Canta o dea l'ira di Achille, figlio di Peleo,
rovinosa, che mali infiniti provocò agli Achei e molte anime forti di eroi sprofondò nell'Ade
Quasi tremila anni fa, nell’antica Grecia, la società era fondata su valori importantissimi che, per quanto ci possano oggi sembrare primitivi, caratterizzavano la “culla dell’Occidente”. In una società aristocratica come quella descritta nell'Iliade, l'eroe incarna il valore - l'agathos (il buono) - in quanto valoroso combattente. Nel campo di battaglia è l'onore, il valore del guerriero a essere messo in gioco, la sua virtù (aretè).
Il problema sorge, e l'Iliade ne è una delle espressioni più mature, quando si scontrano due eroi di pari o simile onore. «L'ira funesta del pelide Achille» esplode quando Agamennone, per mostrare la sua supremazia sul rivale Achille, gli toglie la schiava Briseide.
Ma da cosa nasce la Hybris? Una qualsiasi violazione della norma della misura, cioè dei limiti che l’uomo deve incontrare nei suoi rapporti con gli altri uomini, con la divinità o con l’ordine delle cose. Macchiarsi di hybris per i Greci significava non aver agito conformemente alle regole, rendendo necessaria una punizione. Essa viene scatenata dall’Ate, una forma di accecamento che offusca la mente dell’uomo portandolo a commettere azioni superbe e malvagie. Agamennone, nel sottrarre Briseide ad Achille, commette hybris perché disonora l'eroe acheo, privandolo del suo onore, mentre il valoroso eroe acheo rapisce la stessa Briseide, sacerdotessa di Apollo.
La Hybris a sua volta provoca la Nemesi, ovvero la vendetta degli dei, che si scatena sul tracotante. Apollo si vendica di Achille aiutando la mano di Paride a prendere bene la mira con l'arco, facendo in modo che la freccia scoccata si conficchi nell'unico punto debole di Achille, vale a dire il tallone, e di Agammenone scatenando una pestilenza nel campo degli achei.
Ecco allora spiegata la celebre frase di Crise «Paghino i Danai le lacrime mie coi tuoi dardi», rivolta ad Agamennone, supplicando Apollo di vendicare l'affronto subito (la perdita della figlia Criseide). La condanna all’hybris era talmente radicata nella società greca da costituire uno dei temi più frequenti ed importanti della letteratura e della mitologia ellenica. Ne è un esempio il mito di Icaro (quintessenza della tracotanza, che nel suo desiderio di volare, cosa di per sé impossibile all'uomo, osa librarsi nel cielo più del consentito e, andando contro le parole del padre, che gli raccomandava gli volare basso, finisce per sciogliere le ali di cera), di Aracne, che sfidando Atena nella realizzazione di una tela finì per subire l’invidia di questa che la tramutò in un ragno.
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“Leonardo, l’opera nascosta” è uno spettacolo ispirato alla vita di Leonardo Da Vinci di e con Michele Santeramo. I suoi lavori più che spettacoli sono “spunti di riflessione, spunti per una riflessione”. Potremmo banalmente pensare che la sua vocazione è simile a quella di tutto il teatro, cioè che imitando la vita e le sue brutture e ponendole davanti allo spettatore, quest’ultimo ha la possibilità di interrogarsi sulla propria condizione. Ma per i lavori di Santeramo non è così, o meglio, non è solo così. Egli è un vero e proprio maestro del pensiero, un autore di un teatro filosofico, che senza l’arroganza di doverci insegnare qualcosa, ci accompagna maieuticamente in un racconto nel quale, verità e finzione, non si distinguono più l’uno dall’altra, “Non credo basti che una cosa sia accaduta per essere vera”. Santeramo al centro della scena è solo, i gesti e i movimenti sono timidi ed eleganti, l’allestimento è semplice: un tavolo ed il copione su di esso, una sedia, alle sue spalle i personaggi raffigurati nelle bellissime illustrazioni di Cristina Gardumi (è la seconda collaborazione tra i due). Tra questi vi è l’uomo vitruviano, precisione geometrica delle forme del corpo che iscritte in un cerchio incarnano la perfezione, ma Leonardo dopo aver visto così tanto splendore, vuole correggere qualcosa che appartiene all’uomo ma che è totalmente sbagliato ed imperfetto: la morte, perché? É semplice perché “La morte fa schifo”.
Ed è nella forma dialogica tra i personaggi e il protagonista che scorgiamo una scrittura filosofica che Santeramo trasforma, sapientemente, in drammaturgia originale e potente. Compaiono sullo schermo il duca (a rappresentare potere e ricchezza), il medico (la medicina e la scienza), Leonardo e Gesù (la scienza e la religione) che si interrogano sulla vita oltre la morte, ed è il Cristo a sembrare un po’ confuso: “Senti Gesù, tu mi sembra che ti arrampichi sugli specchi”. É l’antica disputa tra la ragione e lo spirituale, ovvero tra chi pensa e chi non pensa. Le scene tra Leonardo e la Gioconda (l’arte-scienza e l’arte-amore) ricordano Dorian Gray di Oscar Wilde, ma all’opposto della dannazione e dell’edonismo, l’invecchiamento per Santeramo si trasforma in amore. Leonardo e la Gioconda cercano di scoprire la segretezza di uno dei misteri più belli dell’esistenza: l’amore e l’amare nel tempo, il tempo, un titano che ci divora soltanto se iniziamo a contarlo. “Noi il tempo lo creiamo” dice Leonardo –Santeramo ed è questo a farci male. Come affermava Carmelo Bene bisogna cancellare i calendari, smettere di far funzionare gli orologi, nullificare le ricorrenze, soltanto così potremmo dimenticare il tempo, creandone uno interiore. Come potrebbe dunque il genio sconfiggere la morte? Ci prova inventando qualcosa che somiglia all’ “l’essere per la morte” (Heidegger) quest’ultima non è per noi un fatto, ma una possibilità. Leonardo inventa un luogo in cui il pensiero di diventare immortali, rende morti i vivi. Un luogo/paesaggio in cui “vivono” degli undead, che (come i loro cugini lontani zombie, vampiri, streghe) non provano più sentimenti, e quindi niente più calore umano, niente più amore, niente più sesso…niente. Ma questo non funziona. La Monnalisa diventa così il simbolo, l’oggetto ed il soggetto che rappresenta l’immortalità. L’unica possibilità per l’umanità sembra vivere l’oggi, l’adesso che “non è vivere, ma è sentirsi vivi”, smettere di pensare al “domani”. Il teatro di Santeramo, senza falsi moralismi, possiede qualcosa di antico perché è catartico e purificatore, ci pone delle domande, senza suggerirci troppo le risposte, poiché siamo noi ad interrogarci tacitamente, dentro i nostri io e le nostre coscienze.
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Claudio Magris è uno dei più importanti scrittori viventi. Il suo nome compare regolarmente tra i candidati al Premio Nobel per la Letteratura da molti anni eppure, nonostante questo, non è tra i più noti al grande pubblico. Questo è forse dovuto alla scrittura di Magris, “alta” e per molti aspetti intricata, ma è questo uno degli elementi di maggior fascino per chi sia disposto a fare il tentativo di sospendere il giudizio e leggere uno dei suoi romanzi.
Magris nasce inizialmente come germanista dedicandosi in particolare allo studio dell’opera di autori come Hoffman e Joseph Roth, per non parlare ovviamente della sua tesi di laurea pubblicata nel 1963 che aveva come tema principale l’elaborazione del mito asburgico nella letteratura austriaca. Per una prima parte della sua carriera, l’autore si dedica alla stesura di saggi di germanistica poi, nel 1986, passa alla forma romanzo con Danubio, che assembla tutte le suggestioni derivategli dalla cultura mitteleuropea e ripercorre la Storia e i personaggi che hanno fatto grande quella parte di Europa. Il romanzo è ritenuto il suo capolavoro e, se sarà premiato al Nobel, sarà verosimilmente per questo suo volume ![]()
Il suo ultimo romanzo è invece Non Luogo a Procedere, pubblicato nel 2015 da Garzanti. La trama è tutt’altro che lineare e questo per alcuni lettori potrebbe costituire un ostacolo, ma la riflessione che fa Magris è fondamentale. Subito dopo la seconda guerra mondiale, un uomo decide di costruire un “Museo della Guerra per l’Avvento della Pace” attraverso cui ripercorrere tutti gli strumenti che nel corso del tempo sono stati sfruttati come mezzi per commettere violenze; vi trovano posto gli oggetti più bizzarri, passando dai panzer usati nella guerra a una sciarpa usata per strangolare un parente. La speranza è che, una volta esposte tutte quelle armi, la violenza venga fermata per sempre. L’uomo muore ma spera di poter portare a termine l’impresa; così, lascia un quaderno di appunti su cui sono riportati tutti i materiali e gli allestimenti del futuro Museo.
Luisa è invece la donna incaricata di portare a termine l’allestimento del Museo e leggendo gli appunti ripercorre mentalmente la storia della sua famiglia di origine ebrea nel periodo immediatamente precedente la guerra e durante il conflitto. A questa storia se ne affianca un’altra di un antropologo europeo del primo Novecento che porta dal Paraguay un Chamacoco per esibirlo davanti alla grande corte di Praga. Da un punto di vista critico, la necessità del Museo sta nel fatto che, se da un lato celebra la Pace esponendo il suo opposto fissandolo nel tempo, dall’altro la Storia viene di fatto archiviata e rimossa. Un’espressione usa Magris è “disattivazione della Storia”, e quindi l’intera opera museale ha la funzione di rendere innocua e distaccare da sé una realtà troppo dolorosa. Il pensiero di Magris è postmoderno e lo si deduce non solo da questo, ma anche da un’espressione che usa: “Tutto è segno”: ridurre i fatti della Storia a una serie di segni linguistici risponde a un’esigenza di dover interpretare la realtà come se fosse un grande discorso. Da questo emerge l’incertezza e la natura sostanzialmente tragica del pensiero di Magris. La guerra non può essere vissuta in modo pacifico perché segna un punto di rottura troppo netto con l’idea di mondo che dominava in passato. La Seconda Guerra Mondiale ha aperto le porte a un nichilismo disperato di cui è impossibile liberarsi a meno che non si accetti di reinterpretare la realtà secondo la propria visione delle cose. Se anche la morte è un fatto della Storia e i fatti della Storia devono essere interpretati, si aprono prospettive inedite. Immagini tratte da: http://www.quilibri.eu/96-2/ http://www.mondadoristore.it/Non-luogo-a-procedere-Claudio-Magris/eai978881114373/
“Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro.”
Queste le famosissime parole di Umberto Eco, ma potremmo trovare molte citazioni sul piacere della lettura. Allora quale miglior regalo da fare ai vostri cari se non un libro? Librerie con scaffali ricolmi di libri, vetrine che mettono in bella mostra le ultime uscite, scegliere un buon libro per i vostri cari potrebbe non rivelarsi un'impresa così facile. Valutare un libro dalle recensioni online o leggendo la trama sulla quarta di copertina a volte porta ad acquisti frettolosi e magari non sempre soddisfacenti. Abbiamo pensato di aiutarvi in collaborazione con la Libreria Fogola di Pisa, stilando una lista di 15 titoli tra libri di recente uscita, ma anche alcuni di qualche anno fa.
"Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno" è il regalo ideale per chiunque ami leggere, anche se non ne conoscete bene i gusti. Si tratta, infatti, di un compendio di "cure romanzesche": secondo le autrici non c'è niente che non si possa curare con la giusta lettura. "L'Arminuta" e "La ferrovia sotterranea" sono invece i due dei premiati di quest'anno: premio Campiello il primo e premio Pulitzer il secondo. Entrambi i romanzi hanno una protagonista femminile: una ragazzina di 13 anni nell'Abruzzo degli anni Settanta per il libro della Di Pietrantonio, una giovane schiava nera fuggita dagli orrori di una piantagione della Georgia per la Whitehead. Nel primo caso però si tratta di una saga familiare, nel secondo di un romanzo storico dalle sfumature fantastiche. Se volete invece un libro che parli di amicizia, affetti e sentimenti traditi senza però rinunciare a un affresco storico, "Patria" di Aramburu è il libro che state cercando: due famiglie legate a doppio filo sullo sfondo della lotta armata dell'Eta nei Paesi Baschi. Prima traduzione italiana per William Kent Krueger, "La natura della grazia" colpisce per la bellezza della sua scrittura e ci porta nel Minnesota degli anni '60, raccontandoci l'estate in cui Frank abbandona l'adolescenza per entrare nel duro mondo degli adulti. Sempre un bambino è il protagonista di "Il club degli incorreggibili ottimisti", Michel Marini, che nel corso del romanzo lascerà l'infanzia e si affaccerà in un'adolescenza inquieta e piena di emozioni nella Parigi del dopoguerra. Siamo invece completamente investiti dalla Seconda Guerra Mondiale in "Noi, i salvati", romanzo ispirato alla vera storia della famiglia di Georgia Hunter, ci racconta l'emozionante odissea di una famiglia divisa dalla guerra e un fuga dall'Olocausto. Torniamo nell'Italia contemporanea invece con il giovane scrittore Peppe Fiore e il suo "Dimenticare", storia di Daniele, un uomo che fugge dal lido di Fiumicino dove è cresciuto per isolarsi sulle montagne del borgo di Trecase: una fuga che in realtà è il doloroso tentativo di dominare "la bestia" che è in lui. Tra gli italiani non poteva mancare nemmeno "Le tre del mattino", ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, che nell'arco di due giorni e due notti senza sonno ci racconta del vero incontrarsi e conoscersi di un padre e di suo figlio. Concludiamo con il genere giallo. Tra gli italiani non potevano mancare due maestri del genere: il ritorno dei Bastardi di Pizzofalcone con "Souvenir" di Maurizio De Giovanni e il nuovo libro di Donato Carrisi "L'uomo del labirinto". Non di nuova pubblicazione, ma recentemente riproposto, "La notte alle mie spalle" di Giampaolo Simi, ci racconta invece la doppia e sconcertante facciata di un uomo dall'apparenza impeccabile.Thriller in cima alle classifiche in Francia, vera e propria rivelazione per gli amanti del genere in Italia, stiamo parlando di "Non spegnere la luce" di Bernard Minier. Non fatevi spaventare dalla mole: più di settecento pagine che però terranno con il fiato sospeso dall'inizio alla fine. Rimaniamo in Francia e più precisamente sulle falaises della Normandia con "Mai dimenticare" di Michel Bussi, dove l'incantevole paesaggio diventa la scena ideale per inganni, trappole e incidenti mortali. Concludiamo con "Le bambine dimenticate", conturbante thriller sulla scomparsa di due gemelline. A questo punto non ci resta che augurarvi buoni acquisti e soprattutto buona lettura!
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I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/ Le copertine dei libri son tratte da: ibs, amazon, kobo 2/12/2017 Lo sportellista senza alcuna aspirazione, dunque, come un novello “Bartleby lo scrivano”Read NowDa dicembre in libreria il nuovo libro “Guido e il bandolo della matassa - storie di un postino” dello scrittore romano Romolo Giacani. Dalla direzione generale dell’Eur all’altra parte del mondo, in Argentina. È questo quello che succede in un batter di ciglia al goffo Guido Civitani, impiegato oblomoviano delle Poste – comodo, ma non indolente, seducente ma poco fantasma. Il libro verrà presentato per la prima volta al pubblico, a Roma, presso l'Hotel Domus Romana in Via delle quattro Fontane, domenica 3 dicembre alle ore 17.00.
In copertina, invece, l’illustrazione originale della giovanissima Nadia Sgaramella. Il libro verrà presentato per la prima volta al pubblico, a Roma, presso l'Hotel Domus Romana in Via delle quattro Fontane, domenica 3 dicembre alle ore 17.00. A tessere la storia, nel vero senso della parola, visti i continui rimandi a quel filo che lega due diverse vicende tra loro distanti nel tempo e nello spazio, è Giacani, un noto professionista romano dirigente delle Poste Italiane, che - dopo una breve pausa - ritorna nel panorama editoriale con un racconto insolito, poco autobiografico (in realtà i due hanno in comune soltanto la professione), e molto ironico, schiacciando l’occhio al noto “Bartleby lo scrivano”: fosse per Guido, risponderebbe sempre con un semplice “preferirei di no”. Ed era questo, un po’, quello che amava pronunciare l’autore durante gli anni universitari (Giacani è laureato in Filosofia e si occupa da anni di Comunicazione e Relazioni Esterne, prima in Telecom Italia poi in Poste Italiane). Adesso, invece, se dovesse descrivere la sua vita in un libro, gli piacerebbe che la fine somigliasse a una commedia di Wodehouse e se dovesse colorarla, sicuramente la farebbe tutta biancoceleste. Se potesse, invece, mettere una musica di sottofondo, probabilmente sceglierebbe i Genesis. Che tipo di personaggio nasce da una penna così particolare e sui generis? Guido è uno sportellista senza alcuna aspirazione, è pago di quanto ha raggiunto, non desidera un guadagno più alto, un avanzamento di carriera o, peggio, un’avventura imprevista. La sua tranquilla vita di postino, o meglio, sportellista innamorato dei suoi clienti, sta per cambiare. Su di lui incombe infatti un trasferimento: a imporgli i cambiamenti sono sempre le donne: il suo “Boss”, Patrizia Letizi, e l’inquieta sorella Claudia, soprattutto. Lui, d’altra parte, è fatto così, di fronte a una richiesta femminile, cede perché è nella sua natura farlo. Eppure il destino, capace di annodare le matasse delle vite altrui, ha in serbo tutto ciò che lo sportellista ha sempre scrupolosamente evitato….
«Sulla figura del “postino”, le arti ci tramandano molti riferimenti, pensiamo all’amico barbuto di Van Gogh o all’ancora più famoso film di Michael Radford con la grande interpretazione di Massimo Troisi – dichiara l’editore Salvo Bonfirraro – se ci fermiamo a riflettere, infatti, si tratta di una figura eroica, estremamente interessante, è il messaggero che annulla le distanze, è il tramite che lega gli opposti. Il nostro postino si colora di sfumature letterarie e contemporaneamente risulta gradevolissimo per le sue infinite gag che lo portano a somigliare a un personaggio della commedia all’italiana. Pubblicare un testo di così alto spessore non può che essere stato un onore».
Un prodotto editoriale che lascerà tutti i lettori con il fiato sospeso, pronti a chiedere subito un sequel della storia… E a voi? Cosa succederebbe nella vostra vita grigia se, ad un certo punto, riceveste una lettera giunta da lontano? A chi confidereste il segreto indicibile che avete appena appreso?
Capita a volte che un libro veda la sua nascita in un determinato anno, per esempio nel 1965, ma che passi in sordina. Capita che lo stesso libro venga “riscoperto” e ridato alla stampa quasi quarant’anni dopo, per esempio nel 2003; ma questa volta quel libro semisconosciuto e anonimo diventa il caso editoriale dell’anno e vende più di 50.000 copie. Questa è la storia di Stoner di John Williams, edito in Italia da Fazi Editore. Un romanzo non troppo lungo (supera di poco le 300 pagine), che con modeste ambizioni ci racconta la vita di un uomo qualunque: William Stoner. Quando incontriamo Stoner alla prima pagina è un ragazzo di campagna di umili origini di 19 anni. Siamo nel Missouri e quella sullo sfondo è l’America di inizio Novecento; leggendo questo romanzo ci muoveremo su una sorta di linea del tempo immaginaria, che ci farà attraversare le due guerre mondiali fino a condurci a metà secolo, per la precisione al 1956. Ma i grandi spazi americani, i cambiamenti sociali, perfino le due grandi guerre che hanno devastato i nostri Paesi restano sullo sfondo, ne sentiamo l’eco ma non le viviamo concretamente. Quello che Williams riesce a tenere in primo piano è invece l’uomo, William Stoner. Non è un caso infatti che la storia si concluda nel 1956, anno della sua morte. Stoner è un uomo ordinario: sicuramente una mente brillante, ma anche un uomo schivo, spesso goffo, inadatto o inconcludente nei rapporti interpersonali, un uomo capace di provare forti passioni, ma spesso incapace di trasmettere all’esterno questo suo slancio:
“Sempre, fin dalle sue prime, maldestre esperienze come matricola del corso di inglese, aveva percepito l’abisso tra i sentimenti che lo studio suscitava in lui e la sua capacità di esprimerli in classe. (…) Ciò che prima pulsava di vita avvizziva subito nelle parole e ciò che si muoveva in lui appena pronunciato diventava gelido. E la percezione della sua inadeguatezza lo angustiava a tal punto che quel sentimento si fece costante, diventando parte di lui come la curvatura delle spalle.” A 19 anni, dopo aver trascorso quasi tutta la sua vita dando una mano ai genitori nella fattoria di famiglia, Stoner si iscrive alla facoltà di Agraria dell’Università di Columbia grazie alle esortazioni di un ispettore della contea (“Dice che secondo lui dovresti andare” dirà il padre a Stoner). Quattro anni di studi e poi il ritorno alla fattoria per mettere in pratica quanto imparato: questo il progetto futuro di Stoner. Ma qualcosa si mette in mezzo, e non è una donna, delle cattive compagnie o una ribellione giovanile, ma un esame di letteratura inglese e il suo professore Archer Sloane: “Ma era l’esame di letteratura inglese a creargli i problemi maggiori, turbandolo come mai gli era accaduto prima.” Un turbamento che è indice di una nuova passione, di un interesse nuovo, tanto che nel secondo semestre di quello stesso anno Stoner abbandona Agraria e inizia a seguire corsi di storia, filosofia e lettere. Da questo momento l’amore per i libri, per i classici, diventerà il vero rifugio di Stoner; i suoi momenti di studio saranno il luogo capace di dargli pace, il suo posto in questa vita, dove sentirsi appagato e dove avvertirà meno il peso della sua inadeguatezza. “Vagava per i corridoi della biblioteca dell’università, in mezzo a migliaia di libri, inalando l’odore stantio del cuoio e della tela delle vecchie pagine, come se fosse un incenso esotico. Certe volte si fermava, prendeva un volume da uno scaffale e lo teneva per un istante tra le sue manone, che vibravano al contatto ancora insolito con il dorso e il bordo e le pagine docili. Poi cominciava a sfogliarlo, leggendo qualche paragrafo qua e là, e le sue dita rigide giravano le pagine con infinita attenzione, quasi timorose di distruggere, con la loro rozzezza, ciò che avevano scoperto con tanta fatica.” Questa nuova consapevolezza sarà il fil rouge della vita di Stoner: non verrà meno quando conoscerà la donna che diventerà sua moglie, Edith, né alla nascita di sua figlia Grace, né durante gli scontri accademici con Lomax, tantomeno quando conoscerà l’amore vero, con Katherine. La bellezza del romanzo di Williams si colloca in una voluta assenza di unicità, che per una volta non ci conduce in storie ricche di pathos, di avventure rocambolesche o scenari fantastici. La bravura dell’autore risiede in questa scelta, ma anche nella sua straordinaria capacità di scrivere: una scrittura piana, lineare che sembra scorrere in modo ordinato lungo una linea temporale, ma che riesce a cristallizzare alcune scene tanto da farcele immaginare vivide nella nostra mente come se stessimo guardando un film. Allo stesso modo, la scelta di un narratore esterno non ci impedisce di provare una sorta di empatia sentimentale con i protagonisti della storia, le cui emozioni escono dalle pagine del romanzo per investirci come un’onda. Aspettiamo di vedere se il prossimo film di Joe Wright con Casey Affleck nei panni di William Stoner saprà regalarci le stesse emozioni; nel frattempo non posso che consigliarvi la lettura di questo “riscoperto” capolavoro. Foto tratte da: https://fazieditore.it/catalogo-libri/stoner-2/ I disegni inseriti in questo articolo sono stati espressamente realizzati da Elisa Grilli, per visionare altre sue opere visitate: https://elisagrillidc.wixsite.com/drawing2dream oppure https://www.facebook.com/elisagrillidicortona/ Potrebbe interessarti anche: http://www.iltermopolio.com/letteratura/follia-di-patrick-mcgrath-e-il-ritorno-del-gotico http://www.iltermopolio.com/letteratura/le-nostre-anime-di-notte |
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Febbraio 2023
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