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28/10/2017

Revisione del politeismo egiziano – il fascino delle antiche culture in Moustafa Gadalla

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di Lorenzo Vanni
Le epoche antiche hanno sempre esercitato un grande fascino sull’uomo moderno. In esse ritroviamo parte della nostra identità e comprendiamo come siamo diventati quel che siamo oggi. L’evoluzione seguita dall’Occidente ci ha portato a essere estremamente razionali ed è cresciuto lo scetticismo verso certe manifestazioni culturali che in alcuni casi potrebbero essere accusate di superstizione, senza porsi ulteriori dubbi al riguardo, perché, agli occhi di chi vive oggi, tutto quel che abbia in sé qualcosa che ricorda la spiritualità deve essere denigrato, come se non ci riguardasse, come se l’Occidente non avesse appreso niente da quel passato. In particolare, a partire dal Novecento, si è cominciato a nutrire una forma di scetticismo (quando non di odio esplicito) verso tutto quel che non sia strettamente razionale, e viene così relegato nell’etichetta limitante di “pseudo-scienza”, argomento contro cui tutti sembrano essere in grado di parlare pur non avendo mai incontrato il tema in passato.
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Questa introduzione è necessaria per presentare il saggio di Moustafa Gadalla intitolato Iside. La Divinità Femminile e pubblicato da una casa editrice indipendente. L’autore è direttore della Tehuti Research Foundation, organizzazione no-profit con sede negli Stati Uniti, che si occupa, attraverso scavi archeologici, di riportare la cultura dell’Antico Egitto alla sua forma più pura
Gadalla ha all’attivo ventidue libri, se escludiamo quello appena pubblicato, che affrontano la cultura dell’Antico Egitto ponendosi come obiettivo quello di sfatare il luogo comune secondo cui la religione egiziana delle origini era politeista, sostenendo che questa interpretazione è dovuta a un’eccessiva semplificazione di un termine molto più complesso, ossia neteru che in Occidente è stato tradotto erroneamente come “dei”. Quel che sostiene Gadalla nella sua opera è che quando in contesto egiziano si parla di neteru, non ci si riferisce a divinità, ma a principi ordinatori del cosmo che fanno capo a un’unica divinità vera e propria. La rappresentazione grafica sotto forma di geroglifici li presenta sotto sembianze antropomorfe e questo ha giustificato in parte l’idea che queste fossero delle divinità vere e proprie. In realtà, il problema è molto più ampio e lo dimostra pienamente in questo suo nuovo libro.

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La figura di Iside, al centro del nuovo saggio pubblicato pochi mesi fa, dà un’idea ben precisa della complessità del tema. Iside non è semplicemente una dea, ma il vero principio materno all’origine della vita. Il saggio si sposta tra tesi scientifiche, storia della religione, filologia e filosofia con estrema naturalezza; aiuta in questo anche lo stile molto fluido dell’autore che è in grado di condensare informazioni potenzialmente complesse in poche frasi senza per questo disperdere informazioni preziose alla comprensione del testo.
Se volessimo fare un parallelismo, potremmo dire che in gran parte la visione cosmologica descritta da Gadalla e situata intorno al 4000-3000 a.C. trova eco nel pensiero di Platone e in parte di Aristotele. Anche questa però sarebbe un’occidentalizzazione: la cosa migliore da fare è cercare di leggere il saggio nella giusta ottica e dimenticare quel che già si può sapere, come persone interessate alla cultura, sulla filosofia antica, solo di tenerla in mente per alcuni passaggi di cui si capisce completamente la portata solo con una precedente conoscenza della filosofia.
Se dovessimo trovare un difetto al saggio, per il resto ineccepibile, è che alcuni passaggi, per l’interesse che suscitano nel lettore per i suoi risvolti filosofici, meriterebbero maggiore spazio. Ma il risultato complessivo è estremamente affascinante e ci permette di guardare alla cultura antica con uno sguardo nuovo.
Alcune parti di questo libro, in particolare quelle che tracciano un parallelismo tra scienza e cosmologia, verrebbero fatte rientrare, da parte dei sostenitori di quel razionalismo scettico di cui si parlava in apertura, nell’ambito della cosiddetta “New Age”. È però una delle parti più affascinanti e merita la giusta considerazione anche perché è un libro che aiuta veramente ad ampliare i propri orizzonti. Si deve solo avere la pazienza di leggere e farsi portare per mano in un percorso mai affrontato prima.     

Immagini tratte da:
https://egypt-tehuti.org/product/iside-la-divinita-femminile/
https://www.lettodanoi.it/iside-la-divinita-femminile-moustafa-gadalla/
http://storia-controstoria.org/antiche-culture/iside-hathor-seshet/

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28/10/2017

Premio Campiello 2017: L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio

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di Eva Dei
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Dopo numerose candidature (Premio Viareggio, Premio Strega) Donatella Di Pietrantonio si è aggiudicata lo scorso 9 settembre la 55a edizione del Premio Campiello. Il suo ultimo romanzo, L’Arminuta, ha sbaragliato la concorrenza con 133 voti su 282.
Una scrittura minima, concisa e tagliente quella con cui la scrittrice dipinge lo scenario familiare di una tredicenne abruzzese negli anni Settanta. L’io narrante ci racconta la sua storia e per tutta la narrazione non scopriremo il suo nome; sì perché l’unica cosa fondamentale è che lei è l’Arminuta, la ritornata in dialetto abruzzese.

“Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza”

Parole forti in bocca a una ragazzina, ma forti come la sua storia. Una mattina scopre che quelli che aveva sempre chiamato “mamma” e “papà” non sono i suoi veri genitori, ma dei parenti, una sorta di zii. I genitori, quelli veri, l’avevano affidata a loro quando era molto piccola, ma adesso la rivogliono con sé. O almeno questo è quello che le viene raccontato. Nella disperazione di questa sconvolgente verità, nel continuo chiedersi “cosa ho fatto di sbagliato?”, la ragazzina si trova catapultata in una nuova vita completamente diversa da quella a cui era abituata.
Lo scenario cambia: da una città sul mare si raggiunge un paesino nel cuore dell’entroterra abruzzese. Qui l’Arminuta scopre di non essere figlia unica, ma di appartenere a una famiglia numerosa: una sorella minore, un fratello minore e altri fratelli maggiori.
Le due realtà sono agli antipodi: si passa dall’italiano al dialetto di provincia, le condizioni igieniche sono ai limiti della decenza e la povertà si fa sentire nelle più piccole cose, a partire dalla difficoltà dei genitori di sfamare tutte quelle bocche.
L’impatto è brusco; la voce della ragazzina ce lo racconta in modo schietto, ma non per questo meno tragico. La solitudine, l’incomprensione, la tristezza, il senso di rifiuto ed estraneità sono sentimenti forti, trattenuti per molto tempo e quasi mai urlati, gridati; sono, però, fin da subito chiari, tanto che arrivano al lettore a ogni pagina, come uno schiaffo. Si evincono dai dettagli più semplici: l’impossibilità per la nostra protagonista di riferirsi ai propri genitori naturali come “mio padre” o “mia madre”, ma sempre e solo come “la madre” e “il padre”. Un distacco che pare insanabile verso quella famiglia così diversa, così lontana, che non l’ha voluta per tanto tempo e per cui è difficile provare affetto, amore.

“Eppure in certe ore tristi mi sentivo dimenticata. Cadevo dai suoi pensieri. Non c’era più ragione di esistere al mondo. Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso.”

Quell’amore che invece prova per la madre-zia da cui si sente dimenticata e rifiutata: Adalgisa. La vera figura enigmatica di questo romanzo, i cui segreti sono i fili che tengono in piedi tutta la narrazione fino all’ultima pagina.
In questo ribaltarsi e venire meno di certezze, di punti di riferimento, l’unica alleata, l’unica ancora di salvezza, la persona da amare e proteggere è Adriana, la sorella minore. A lei l’Arminuta si riferisce fin dalla prima pagina come “mia sorella”, come a sancire fin da subito questo legame forte, viscerale con questa bambina piccola, mai vista prima, che le appare sulla porta quando viene riportata dai suoi veri genitori.

“Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci assomigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.”
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Donatella Di Pietrantonio vince il Premio Campiello 2017

Foto tratte da:

http://www.einaudi.it/libri/libro/donatella-di-pietrantonio/l-arminuta/978885842485
http://www.veneziatoday.it/eventi/cultura/vincitore-premio-campiello-2017.html

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21/10/2017

Negli occhi di chi guarda

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di Alice Marrani
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Mentre il successo di Pineta e del suo bar è ormai consolidato sia su carta che su Sky, il lato giallo della produzione di Marco Malvaldi, con Negli occhi di chi guarda, uscito da pochi giorni e sempre edito da Sellerio, lascia il BarLume e si sposta per la quinta volta in un luogo diverso. Precisamente a Poggio alle Ghiande, podere immerso nella pace della campagna toscana affacciata sul mare. La tenuta è di proprietà di due fratelli, Alfredo e Zeno Cavalcanti, gemelli monozigoti, uguali come possono esserlo un collezionista d’arte innamorato della pace della sua casa d’infanzia e un broker di banca residente a Milano che dal luogo dove ha vissuto da bambino non vede l’ora di scappare, oltre che venderlo. Ormai abitualmente, la tenuta è abitata anche dai vari affittuari degli appartamenti che contiene, oltre che da Piotr uomo delle pulizie estremamente religioso e da Raimondo Del Moretto, custode che lì lavora da quando è uscito dal manicomio che lo ospitava in Emilia Romagna, dove dice di aver conosciuto e stretto amicizia con Ligabue, il pittore. Nella vicenda si aggiungono al già variegato gruppo di personaggi l’architetto Marco Giorgetti e l’ingegnere Giorgio De Finetti presenti per una trattativa di vendita in corso fra i proprietari e una società cinese. Arrivano come ospiti anche Piergiorgio Pazzi, genetista, e Margherita Castelli, filologa e archivista. Gli ultimi due non sono personaggi nuovi ai lettori affezionati a Malvaldi. Li avevamo conosciuti a Montesodi Marittimo, paesino toscano famoso per essere “il paese più forte d’Europa” nel quale erano stati mandati entrambi per stabilire scientificamente se quell’appellativo era frutto della genetica. (Milioni di Milioni, Sellerio 2012). Margherita, che lavora per Zeno Cavalcanti, contatta Piergiorgio e lo porta alla tenuta per poter conoscere e studiare i due gemelli completamente diversi. Lui la segue un po’ per amore di professione e un po’per i suoi occhi verdi, rimasti impressi nella memoria da cinque anni prima. Rimarrà invischiato in una scommessa fra i due fratelli alla quale non avrebbe voluto partecipare e quando un incendio divampa nel bosco della tenuta tutti i personaggi si ritroveranno in una vicenda che mescola delitto, il mistero di un’opera d’arte scomparsa, la scienza e l’immancabile ironia che rende Malvaldi piacevole e riconoscibile. Il delitto si insinua nelle trame della rete di relazioni che lega gli abitanti della tenuta, già scossi dalla imminente vendita e quindi dalla possibile perdita del luogo di pace che ormai li ha trasformati in una piccola comunità. Come in ogni libro firmato da Marco Malvaldi, ogni personaggio è caratterizzato e si fa simbolo di un lato diverso di società che nella trama si incontra e si scontra in un intrecciarsi continuo. L’evento delittuoso crea un’indagine che non solo cerca i colpevoli ma che rompe gli equilibri, porta alla luce i piccoli segreti, accentua i contrasti caratteriali e sociali e li indaga attraverso un’ironia pungente ma delicata. L’investigazione è condotta da ragionamenti deduttivi che si estendono dalle autorità competenti a personaggi che avrebbero evitato volentieri l’imbattersi con delle indagini ma che per caso, per ruolo o per carattere, dopo essere stati coinvolti, non ne possono fare a meno. Particolarità che possiamo attribuire all’ormai famoso Massimo della serie del BarLume, così come a Piergiorgio e a Margherita ma allo stesso tempo al colonnello Valente del Corpo Forestale che non è a suo agio con gli omicidi ma che, dopo aver cominciato, non può far a meno di indagare. Il segno di Malvaldi è come sempre ben visibile nella scrittura, nell’ambientazione e nel carattere non velatamente toscani, nel carattere classico dei suoi gialli e nella sua distintiva capacità di rendere divertente una spiegazione su cosa sono i telomeri e il DNA quanto il mistero che piano piano viene sciolto.

Marco Malvaldi presenterà il suo nuovo romanzo all’interno della manifestazione “MoDIAP design industria artigianato Pisa - le eccellenze del territorio pisano” il 28 ottobre. L’incontro agli Arsenali Repubblicani di Pisa, organizzato dalla Libreria Fogola, presenta al pubblico quello che è effettivamente diventato un’eccellenza pisana e toscana grazie al fortunato percorso dello scrittore e chimico che dal 2007 a oggi passa per undici romanzi, altrettanti racconti e saggi, sempre un piede nel giallo e uno nella scienza.
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Immagini tratte da: www.pisabookfestival.com

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21/10/2017

Salman Rushdie: uno scrittore contro il fanatismo religioso

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di Andrea Di Carlo
Salman Rushdie (1947) è uno di quegli scrittori che non ha bisogno di presentazioni. Egli è un esponente di spicco del cosiddetto realismo magico, la corrente letteraria iniziata da Franz Kafka dove realtà e fantasia si mischiano, unito al suo interesse per la civiltà orientale e occidentale 
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L’opera che ha consacrato lo scrittore anglo-indiano è senza ombra di dubbio I figli della mezzanotte (1981), dove realtà e finzione si mescolano in modo inscindibile. La vicenda è raccontata in prima persona dal protagonista, Saleem Sinai, nel 1947, quando l’India si è resa indipendente dall’Impero britannico. Sinai racconta la vicenda di mille bambini nati nello stesso giorno e nello stesso anno dell’indipedenza, contraddistinti da una forza sovrumana e inspiegabile e dalla telepatia. L’incontro tra Oriente e Occidente (l’Inghilterra e l’India), il realismo (un episodio effettivo della storia indiana) e la magia (bambini nati con doni straordinari e soprannaturali) segnano già le linee future della narrativa dello scrittore.
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Tuttavia, Rushdie non è soltanto fantasia, ma è, soprattutto, uno scrittore impegnato contro la lotta al fanatismo religioso e, per sua stessa ammissione, un ateo militante. Lo scritto che ha reso noto e controverso l’autore al grande pubblico internazionale è indubbiamente i Versetti satanici (1988). L’opera è stata criticata dal pubblico di fede musulmana per il modo con cui lo scrittore tratteggia la figura del profeta Maometto, il quale si fa messaggero inizialmente di divinità politeiste per poi diventare il profeta dell’unico Dio, cioè Allah, dichiarando di essere stato traviato dal male. La guida suprema iraniana, l’Ayatollah Khomeini, non esitò a emanare una fatwa, una condanna formale per quanto scritto da Rushdie, che comportava anche una condanna a morte​.
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Va da sé che la vita del letterato e dei suoi collaboratori si sia trasformata da quel momento in poi in un incubo e Rushdie stesso ha descritto la sua esistenza sotto la condanna persistente di morire da un momento all’altro nella sua autobiografia Joseph Anton (2008). I nomi del titolo si riferiscono ai suoi due scrittori preferiti, Joseph Conrad e Anton Cechov, e Rushdie non fa altro che descrivere l’esistenza di un condannato a morte​.
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Uno scrittore contro il fanatismo religioso: come fece Spinoza nel 1600 col Cristianesimo e l’Ebraismo, Rushdie non ha esitato a fare lo stesso con l’Islam, anche a rischio della propria vita. Recentemente, a seguito dalla sparatoria nella redazione di Charlie Hebdo, l’autore non ha esitato a difendere la libertà di satira contro le ingerenze della religione, concludendo che anche le religioni, come tutte le cose, devono essere soggette a critica e satira.
Nel mondo in cui viviamo c’è bisogno di intellettuali e scrittori come Salman Rushdie, pronti a sfidare l’autorità costituita.
 
Immagini tratte da:

https://pbs.twimg.com/profile_images/1655254469/photo-2.JPG
https://www.indiainout.com/wp-content/uploads/2015/08/I_figli_della_mezzanotte.jpg
http://image.anobii.com/anobi/image_book.php?item_id=01c37b9865680e877a
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14/10/2017

Il commissario Casabona arriva a Pisa - Antonio Fusco alla libreria Fogola per presentare “Le vite parallele”

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di Eva Dei
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​Fresco di stampa Le vite parallele, per Giunti Editore, segna il ritorno in libreria di Antonio Fusco e del suo commissario Tommaso Casabona. L’autore sarà a Pisa la prossima settimana, domenica 22 ottobre, per presentare ai lettori il suo ultimo romanzo.
Sono ormai passati tre anni dall’esordio dello scrittore con Ogni giorno ha il suo male, che ha portato sulle scene Casabona. Come per ogni giallista che sceglie un personaggio centrale per le sue opere, così anche per Fusco, è impensabile non associarlo direttamente al suo commissario. Forse in questo caso il legame tra i due è ancora più marcato; sì perché Antonio Fusco prima di essere uno scrittore è un funzionario nella Polizia di Stato e criminologo forense. Dopo aver lavorato a Roma e a Napoli, vive dal 2000 in Toscana, dove si occupa di indagini di polizia giudiziaria. Stesso percorso per il suo Casabona, originario di Napoli (città natale anche di Fusco), che già dal primo libro troviamo, invece, a capo della polizia di Valdenza, un’immaginaria cittadina della provincia toscana, presumibilmente collocata tra Pistoia e Firenze. Note biografiche comuni quindi quelle di Fusco e del suo personaggio, ma non solo; il fatto che lo scrittore sappia per esperienza diretta ciò di cui parla emerge chiaramente dalla sua scrittura. Una scrittura sicuramente non artificiosa né complessa, ma piuttosto analitica, come l’occhio di un uomo che racconta il suo mestiere. Se ovviamente emergono dettagli personali della vita di Casabona, Fusco non si perde in descrizioni troppo dettagliate, ma piuttosto preferisce soffermarsi su quelli che sono i passaggi esatti di un’indagine di polizia. Tramite le indagini di Casabona Fusco sembra volerci dire: ecco, è così che si svolge una vera indagine di polizia, sono questi i passaggi e le dinamiche che si seguono, non quelli che vedete in rocamboleschi film polizieschi.
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​Altro punto che sembra interessare a Fusco, come a molti altri prima di lui, è la difficoltà di conciliare vita privata e lavoro per un uomo di giustizia, spesso costretto a confrontarsi con il male in ogni sua possibile sfaccettatura. Quando il lavoro non è una vera e propria ossessione (come per esempio per Vito Strega di Piergiorgio Pulixi, di cui abbiamo recentemente parlato), resta comunque un’interferenza sempre presente, una specie di chiodo fisso. Quanto può un uomo togliere giustamente alla sua famiglia per svolgere il suo dovere? Come ci si può guardare in faccia il male senza venirne risucchiati? E cosa succede quando si prende qualcuno a te caro? Inevitabile quindi l’intrecciarsi delle vicende lavorative con quelle sentimentali: la preoccupazione per il figlio Alessandro, ex tossicodipendente, l’amore per la figlia Chiara, promettente studentessa di criminologia e il rapporto incerto con la moglie Francesca.
Ogni libro di Fusco, ogni indagine di Casabona, è retta da questi due pilastri: una ferrea volontà di verità investigativa e un interesse particolare nel confronto tra l’uomo e il male.
In Le vite parallele ritroviamo Tommaso Casabona di passaggio in questura: è pronto a scegliere un incarico meno impegnativo per poter assistere in ospedale la moglie Francesca. Ma proprio in quel momento arriva una notizia allarmante: una bambina di 3 anni, Martina, è scomparsa nel nulla. Riuscirà Casabona a non rispondere a quel grido di aiuto e a lasciare i suoi uomini senza una guida in questa indagine?

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​Per scoprirlo non mancate domenica 22 ottobre, ore 16:00, presso il chiostro della Chiesa del Carmine di Pisa per l’incontro con Antonio Fusco.
 
 
Foto tratte da:
http://www.giuntialpunto.it/product/8809850513/libri-la-terra-di-mezzo-antonio-fusco#
I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure
https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/
 
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14/10/2017

Le sortite notturne nei poemi epici

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di ​Lorenzo Vannucci
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Eurialo e Niso, celebre episodio tratto dal libro V-IX dell'Eneide, costituisce uno dei passi più belli di amicizia fra due giovani. Riprendendo il celebre episodio della gara tra Odisseo, Aiace Oileo e Antiloco, i due personaggi virgiliani fanno comparsa durante la gara di corsa svoltasi nei giochi in onore di Anchise, il defunto padre di Enea. Il poeta latino riprende il tema dell'amicizia che lega due guerrieri e che li unisce in modo indissolubile nella solidarietà militare e nella ricerca di gloria. Il profondo legame affettivo emerge nel libro IX «un solo amore li univa, uniti correvano in guerra», in cui Virgilio tratta della decisione abbastanza egoistica di Niso di anteporre l’amicizia per Eurialo alla propria stessa vita e all’interesse del popolo. Al verso 205, il più prudente, saggio e esperto dei due cerca di dissuadere invano l'amico dall'impresa di raggiunge Enea, che si trova nella città di Evandro, per informarlo degli eventi intercorsi.                                                                                         
​A differenza del poema omerico, i due troiani non sono due capi, come Ulisse e Diomede, ma due guerrieri di una condizione militare meno elevata, spinti solo dal grande desiderio di gloria che li nobilita. Odisseo, quintessenza dell'astuzia e Diomede, incarnazione del coraggio, riescono a compiere la strage, a ottenere le informazioni e a tornare sani e salvi nel campo acheo mentre la spedizione di Eurialo e Niso è destinata a fallire soprattutto a causa dell'età giovane e dell'inesperienza di Eurialo. La frase «Causas nequiquam nectis inasis, nec mea iam multata loco sententia cedit» (“Invano macchini inutili cause né la mia idea ormai, cambiata di posizione, si ritrae”) è emblematica di come Eurialo, il più anziano tra i due, riesca a percepire i rischi dell'impresa affrontando la decisione di prendere parte alla “sortita notturna” con realismo e con piena consapevolezza di ciò a cui va incontro, mentre Niso va allo sbaraglio con un'incoscienza tipica degli adolescenti. 
Di derivazione virgiliana e staziana è il celebre episodio di Cloridano e Medoro, esemplato sulla spedizione di Eurialo e Niso al campo dei Rutuli, descritta in Eneide IX, 176. Quasi identico è l'episodio in cui i due Mori si inoltrano nel campo cristiano e fanno strage dei nemici, come fanno Eurialo e Niso tra le file dei Latini; simile anche la fuga, in cui Cloridano/Niso credono di avere accanto Medoro/Eurialo che invece sono rimasti indietro per ragioni diverse (il primo goffo a causa del peso dei trofei saccheggiati e il secondo appesantito nel trasportare il corpo del re Dardinello). L'intertestualità tra i due testi è evidente nel capitolo XIX, 166, 1-2 de L’Orlando Furioso: «Cloridan, cacciator tutta sua vita, di robusta persona era et insella» è, infatti, un rimando al capitolo IX, 176-178 dell'Eneide «Nisu […] acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aeneae, quem miserat Ida Venatrix, iaculo celerem levibusque sagittis» (“Niso […] fortissimo in armi, figlio di Irtaco, che l'Ida ricca di caccia aveva inviato come compagno di Enea, veloce nel lancio e nelle frecce leggere”). Differente, invece, la minore epicità del testo ariostesco che, in alcuni passi, assume un carattere quasi tragicomico: la spedizione di Cloridano e Medoro è quasi grottesca (non conoscono la strada, si perdono nell'oscurità) e la strage viene compiuta in un campo di soldati cristiani ubriachi e addormentati. La stessa espressione «del canto mio piglia diletto» potrebbe essere letta allora come un invito da parte dell'Ariosto a “divertirsi”. Sulla scia virgiliana anche la coppia staziana di Opleo e Diamante, presente nel decimo libro della Tebaide. Stazio, a differenza degli altri poemi epici, inserisce l'impresa all’interno di una sortita notturna ben organizzata riprendendo da Omero l’aspetto tecnico-militare dell’assalto notturno. Innovativa la scelta di natura anti-cavalleresca, dove l’impresa si configura immediatamente come “fraudolenta”: Capaneo, infatti, si rifiuta di prendere parte a un’operazione così antieroica. Anche Ariosto mette in discussione la legittimità di tale sortita ma, a differenza della Tebaide di Stazio, le regole di cavalleria non sempre valgono in guerra. 

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Per quanto riguarda il finale del testo virgiliano, Niso, tradito dal bagliore della luna, dal bagliore emanato dall'elmo di Messapo e appesantito dalle spoglie del nemico, viene ucciso dai nemici. Luna, traditrice e salvifica, consente da una parte a Opleo/Diamante di trovare il corpo del re defunto, dall'altra rivela al nemico la presenza dell'eroe virgiliano. Mentre in Virgilio la luna non ha una funzione benevola in quanto alla fine i due ragazzi muoiono, nell’Orlando Furioso questa ha una chiara funzione protettrice. Diversa, invece, l'interpretazione del Tasso, con l'elmo che consente a Tancredi di riconoscere Angelica sul campo di battaglia. Quasi identico il finale del testo staziano e ariostesco: allo stesso modo dei due sareceni che, spinti dal senso di fedeltà al signore (tipico del mondo cavalleresco) fanno di tutto per non abbandonare il loro signore, Opleo e Diamante provano un amore fraterno per il loro re, scegliendo la morte pur di non rivelare informazioni sul loro esercito. Medoro addirittura, dopo essere stato soccorso da Angelica, decide di non lasciare il campo di battaglia prima di aver dato sepoltura a Dardinello e all'amico Cloridano, dimostrando ancora una volta la sua fedeltà a entrambi.
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​Immagini tratte da:
http://playngodissea.blogspot.it/2013/01/il-ricordo-di-agamennone-clitennestra-e.html?m=1

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7/10/2017

Pisa è pronta per andare nel “mare dove non si tocca”

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La Versilia, la voglia di vivere e di sognare che si scontra con le proprie fragilità e naturalmente il mare: tutto questo è Fabio Genovesi.​
di Eva Dei
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“Sotto i piedi non ho nulla, eppure non vado a fondo. La testa rimane fuori dall’acqua, il corpo combatte, galleggio, e alla fine eccomi qui a guardare la vita che mi resta aggrappata addosso, tutta bagnata e agitata e più viva che mai.
Il babbo ha finito la sigaretta, ha allungato una mano, ha sorriso e mi ha tirato su a strappo.
- Ora sai nuotare, contento?”
Come si impara a nuotare? Semplice per il padre di Fabio, il protagonista di Il mare dove non si tocca. Un tuffo lì dove il mare è più scuro e, dopo la paura iniziale, un po’ di acqua che si finisce per bere, si capisce che non serve a niente agitarsi e che restare a galla è più facile di quello che crediamo. Proprio come vivere, che fra mille affanni, incertezze e presunte incapacità, alla fine non è così complicato: perché la vita a volte è come un’onda che ci investe. Questa filosofia la ritroviamo un po’ in ogni suo libro, ma in attesa di ascoltarlo venerdì 13 ottobre e magari di chiedergli se non è proprio un caso che il protagonista del suo ultimo romanzo si chiami proprio come lui, proviamo a riassumere chi è Fabio Genovesi.
Classe 1974, Genovesi è un versiliano doc, ma non tanto perché è nato a Forte dei Marmi, quanto perché la sua terra entra prepotentemente in ogni suo libro. Non è uno sfondo, è un po’ come una protagonista; sì perché certi personaggi sarebbero proprio impensabili in un altro luogo. L’attaccamento a questa striscia di Toscana è quindi un elemento ricorrente, a partire da Chi manda le onde, passando per Morte dei Marmi fino ad arrivare a questo suo ultimo libro. Ma se vogliamo essere ancora più precisi il vero fulcro è il mare.
“Non lo vedo ancora, ci sono le cabine di legno in fila che lo coprono, ma sento l’odore della sabbia e il sale nel naso, il fruscio che fa l’acqua quando si spalma sulla riva e quello un po’ diverso di quando ci struscia sopra mentre torna indietro.” 
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Il mare può lasciare regali inaspettati sul bagnasciuga, ma può anche portare via tutto ciò che hai di più bello, può investire con le sue onde, può far paura, ma sembra impossibile per i personaggi di Genovesi sfuggire al suo richiamo. Anche in Esche vive, primo romanzo dello scrittore, sebbene ambientato in un immaginario paese della provincia pisana, Muglione, ritroviamo questa “liquidità” della vita:
E mi sa che la vita è proprio questa cosa qua, un fiume di roba che ti arriva addosso tutta insieme, un po’ la prendi e un po’ la perdi e un po’ nemmeno ti accorgi che è passata, e magari era proprio quella lì che faceva al caso tuo. Ma non lo puoi sapere e nemmeno starci troppo a pensare, perché stai ancora in mezzo al fiume e la roba arriva e passa e va.
Come già detto, spesso nella scrittura di Genovesi l’acqua, il mare diventano metafora della vita: una vita che è lì e ti aspetta, ti accoglie, ti investe implacabile, a volte fa male ma che nonostante tutto non si può non amare. Proprio come dice Luna di Chi manda le onde: “A me mi fa male, vabbè, ma che c’entra? Quegli sfortunati che non possono mangiare i dolci, loro stanno lì e soffrono in silenzio, mica si mettono a dire che la cioccolata fa schifo. Sennò sarebbero sfortunati e scemi”. Questa è la scrittura di Fabio Genovesi, una scrittura leggera, che alterna momenti tristi a una risata piena e sincera; in mezzo a storie quotidiane inserisce frasi che, nella presunta banalità del loro messaggio, lasciano il lettore a bocca aperta per la loro schiettezza e tenerezza. 
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Frasi che non potrebbero essere che cucite addosso ai personaggi che crea: sì perché sono loro il vero fil rouge dei libri di Genovesi. Lo scrittore si pone spesso dalla parte dei bambini, riuscendo a dare voce all’ingenuità e alle domande dell’infanzia; allo stesso tempo c’è sempre qualche adulto che si è perso, diviso tra il “vorrei” e il “non posso”. Fiorenzo, Mirko, Luna, Zot, Sandro, Fabio sono tutti un po’ “strani”: a livello superficiale o profondo poco importa, perché questo li contraddistingue. Se all’inizio si sentono solo “diversi”, nel finale quasi sempre capiscono che questo non è per forza un male e che a separarli da quella vita che sognano e che vogliono così fortemente spesso sono solo le loro paure e incertezze.
Poi però il tempo passa e ti rendi conto che la vita non ti stava davanti, la vita era proprio quella lì, precisamente quei giorni, quelle notti, la sentivi a un passo e invece ce l’avevi addosso.​
Questi sono gli ingredienti di Fabio Genovesi; se vi hanno incuriosito lo scrittore sarà ospite della libreria Fogola di Pisa, venerdì 13 ottobre alle 18:00, presso il chiostro della Chiesa del Carmine.
 
Foto tratte da:
https://www.librimondadori.it/libri/il-mare-dove-non-si-tocca-fabio-genovesi/
I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure
https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/
 
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7/10/2017

Etica di un feto – Il nuovo romanzo di Ian McEwan

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di ​Lorenzo Vanni
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​Ian McEwan è uno scrittore che non ha bisogno di presentazioni. Le sue opere sono sempre state al centro dell’attenzione fin da quando, nel 1978, aveva esordito con il suo primo romanzo, Il  Giardino di Cemento, che aveva provocato scandalo per l’argomento pruriginoso che affrontava (l’incesto), perfettamente in linea con la serie di altri racconti che aveva pubblicato pochi anni prima. Con il tempo, una volta superata la temperie culturale degli anni ‘70, a McEwan venne riconosciuto il talento attraverso numerosi romanzi che in parte si distaccavano da quel suo percorso iniziale, per poi coronare il tutto con il Man Booker Prize, vinto nel 1998 con il romanzo Amsterdam. Ad oggi è uno degli autori le cui opere sono maggiormente fonte di ispirazione per registi che hanno contribuito ad alimentarne la fama: parliamo ovviamente di Espiazione diretto da Joe Wright e considerato dell’autore inglese, Cortesie per gli Ospiti diretto da Paul Schrader e il nuovo film di imminente uscita Chesil Beach.  
Nel Guscio è il suo nuovo romanzo pubblicato in Italia da Einaudi nel luglio del 2017 e che conferma una volta di più, dopo il caso etico particolarmente spinoso rappresentato da La Ballata di Adam Henry del 2014 (un ragazzo minorenne che rifiuta una trasfusione di sangue perché Testimone di Geova), l’interesse per temi etici che rendono l’autore, ormai quasi settantenne, uno dei più provocatori e stimolanti del panorama letterario attuale.
Nel nuovo romanzo, la prospettiva adottata è quella di un feto che assiste, dal suo spazio privilegiato all’interno della placenta materna, alla pianificazione di un assassinio che vede come vittima il padre del futuro bambino. John e Trudy, i genitori, si sono presi una pausa di riflessione in cui osservare lo svilupparsi dei propri sentimenti, ma in realtà lei ha un amante di cui il marito è perfettamente a conoscenza. È il cognato, Claude, uomo insignificante in confronto al fratello John che invece dirige una casa editrice il cui principale obiettivo è quello di far conoscere la poesia; è infatti anch’egli un poeta e spesso va a trovare la moglie per declamarle le sue poesie (prevalentemente sonetti) composte in memoria del loro amore. Claude, al contrario, è un uomo ricco che vive tra mille agi e non tiene in nessuna considerazione la cultura e l’arte, in breve disprezza suo fratello John e tutto quello che rappresenta. Un giorno, Trudy e Claude decidono di uccidere John avvelenandolo, come accade anche nell’Amleto shakespeariano citato in esergo; quando l’atto è compiuto, Trudy è colta dai sensi di colpa per un atto che si rende conto essere stato guidato dalla gelosia e dalla rabbia per la separazione.

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La trama del romanzo, per quanto all’apparenza convenzionale, è resa ricca di tensione dal fatto che ogni cosa è raccontata dal punto di vista del feto che non vede niente di quanto accade al di fuori, ma ne sente solo i suoni. Il lavoro del feto nel raccontare è prima di tutto un lavoro immaginativo che permette di inquadrarlo più propriamente come rappresentazione dell’artista che, rinchiuso nella sua sfera protettiva, è in grado di osservare il mondo dalla distanza e di interpretarlo senza avere la certezza, tuttavia, che quanto afferma sia corretto. Non sono peregrine infatti le digressioni che fa l’autore collegando il ventre materno a uno spazio protetto toccato solo minimamente dal mondo intorno; McEwan fa spesso riferimento in questi casi agli avvenimenti del mondo come la crisi dell’immigrazione e le guerre in Medioriente, e viene da pensare che non stia solo parlando  del ruolo dell’artista in sé quanto dello status dell’Inghilterra che si ostina a considerarsi al di fuori del mondo come se il resto non la riguardasse, se non fosse che poi alcuni di questi eventi apparentemente marginali hanno effetti diretti sulla vita degli inglesi.
In altre parole, sembra, leggendo tra le righe, che McEwan prenda una posizione netta sulla Brexit, pur con strumenti postmoderni e quindi l’argomento non venga affrontato direttamente: è noto che gli scrittori postmodernisti evitano di affrontare direttamente la realtà perché non sono in grado di formulare giudizi netti al riguardo: “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Questo rende drammatica anche la prospettiva del feto.
Ma al di là di queste letture meta-letterarie si pone un dilemma esistenziale che coinvolge fino alla fine e che carica di tensione anche i momenti di cui si conosce già l’esito. Infatti, l’intento omicida è noto fin dall’inizio. Un romanzo indispensabile per mettere alla prova il nostro senso etico e che porta a immedesimarsi nelle azioni dei colpevoli, rendendo la vittima tutt’altro che gradevole come ci si aspetterebbe. Non è un romanzo consolatorio, ma è uno dei migliori che vi potrà capitare di leggere quest’anno. McEwan ha fatto ancora centro.
 
Immagini tratte da:
https://it.wikipedia.org/wiki/Ian_McEwan
https://www.goodreads.com/book/show/30008702-nutshell

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