![]() di Stefano Pipi
La portata della tragedia di Hiroshima va contro ogni capacità di comprensione e di spiegazione. Sembra impossibile non solo razionalizzare - trovare un senso alla decisione calcolata di spazzar via le vite di migliaia di persone - ma persino descrivere ciò che è accaduto: le parole vengono meno, perdono di senso, paiono di troppo e suonano fuori luogo di fronte ad un simile dolore. Come fare, allora, a raccontare e tentare di far capire, per mantener viva e coltivare la memoria (senza cadere nel buonismo e nella retorica) di ciò che è successo e non dovrebbe mai più accadere? Paolo Miorandi, psicoterapeuta e scrittore, ci riesce nel suo Lessico di Hiroshima (pubblicato dalla casa editrice Il Margine). E lo fa ripensando e adattando il linguaggio (strumento di descrizione della realtà) all'immensità della catastrofe nucleare.
Di fronte a una tale distruzione le parole si piegano, si fondono come metallo e acquistano significati nuovi. Per riferirsi all'accaduto i sopravvissuti dovettero inventare una parola nuova (pikadon, chiamarono l'esplosione, unione delle parole giapponesi per ''lampo'' e ''boato''): sentivano il bisogno di raccontare, di dare un nome e con esso un senso a qualcosa di impensabile. Il lessico normale, quello della vita di tutti i giorni, non sarebbe mai bastato per esprimere ciò che avevano visto e vissuto. In questo aneddoto si cela il significato del libro di Miorandi. Lessico di Hiroshima si articola in 30 capitoli, ognuno incentrato su una parola: da ''Fiori'' a ''Silenzio'', da ''Cicatrici'' a ''Luce''. Tutti vocaboli di uso comune, che immersi nella tragedia di Hiroshima si trasformano completamente. Così ''Acqua'' diventa espressione della sete straziante che divora i sopravvissuti all'esplosione; ''Ombre'' sono i pochi, sbiaditi rimasugli della vita di tutti i giorni che affiorano tra le macerie della città; ''Inferno'' il nome dell'unica cosa che (seppur lontanamente) può paragonarsi a quanto hanno visto le vittime della bomba. Lo stile di Miorandi è leggero, pacato, perfetto per cercare di raccontare le esperienze di chi ha vissuto il bombardamento. E lo fa con una sensibilità rara, quasi in punta di piedi, rimanendo in bilico fra passato e presente – fra il tentativo (inevitabilmente vano, ma non inutile) di immedesimarsi negli hibakusha, i sopravvissuti alla bomba, e la necessità di ricordare. Perché ogni cosa ''cresce sempre in ambedue le direzioni, verso il cielo e verso la terra, verso il futuro e verso il passato''. Proprio come i ciliegi di Hiroshima. Immagini tratte da:
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Maggio 2023
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