta parte del teatro del Novecento ha, infatti, non solo modificato l’accezione positivistica dell’io, che lo vedeva come sostanza razionale unitaria, ma anche approfondito il percorso dell’articolazione e della dislocazione dell’identità, fino a prospettarne la ritrazione nell’impersonalità e nel corpo-marionetta.
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Tra gli artisti che si sono ritrovati in mezzo a questo processo spicca la figura di Craig che , con la teoria della “Supermarionetta”, risolve l’imperfezione dell’attore, prigioniero dello scarto tra coscienza-emozione-azione, attraverso la cancellazione del corpo organico-vivente in nome dell’inorganico, attraverso l’utilizzo di un’ “entità fatta di sottomissione e di silenzio, antitesi dei risvolti emozionali della figura umana”.

Secondo Craig l’attore, in particolare le sue emozioni e sentimenti, potevano essere d’ostacolo alla rappresentazione, in quanto non perfettamente controllabili, e da qui l’impossibilità di raggiungere la perfezione artistica a cui egli mirava. Pertanto crea questa sorta d’artificio, la Supermarionetta, che si elevava al di sopra delle convenzionali pratiche teatrali con una nuova pratica basata sul movimento, un movimento automatico e macchinoso, non più personale ma impersonale.

La perfezione si esplica attraverso questo strumento meccanico che rappresenta la proiezione del nostro Io più esaltante, libero dal vincolo delle emozioni:
“[…] per produrre un’opera d’arte qualsiasi, possiamo lavorare soltanto con quei materiali che siamo in grado di controllare. L’uomo non è uno di questi materiali […] le azioni fisiche dell’attore, l’espressione del suo volto, il suono della voce, tutto è in balia dei venti delle sue emozioni”.

“[…] non dovrebbe più esserci una figura viva atta solo a confonderci, facendo tutt’uno di “quotidiano” e arte; non una figura viva nella quale siano percettibili le debolezze e i tremiti della carne. L’attore deve andarsene, e al suo posto deve intervenire una figura inanimata – possiamo chiamarla la Supermarionetta”.

Tuttavia, al di là delle soluzioni proposte, è centrale la necessità, in Craig, di portare il teatro oltre i confini personali dell’attore: “Io non credo assolutamente nella magia personale dell’uomo, credo soltanto nella sua magia impersonale”, ed è da qui che si fa avanti l’idea di un teatro che vuole spingersi al di là del reale manifesto, per toccare gli aspetti più oscuri e obliqui dell’essere.
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Immagini tratte da:

- http://spazioinwind.libero.it/eleonoraduse/_private/craig2.htm
- http://www.digitalperformance.it/?p=2125
- http://www.doppiozero.com/materiali/doppiozero-guarda-ted/marionette-con-lanima

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15/10/2016

Dylan Dog 361: Mater Dolorosa

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di Marco Messina

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Esiste un profondo legame che da sempre  unisce dolore e conoscenza. E’ su questo secolare connubio che ruota tutta la storia imbastita da Roberto Recchioni e Gigi Cavengo, nata per festeggiare i primi trent’anni dell’indagatore dell’incubo. 
Sequel ideale di Mater Morbi (sempre di Recchioni), storia dai toni molto drammatici sugli aspetti più controversi e seducenti della malattia, Mater Dolorosa è, di contro, incentrata sul Dolore nel senso più trasversale ed esistenziale del termine. Sentimento profondo e muto, il dolore è qui rappresentato come un mal di vivere (presunto o reale) gridato in maniera scomposta e inarticolata. In quanto tale, esso richiede un processo di profonda elaborazione e mutamento interiore al fine di poter essere reso comunicabile, traendo dall’impresa una rinnovata consapevolezza. E’ quello che fa Recchioni (anche se in maniera meno sentita rispetto a quanto fece in Mater Morbi), che attraverso il filtro della narrazioni e i riferimenti autobiografici racconta ed esorcizza i propri demoni; ed è anche quello che fa Dylan Dog durante tutto il corso della storia. L’Old boy dovrà infatti vedersela nuovamente con la madre di tutte le malattie, tra ricordi del passato, incubi, idiosincrasie e apatici sabati sera all’insegna della caccia agli zombie, in un chiaro omaggio al libro Dellamorte Dellamore (ovviamente di Sclavi).  Si tratta di una discesa negli inferi dagli effetti devastanti, che rappresenta lo scotto da pagare per raggiungere un più alto livello di consapevolezza e di liberazione dai vincoli che lo stato di disgregazione (interna ed esterna) necessariamente comporta.
Anche qui, proprio come in Mater Morbi, è il concetto di accettazione il punto focale dell’intera storia; tuttavia, Mater Dolorosa si distingue per la maggiore dialettica con cui è affrontata la questione. Sono due gli atteggiamenti cui solitamente si ricorre per non soccombere al dolore: mantenere le distanze da esso, oppure accettarne il rischioso coinvolgimento. Morgana, la madre di Dylan Dog, e Mater Morbi, seducente antropoformizzazione della malattia, diventano quindi degli archetipi comportamentali rappresentanti le due diverse filosofie con cui il dolore può essere inteso e affrontato. La prima, figura materna e protettiva, è la dignitaria di una forma mentis che si oppone strenuamente alle potenza estranee e caotiche; la seconda, che è praticamente la Malattia fatta carne e ossa, funge da  guida verso un sapere più alto, pretendendo il diretto e personale coinvolgimento del soggetto interessato.
Di fronte a queste due alternative, Dylan Dog  ne sceglie una terza, più propensa a conciliare il proprio destino di essere umano con la dimensione di fragilità insita in ognuno di noi. Qui ritorna il concetto di accettazione accennato prima: si tratta infatti di assumere il proprio destino, non di vincerlo o rinnegarlo. E’ solo entrando nella fragilità (che di per sé non è né forza, né debolezza, ma rappresenta una contraddittorietà da considerare nell’insieme) da cui scaturisce la sofferenza che è possibili ridimensionare quest’ultima, lasciandola scorrere dentro di noi. Siamo tutti fratelli, uniti nel segno del dolore, e questa debolezza è, per paradosso, anche la nostra forza, perché ci permette di capire che non siamo soli in un universo apparentemente caotico e spietatamente indifferente.

Mater Dolorosa è anche una storia che celebra Dylan Dog, la sua storia, le sue anime, il suo passato, presente e futuro. Non a caso le due “madri” possono viste come simboli metanarrativi  delle diverse istante verso cui potrebbe tendere la serie: quella di un possessivo e limitante amore conservatorio verso la tradizione sclaviana; e quello di uno stravolgimento all’insegna del “il fine giustifica i mezzi”, ma che rischia di distruggerne l’identità. Tensioni diverse, ma in egual modo dannose e controproducenti. 
Anche in questo caso, quello che Recchioni prova a comunicare è che esiste un altro modo di intendere la serie, di proiettarla verso il futuro senza rinunciare ai punti cardine che ne hanno sancito il successo e conquistato l’affetto dei fan, sottintendendo la forte volontà di rendere nuovamente Dylan Dog l’icona di un certo modo di sentire e interpretare la realtà contemporanea, esattamente come lo era agli inizi.
In realtà il paragone con Mater Morbi, qui più volte ribadito, è abbastanza fuorviante. In quel caso si trattava di una storia molto autoriale, con riferimenti biografici fortissimi, pubblicata peraltro in un periodo in cui il livello qualitativo della serie viaggiava su standard piuttosto bassi. Questa invece è la storia del trentennale, scritta con sentita passione dal curatore della serie, rivolta esplicitamente ai fan di lunga data (sebbene tutti i riferimenti siano capibili recuperando giusto una manciata di albi). Si tratta di narrativa seriale in tutto e per tutto, e cioè può essere inteso solo come un pregio.
Perché di sole “graphic novel” non si vive.

Immagini tratte da:

-http://www.sergiobonelli.it/resizer/381/-1/true/1473080185802.jpg-mater_dolorosa___dylan_dog_361_cover.jpg?1473080187000  

-http://i0.wp.com/www.badcomics.it/wp/wp-content/uploadsbadcomics/2016/02/12688359_10153410750047916_3095338348861955217_n.jpg?resize=6 39%2C857&quality=85&strip=all

-http://www.sergiobonelli.it/resizer/610/400/false/1450800999202.jpg--.jpg?1450801060000

-http://www.sergiobonelli.it/upload/1470303479739.jpg
-http://img2.tgcom24.mediaset.it/binary/fotogallery/ufficiostampa/58.$plit/C_2_fotogallery_3005296_0_image.jpg 

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15/10/2016

La degenerazione democratica di Vergini delle Rocce  alla base del “superuomo” dannunziano  

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di Lorenzo Vannucci

 Un primo passo verso le tematiche nietzschiane, o meglio, un primo utilizzo di tematiche di questo autore è nel romanzo Le Vergini delle Rocce, ove si realizza un primo consistente approccio ad una lettura politica del filosofo tedesco. Protagonista è Claudio Cantelmo, un aristocratico decadente, sintesi perfetta tra il superuomo dannunziano e l'esteta,  alla ricerca di una donna con cui generare un figlio che possa costituire il primo segno di una nuova  aristocrazia.
L’artista, secondo Cantelmo, non deve isolarsi all’interno della sua cultura (Sperelli), ma trasformarsi in un uomo di azione, capace con le proprie idee di  finalizzare la sua condizione di vate; proprio grazie all'elevazione spirituale del poeta – un essere superiore rispetto alla pochezza della massa -, Cantelmo si fa “portavoce” di una nuova era. «L'Italia post-unitaria è un teatro di ignominiose violazioni e osceni connubi, una foresta infame popolata da malfattori, il campo di azione delle più basse cupidigie, un vero rigurgito di cloache», dice con violento sarcasmo Cantelmo guardando con disprezzo alla condizione degradata della gloriosa Roma.
Quei valori di eguaglianza, decantati dalla rivoluzione francese, devono essere superati in favore di un potere fatto di pochi, un'oligarchia in cui solo chi ha diritto di aspirare al potere solo chi, per virtù di sangue, ha ereditato dai loro antenati il gusto per la bellezza. Compito dello stato e del poeta, sempre più vate e capace con le sue idee di elevarsi al di là della massa, è di ricacciare i plebei
nella loro condizione naturale di schiavi «Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare».
Il sogno di una nuova stirpe che possa abbattere lo stato borghese e democratico fondato sulla massa viene alimentato da quel modello “Bismarckiano” dello stato forte, attuando allo stesso modo della Germania una
politica aggressiva verso l’esterno che possa ridare luce e gloria all'antica potenza imperiale.

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Cantelmo pertanto, guardando con commiserazione il destino della gloriosa Roma, vede nella vecchia aristocrazia – «i patrizi non devono limitarsi a guardare al passato ne colludere in alcun modo col potere politico e finanziario» –  la principale causa della supremazia delle masse.
“Aspettate dunque e preparate l’evento. Per fortuna lo Stato eretto sulle basi del suffragio popolare e dell’uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile, ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un istituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione di una classe privilegiata verso un’ideale forma di esistenza. Sull’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un  nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo  difficile, invero, ricondurre il gregge all’obbedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, fino al termine dei secoli, il sentimento della libertà”.
In questa società utopica e ideale, in quanto Cantelmo si rende conto che questa modello di società non è ancora attuabile, l'esteta-superuomo D'Annunzio si  propone non solo di farsi portavoce dei caratteri della stirpe
latina, ma di  trasmettere le ricchezze ideali della stirpe in un figlio.

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 Nelle Vergini delle Rocce, pertanto, D'annunzio supera il semplice modello estetico incarnato da Andrea Sperelli nel Piacere (il disprezzo del suo tempo solo per motivazioni prettamente estetiche, limitandosi al gusto dell'arte in polemico isolamento dal mondo), decantando un uomo che, conscio della propria superiorità intellettuale, vuole affrontare la realtà combattendo la corruzione della società borghese facendosi portavoce di una potenziale rinnovamento.
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Bibliografia:
B.Squarotti, Il primo novecento
S.Guglielmino, Guida al Novecento
http://fascinointellettuali.larionews.com/le-vergini-delle-rocce-il-superuomo-dannunziano-e-lestetica-contemplativa/

Immagini tratte da:

-Il fascino degli intellettuali
-biografieonline.it
-Il fascino degli intellettuali

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8/10/2016

Elena Ferrante, Elena Greco, Anita Raja o…?

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In Italia scoppia il caso Ferrante, ma è più importante l’autore o l’opera?
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di Eva Dei

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“Nom de plume”, “pen name” comunque preferiate chiamarlo lo pseudonimo è sempre esistito, legato soprattutto alla vita degli artisti.
In passato se ne sono servite soprattutto scrittrici femminili, un esempio molto noto è quello delle tre sorelle Brontë, tutte e tre scrittrici che usarono uno pseudonimo maschile, vista la scarsa considerazione che la società aveva per le donne scrittrici (si pensava infatti che non fossero in grado di scrivere dei buoni libri che non esulassero dalla definizione di “romanzetti d’amore”); decisero di restare sorelle, o per meglio dire fratelli, adottando il cognome Bell, per quanto riguarda i nomi Charlotte scelse Currer, Emily preferì Ellis, mentre Anne decise per Acton. Stessa cosa si può dire per George Eliot, dietro cui si celava Mary Ann Evans o per Amantine Aurore Dupin, meglio nota come George Sand.
Ma sarebbe errato dire che quella dello pseudonimo è stata una scelta (o necessità) solo delle donne: in tanti conoscono George Orwell, ma forse pochi sanno che il suo vero nome era Eric Blair, mentre il nome di battesimo di Pablo Neruda era Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, Italo Svevo compariva all’anagrafe come Aron Hector Schmitz, Charles Lutwidge Dodgson invece preferì pubblicare i suoi scritti come Lewis Carroll. Oltre a questi potremmo citare numerosi altri esempi, maschili e femminili, di artisti che hanno preferito celare il loro nome; alcuni l’hanno fatto per gioco, altri per non far sapere alla famiglia della loro inclinazione artistica (era comune che i genitori osteggiassero o disprezzassero la vena artistica dei figli), altri semplicemente perché ritenevano il nome di fantasia più appropriato, più di impatto.
Tra i casi contemporanei possiamo citare Sophie Kinsella (Madeleine Sophie Wickham), Anne Rice (Howard Allen Frances O'Brien), Sveva Casati Modignani (nome collettivo di Bice Cairati e di suo marito Nullo Cantaroni), Wu Ming (nome collettivo di scrittori bolognesi).
C’è però un’autrice, uno pseudonimo che ha scatenato una vera e propria caccia all’uomo (o alla donna): Elena Ferrante. Autrice italiana molto apprezzata anche all’estero, tra le sue opere principali ricordiamo L’amore molesto (1992),  I giorni dell’abbandono (2002) e la tetralogia de L’amica geniale. Sebbene, come abbiamo visto, lo pseudonimo sia sempre stata una scelta spesso avallata dagli scrittori, sembra che attualmente la società moderna non riesca a darsi pace del non sapere chi c’è dietro a Elena Ferrante. Si è iniziato attaccando lei e la casa editrice che la pubblica (Edizioni E/0), gridando a una poco limpida scelta di marketing, altri, vedendo  L’amica geniale come un romanzo con una forte base autobiografica, si sono messi alla ricerca di una reale Elena Greco, da questo alla partenza di un vero e proprio toto-nomi il passo è stato breve, tra i più quotati: la traduttrice Anita Raja, suo marito Domenico Starnone, Goffredo Fofi, Marcella Marmo. Se le inchieste di giornali, blog e studiosi si fossero fermate qui avremmo anche potuto parlare di un po’ di “sana curiosità”. Ma forse l’inchiesta uscita lo scorso 2 ottobre sul domenicale del Sole 24 Ore si è spinta un po’ troppo oltre: Claudio Gatti, autore dello “scoop”, afferma con certezza che la Ferrante è Anita Raja. Ma come fa a saperlo? Semplice: ha “spiato" i movimenti di denaro in entrata per Raja da E/O, stabilendo che erano troppi per una semplice traduttrice e guarda caso sono anche aumentati in corrispondenza dell’uscita dei libri della Ferrante. Non contento, Gatti ha anche voluto verificare come la Raja e il marito usassero questi soldi, curiosando fra le loro operazioni immobiliari (acquisto di appartamenti a Roma). Operazioni giudicate da Gatti di entità superiore ai redditi presumibili dalle professioni dei coniugi. Ma la faccenda non si conclude qui. Ovviamente stampa e opinione pubblica si sono divise: chi si è schierato con la Ferrante, difendendo la sua volontà di rimanere nell’ombra, chi invece continua a volerne sapere di più. Infine mercoledì 5 ottobre un account twitter dal nome @AnitaRajaStarn confessa: “Lo confermo. Sono Elena Ferrante. Ma questo ritengo non cambi nulla nel rapporto dei lettori con i libri della Ferrante.” Sembra la fine di un incubo, finalmente sappiamo chi è Elena Ferrante, Anita Raja confessa; ma anche questa certezza si sbriciola: l’account twitter è falso,  l’opinione pubblica ricade nel mare dell’incertezza.
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Ma facciamo un passo indietro. Perché colui o colei che si cela dietro lo pseudonimo Elena Ferrante ha scelto di rimanere nell’oscurità? La risposta la ritroviamo proprio in una sua opera La frantumaglia (2003), nata per rispondere alle domande che i lettori le hanno rivolto negli ultimi dieci anni. La scrittrice stessa parla di un desiderio di autoconservazione del proprio privato.  La Ferrante si dice  convinta che i suoi libri non necessitino di una sua foto in copertina né di presentazioni promozionali: devono essere percepiti come “organismi autosufficienti”, non vincolati al suo autore.
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A questo punto la domanda è una sola: perché questo desiderio non è stato rispettato? Qualcuno, da qualche parte nel mondo, scrive e dona quello che scrive a un pubblico, in cambio chiede solo l’anonimato, qual è la difficoltà nel rispettare questa richiesta? Molti diranno che un’opera è imprescindibile dal suo autore, asseriranno che sapere chi scrive l’opera aiuta a comprenderla più profondamente. Forse questo è vero, forse per quanto “organismi autosufficienti” i romanzi della Ferrante contengono qualcosa di lei; ma è giusto indire una sorta di caccia al criminale, indagare nella vita privata di persone che magari non le sono nemmeno legate? Così l’identità dell’autore diventa più importante dell’opera stessa, fino a svilirla, svalutarla. È l’opera che deve smuovere l’interiorità del suo fruitore, osservarla, leggerla, ascoltarla deve provocare qualcosa, una sensazione, un’emozione, una reazione. Per questo forse dovremmo parlare meno di chi è Elena Ferrante e di più dei pregi e difetti dei suoi romanzi. Purtroppo sembra che l’attenzione si concentri sempre più su ciò che è secondario,  accessorio, invece che sull’essenza delle cose.
Avere una foto, un nome, sapere dove ha studiato, chi ha amato vi farà apprezzare o acquistare con più facilità un romanzo? Se la risposta è sì, forse siamo davanti a un problema più complesso del previsto.
 
Foto tratte da:
Pseudonimo: http://ufficiomarchibrevetti.it/tag/nom-de-plume/
La frantumaglia: http://www.edizionieo.it/book/9788866327929/la-frantumaglia
Il falso tweet di Anita Raja: http://www.blitzquotidiano.it/libri/anita-raja-su-twitter-sono-elena-ferrante-2560748/
 

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8/10/2016

A spine-chilling journey into Gothic. Recensione di The Oxford Book of Gothic Tales, a cura di Chris Baldick

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​di Andrea Di Carlo
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Se finora mi sono dedicato ad approfondimenti o riflessioni sulle letterature europee, con l’articolo di questa settimana inizia un ciclo di recensioni e il primo testo è The Oxford Book of Gothic Tales (1992), a cura di Chris Baldick, professore di Letteratura inglese presso il Goldsmiths College a Londra .

La miscellanea si apre con una lunga introduzione del curatore dove si delineano i caratteri della narrativa gotica. Gotico è tutto ciò che richiama a un passato perduto, dimenticato e violento della nazione inglese, cioè il Medioevo, l’epoca che precede la modernità e l’introduzione di una spiritualità riformata nel regno (Rodman Jones 2016, Baldick 1992: xi-xii).
Baldick ripartisce la raccolta in tre sezioni: la prima che comprende racconti che coprono il XVIII secolo, la seconda la produzione gotica ottocentesca e la terza include testi gotici contemporanei.
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A mio giudizio, il pregio della silloge consiste nella scelta dei testi. Il curatore non si è limitato a testi canonici della moda gotica, come The Fall of the House of Usher di Poe, ma ha anche selezionato racconti anonimi o sconosciuti anche a un pubblico più sofisticato. Ne sono un esempio The Poisoner of Montremos (1791) di Richard Cumberland e l’anonimo The Friar’s Tale (1792).  La vicenda del primo verte su un processo dell’Inquisizione spagnola nei confronti di un giovane accusato di aver ucciso la propria fidanzata, ma si scoprirà una verità molto più amara nel finale. Forte è la critica alla Chiesa romana e al Sant’Uffizio e ai suoi metodi investigativi, oltre che all’emersione di cupidigia e incesto, alcuni dei motivi tipici della narrativa gotica. Il villain caratteristico della letteratura gotica, sotto forma di un nobiluomo e di una religiosa cattolica romana, si manifestano nel secondo racconto, ambientato in un convento francese. La critica al Cattolicesimo romano e agli intrighi tipici del clero sono amplificati in tutto il racconto, ma, tuttavia, essi sembrano essere mitigati da un richiamo a una religione deista e tollerante nel finale del testo da parte dell’anziano abate (Long Hoeveler 2014).
Come emerge da queste brevi considerazioni, Baldick è riuscito a coniugare il gotico “tradizionale”, ricco di elementi immaginifici, fantastici, macabri e sanguinolenti, ma sceglie anche di far emergere un lato insolito di questa produzione, cioè un’inaspettata vena di tolleranza in una letteratura nata come propaganda del Protestantesimo britannico contro la Chiesa di Roma.
Consiglio per tutti gli appassionati e non solo la lettura di questa significativa antologia, soprattutto per i racconti anonimi o di autori non noti nell’ampio panorama del gotico.

Bibliografia:
 
Baldick, C (1992)  The Oxford Book of Gothic Tales. Oxford: Oxford University Press.
 
Long Hoeveler, D (2014) The Gothic Ideology: Religious Hysteria and Anti-Catholicism in British Popular Fiction, 1780-1880. Cardiff: University of Wales Press.
 
Rodman Jones, M (2016) Early modern medievalism, in D’Arcens (ed. by) The Cambridge Companion to Medievalism. Cambridge: Cambridge University Press: 89-103.
 
Immagini tratte da:
 
http://www.gold.ac.uk/ecl/staff/c-baldick/
https://global.oup.com/academic/product/the-oxford-book-of-gothic-tales-9780199561537?cc=it&lang=en&

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8/10/2016

Il vergine, il vivace.

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di Lorenzo Vannucci

Il vergine, il vivace, il bell’oggi d’un colpo
d’ala ebbra quest’obliato, duro
lago ci squarcerà, sotto il gelo affollato
dal diafano ghiacciaio dei non fuggiti voli!

Un cigno d’altri tempi si ricorda di sé
che si libra magnifico ma senza speranza
per non avere cantato l’aerea stanza ove vivere
quando splendé la noia dello sterile inverno.

Scuoterà tutto il suo collo quella bianca agonia
dallo spazio all’uccello che lo rinnega inflitta,
non l’orrore del suolo che imprigiona le piume.

Fantasma che a questo luogo dona il suo puro lume
s’immobilizza al gelido sogno di disprezzo
di cui si veste in mezzo all’esilio inutile il Cigno.

 
Un tema ricorrente nella poesia dell’Ottocento è, senza dubbio, quello del Cigno: basti pensare all'Albatro di Baudelaire, simbolo non solo dell'esilio del poeta in mezzo agli uomini, ma del eterno conflitto tra il mondo intellettuale e quello borghese.
Il cigno di Stépane Mallarmè va oltre l'immagine-simbolo dell'albatro re del cielo che con le sue ali tutto avvolge e protegge: quella dimensione ancora romantica in cui l'albatro diviene allegoria del poeta, che grazie alla sua creatività e immaginazione vola con la mente negli angoli più remoti dell'anima elevandolo al di sopra della civiltà borghese ancorata a cose terrene, viene ribaltata con una concezione prettamente “simbolista”.
Le ali  dell'albatro, che gli conferiscono maestosità e potenza rendendolo il signore dei cieli, vulnerabile  quando tocca terra, viene ripreso e sviluppato da Mallarmè come la personificazione di quella sterilità creativa che rimane inespressa. Non più creatività e immaginazione, ma uno spleen che porta all'esaurimento del genio artistico e creativo, ad una paralisi interiore che vede nel tentativo di raggiungere ideali puri e perfetti il fallimento dell'intelletto umano. Il cigno, pertanto, arricchendosi di una nuova simbologia, diviene espressione figurativa di un genio rimasto potenziale, condannato dal suo stesso ideale irraggiungibile di purezza e bellezza.

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Il “platonico” Baudelaire, che vede nel poeta la capacità di elevarsi al di sopra del altri uomini cogliendo un barlume di perfezione, viene ribaltato da una poesia che resta in potenza, che avrebbe la capacità di realizzarsi ma che non riesce mai a determinarsi compiutamente.
I primi quattro versi indicano questa sterilità creativa: il lago ghiacciato, in cui rimane intrappolato il cigno-poeta, sembra quasi essere formato dai lamenti dell'autore, incapace nella sua poesia di raggiungere quegli ideali di perfezione che si era prefissato. Si apre, così, il racconto di una poesia mai nata, di un poeta che, dopo il tentativo estremo e disperato di realizzare il suo volo, si brucia come Icaro. Quel bianco collo che tende al cielo, che per un attimo sembra raggiungere quell'ideale di bellezza e di perfezione tanto sospirato, viene improvvisamente “soffocato” dal ghiaccio che, inesorabilmente, gli consuma le piume rendendolo debole e vulnerabile come l'albatro di Baudelaire.

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Al poeta resta, alla fine, un amaro disinganno: il suo talento creativo, che si sta per librare in volo verso gli infiniti spazi del cielo, come uno splendido cigno bianco, è in realtà imprigionato nel ghiaccio del lago. La seconda strofa segna non solo il passaggio dal poeta colpevole-consapevole di non aver dato prova della sua vena creativa, lamentandosi dell'assenza di colori dell'inverno che renda “bianca e vuota” la sua anima, ma l'accettazione della propria sconfitta.
La «bianca agonia» sancisce la sconfitta del cigno che, imprigionato, non ha nemmeno la forza di scuotete il collo, di battere le ali e di librarsi in volo. Rassegnato, il cigno resta immobile, inerme, accettando nella bianca prigione, con disprezzo, la propria sconfitta.

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Bibliografia:

S.Guglielmino, Guida al novecento
S.Mallarmè, il Vergine il Vivace
L.Frezza, Il Vergine il Vivace, in
S.Guglielmino, Guida al novecento

Immagini tratte da:

- www.settemuse.it

- www.settemuse.it
- www.rodoni.ch



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1/10/2016

I sommersi e i salvati. La linea grigia nell'inferno dei Lager

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di Stefano Pipi

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Molti anni dopo la fine della guerra, i sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti raccontavano di un incubo ricorrente. Sognavano di parlare della prigionia ad un amico o un parente: ma questi, all'improvviso, voltava loro le spalle e andava via. Quel sogno era l'espressione del bisogno di rivelare le sofferenze subite, di raccontarsi, di fare in modo che l'orrore vissuto da milioni di persone non venisse dimenticato o, peggio ancora, ignorato. A quel bisogno Primo Levi aveva risposto con Se questo è un uomo, narrando la propria esperienza – tremenda, assurda, commovente – di prigioniero ad Auschwitz.
I sommersi e i salvati, pubblicato 40 anni dopo, assolve ad un compito diverso. Se all'indomani della liberazione l'imperativo che si imponeva ai sopravvissuti era quello di "rendere testimonianza" di quanto successo, era adesso giunto il momento della riflessione. Ormai "decantata" (e non è casuale la scelta di un termine preso a presto dalla chimica)  attraverso il filtro dei decenni l'esperienza e la sofferenza dei campi di sterminio, bisognava avere la lucidità e il coraggio di analizzare i modi in cui la Shoah aveva potuto attuarsi: riconoscerne i meccanismi, le circostanze che avevano permesso un tale orrore, attribuire responsabilità. I sommersi e i salvati non è più una storia personale, né è il racconto di una delle pagine più nere della storia dell'umanità: è una riflessione sulla capacità (o la compulsione) dell'uomo di perpetrare il male in maniera deliberata, meccanica, e sulle ferite che quel male ha potuto infliggere nell'animo di chi ne é stato vittima ed è sopravvissuto.
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Primo Levi
Trovatasi all'improvviso di fronte allo spettacolo di milioni di esseri umani ridotti a gusci scheletrici dietro le barriere di filo spinato dei lager, la coscienza occidentale aveva preferito voltarsi e non guardare. I racconti di chi era sopravvissuto all'inferno nazista erano stati ignorati, o accolti con un'educata ma disinteressata accondiscendenza: pensare che fosse stato possibile arrivare a tanto era impossibile, grottesco, spaventoso. Erano serviti anni per riuscire finalmente a fare i conti a viso aperto con la verità della Shoah (solo nel 1958 Einaudi deciderà di pubblicare Se questo è un uomo).
Per quale motivo? Perché era stato così difficile riconoscere le atrocità del regime nazista, persino da parte di chi da quelle atrocità non era stato toccato neanche indirettamente? Perché ciò comportava implicitamente la necessità di un'assunzione di responsabilità, il dovere di puntare il dito contro le colpe non solo dei carnefici, ma anche degli spettatori e, persino, delle vittime. Bisognava scandagliare quella che Levi aveva chiamato "la linea grigia": quel territorio ancora inesplorato in cui bene e male, innocenza e colpa si mescolano e rischiano pericolosamente di confondersi. I lager sono stati un microcosmo in cui i normali valori etici sono stati frantumati e riassemblati in forme nuove e terribili. La colpa dei carnefici è indubbia: ma quanto quella "banalità del male" di cui ha parlato Hannah Harendt (la percezione che gli aguzzini avevano di sé come semplici funzionari impegnati a seguire ordini piovuti dall'alto) costituisce, se non una giustificazione (cosa che sarebbe impossibile e vergognosa), almeno una spiegazione di come la "soluzione finale" nazista abbia potuto attuarsi?
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Ma la linea grigia dell'esperienza dei lager ingloba persino le vittime. Ne I sommersi e i salvati Levi scandaglia a lungo quel sentimento di colpa – come un misto di vergogna e rimorso – che ha attanagliato per anni i sopravvissuti. Era la sensazione di aver in qualche modo accondisceso ai piani dei propri carcerieri, la colpa di aver toccato il fondo, di essersi macchiati essi stessi in nome della sopravvivenza di colpe più o meno gravi (è il caso dei Kapos, o dei membri dei Sonderkommando – prigionieri ebrei con il compito di seppellire o cremare i cadaveri delle vittime). O, ancora peggio, il rimorso per non aver avuto il coraggio di ribellarsi e di lottare per la propria vita, e la consapevolezza che dai campi di sterminio non erano certo scampati i migliori o i più meritevoli, ma semplicemente i più fortunati. Un'affermazione forse giustificata: ma nell'inferno nazista le colpe delle vittime sono state ben poca cosa rispetto alle atrocità degli aguzzini.
 
 
 
IMMAGINI TRATTE DA:
  • http://www.mondadoristore.it/I-sommersi-e-i-salvati-Primo-Levi/eai978880622268/
  • http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=231&biografia=Primo+Levi
  • http://www.lachiavedisophia.com/lettere-rivelate/
 

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1/10/2016

Essays French and English: alcune riflessioni sul saggio letterario

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​Andrea Di Carlo
Il sec. 16° rappresenta un periodo di grandi rivoluzioni e cambiamenti: l’Europa perde il suo primato con la scoperta dell’America, l’unità della cristianità va in frantumi sotto le spinte di Lutero e dei riformatori e nemmeno i cieli conservano lo stesso assetto con le scoperte di Copernico e l’affermazione dell’eliocentrismo. In un simile contesto diventa necessario per l’uomo confessare, senza mediazioni, la sua condizione di fronte a simile sovvertimenti. Il primo a inaugurare questo genere è il nobiluomo francese Michel Eyquem De Montaigne, il quale individua nel saggio la forma migliore di questa autoanalisi. Le diverse edizioni dei Saggi (1580-1582-1588) rispondono perfettamente a questo approccio: l’essere umano non è statico, ma è in continuo divenire e in trasformazione e soltanto il saggio può registrarne i cambiamenti (Garavini 2014).
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Forte è l’influenza di Montaigne su uno dei più importanti pensatori francesi del sec. 17°, Blaise Pascal. Egli è autore dei Pensieri, riflessioni di orientamento cristiano influenzate dallo stile del nobiluomo del Périgord.
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Nel secolo dei Lumi la Letteratura francese conosce un altro testo confessionale: si tratta delle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau (1782-1789). Similmente a quanto auspicato dal Bordolese nella prefazione della sua opera, anche il pensatore ginevrino intende rappresentarsi per quello che è veramente, affidandosi all’aiuto di Dio (l’altra influenza sul testo del filosofo sono le Confessioni di Agostino).
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Se la Letteratura francese ha prodotto importanti e significative opere introspettive, lo stesso vale per l’Inghilterra. La lezione di Montaigne è subito recepita da Francis Bacon, giurista e uomo di scienza, il quale, tra il 1597 e il 1625 scrive i Saggi o Consigli, Civili e Morali. L’opera di Bacon affronta diversi temi, in modo piano ed epigrammatico, dispensando buoni consigli sulla vita politica e morale (Vickers 2008, Matthew e Harrison 2004: 142).
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Il genere del saggio ben si confà con la temperie culturale del Romanticismo: l’autore dice adesso “io” perché il Romanticismo è la stagione della soggettività, dei sentimenti e delle emozioni. Ed è quello che fa Charles Lamb coi suoi Saggi di Elia (1823). Elia è il nome di un collega italiano di Lamb nel periodo in cui egli era dipendente presso la India East House. In questi componimenti Lamb si cela dietro il nome del collega e la sorella Mary dietro la maschera della cugina Bridget. I saggi dell’autore inglese danno voce, come quelli di Montaigne, alla più disparate riflessioni: dall’infanzia, agli incubi notturni e alla stregoneria, alla vita in campagna, a indicare le più varie disposizioni dell’Io monologante, unite a un linguaggio arcaico (Fang 2010: 30-32).
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Dal Cinquecento fino al Romanticismo, il genere del saggio segna le tappe dell’evoluzione del soggetto, ma, allo stesso tempo, non lesina consigli o indicazioni su come vivere. 
Bibliografia: 
Fang, Karen (2010) Romantic Writing and the Empire of Signs: Periodical Cultural and Post-Napoleonic Authorship. Charlottesville: University of Virginia Press.  
 
Garavini, F (2014)(a cura di) Michel Eyquem De Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini. Milano: Bompiani.
 
Matthew, HCG, Harrison, Brian (2004)(eds.) The Oxford Dictionary of National Biography vol. 3. Oxford: Oxford University Press.
 
 Vickers, B (2008)(ed.by) Francis Bacon, The Essays or Counsels, Civil and Moral, edited by Brian Vickers. Oxford: Oxford University Press.

Immagini tratte da:
Francesco Bacone, Pubblico Dominio, Wikipedia italiana, voce “Francesco Bacone”.
Charles Lamb, Pubblico Dominio, Wikipedia italiana, voce “Charles Lamb”.
Blaise Pascal, Pubblico Dominio, Wikipedia tedesca, voce “Blaise Pascal”.
Jean-Jacques Rousseau, Pubblico Dominio, Wikipedia tedesca, voce “Jean-Jacques Rousseau”.
Michel Eyquem De Montaigne, Pubblico Dominio, Wikipedia tedesca, voce “Michel de Montaigne”.

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1/10/2016

Baudelaire: dallo Spleen e l' idéal alle corrispondenze nella foresta di simboli

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di Lorenzo Vannucci

I fiori del male sono un canzoniere, strutturato in sei sezioni, articolate al suo interno in cicli di poesie. Ogni sezione rappresenta una tappa dell'itinerario poetico dell'autore: si passa dal tema dello spleen, causato da una profonda infelicità  dalla quale non esiste via di uscita, a quello dell'espiazione, presente in Elevazione, fino ad arrivare a Quadri di Parigi, tentativo estremo, da parte del poeta, di superare la propria paralisi interiore uscendo da quella condizione di prigionia in cui si trovava il proprio ego. Ne esce un Baudelaire diverso, cambiato, pronto a tuffarsi nella frenetica vita Parigina.
Baudelaire, nello scrivere I fiori del male, ha ben presente la prefazione di Gautier Mademoiselle de Maupin; la concezione dell'arte per l'arte, presente anche nel Ritratto di Dorian Gray, influenza radicalmente la sua opera. Ecco spiegata, allora, quella inspiegabile commistione tra cura formale e raffinatezza dell’espressione (il verso è spesso l’alessandrino, la misura più “alta” e nobile della metrica francese) con contenuti bassi, spesso scandalosi o di carattere ambiguo.

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La radice di questa compresenza tra sublime e volgare va ricercata nell'itinerario Baudelariano, che attraversa tutti gli stadi più degradati della natura anima, passando da un male di vivere, lo speen, a un tentativo di uscire dal grigiore della vita, l' idéal. Se Il primo termine indica un particolare stato di angoscia, tensione, disperazione, incapacità di stabilire un rapporto con il mondo esterno, un tunnel senza via di uscita che non si lascia ricondurre ad alcuna causa concreta, dall'altra il poeta sente il bisogno di evadere dal grigiore della vita.
Da questa dicotomia emerge, pertanto, non solo la solitudine del poeta, l'eterno conflitto tra il poeta visionario e l'ipocrisia borghese tradotto nella vita di Baudelaire fatta in paradisi artificiali, alcool e droghe, ma un sentimento di speranza «il superamento di quei campi sereni e luminosi attraverso un colpo d'ala» – che eleva in alto il pensiero del poeta come un allodola verso i cieli in un mattino autunnale. Un volo, quello di Baudelaire, destinato a bruciarsi come le ali di Icaro e a rimanere speranza.
Come il personaggio dantesco Ulisse, Baudelaire sente il bisogno di compiere un ultimo viaggio, quello del desiderio e del ricordo. La sua fuga dal quotidiano, dall'angoscia esistenziale, al di là del tempo e dello spazio, trova fine nella sorella morte, che accoglie tutte quelle anime incapaci di dare un senso alla loro vita. Il naufragio di Baudelaire non è più in nome di Dio e di quella conoscenza che Ulisse ricercava nel valicamento delle Colonne d'Ercole, ma sprofonda nel nulla, nel baratro della propria solitudine.

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Questa continua tensione da parte di Baudelaire, sospeso tra speen e idéal, si ritrova non solo nell'eterno conflitto tra purezza e grottesco,  anche nella sua poesia intesa come una foresta di simboli, un tempio in cui le parole risuonano misteriose e si lasciano scoprire solo da chi sa comprenderle davvero. Un poeta che non si ferma alla parola, alle marmoree descrizioni parnassiane, ma finalmente capace di penetrare nella quintessenza delle cose scavando in quello spazio temporale che sfugge all'occhio clinico umano, di intuire e riconoscere, grazie alla sua sensibilità, la foresta di simboli che si cela dietro il reale e la rivela. Non esiste più il mondo di cinque sensi, una natura concreta, ma un mondo fatto di echi, di richiami, in cui un suono può evocare un colore, un profumo, un genere di musica o un particolare paesaggio. Un mondo simbolico, cui simbolo diviene  strumento di espressione e rappresentazione.
Il contenuto della poesia finisce per diventare forma della sua espressione: Baudelaire, in Corrispondenze, gioca sin dal primo verso con le parole, ricreando un'atmosfera  misteriosa ed evocativa attraverso il ricorso all'analogia “È un tempio la Natura” e della sinestesia “Profumi freschi...dolci...verdi”.


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Il poeta, pertanto, penetrando a fondo nel reale, sfugge così allo spleen, alla realtà imperfetta e decaduta, abbandonandosi a un mondo fatto di sensazioni olfattive. Un mondo, quello dei profumi, dei colori, dei suoni, che nella sua bellezza, rimarrà sempre sospeso tra idéal e spleen, tra grottesco e raffinatezza. Destinato, ancora una volta, a rimanere sogno, perché nessuno potrà restituire a Charles quell'innocenza perduta, quela voglia di vivere che non può essere ritrovata nella realtà per la presenza di profumi "corrotti, ricchi e trionfanti". "Carni di bimbo" che finiranno per deteriorarsi, per consumarsi, a causa dell'inferno chimico e ai paradisi artificiali a cui Charles, per tutta la sua vita, non riesce a trovare una via d'uscita.
La ricerca del poeta di ciò che vi è di sconosciuto attraversa del resto tutti i Fiori del male fino all’ultimo testo, intitolato Le Voyage (“Il viaggio”), il cui ultimo verso riafferma la funzione della poesia per Baudelaire, ovvero quella di scendere nel fondo dell’ignoto per trovare ciò che non è mai stato detto prima:
Nei Fiori del male Baudelaire, nonostante introduca il trionfo della sinestesia si concretizza in un insieme di immagini e simboli.

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Bibliografia

C.Baudelaire, I fiori del Male
S.Guglielmino, Guida al Novecento
D.Alighieri, La Divina Commedia
T.Gautier, Mademoiselle de Maupin
E.Auerbach, Il realismo nella letteratura occidentale


Immagini tratte da:
www.mosaico-cem.it
libroarbitrio.wordpress.com
www.museumsyndicate.com
insectogob.skyrock.com



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