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19/2/2019

Banana Yoshimoto - Kitchen

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Banana Yoshimoto è una scrittrice giapponese; e Banana è il nome di penna, pseudonimo di Mahoko, che dice di aver scelto solo per la bellezza dei fiori rossi rossi del bijinshō, detto anche red banana flower.

Yoshimoto rientra negli scrittori post anni 60, che riescono a rendere con le loro opere letterarie la sensibilità delle nuove generazioni, che propongono in rivisitazione letteraria il  mosaico di stili ed influenze che agiscono, plasmano chi vive della e nella contemporaneità: dal cinema, al manga, alla televisione; con i temi dell’amore, della morte e della solitudine che si riaffacciano pretendenti della prima linea.

Il suo esordio in Italia coincide con il 1991 quando Feltrinelli pubblicò "Kitchen", il suo romanzo di esordio, uscito in Giappone nel 1988.
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Un romanzo che parla di una vita, quella di Mikage. Una vita che non l’ha risparmiata da perdite e dolori, una vita che sembra essere finita ancor prima di poter aver avuto la parvenza di averla compresa.
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Mikage, la protagonista, ci guida attraverso il racconto con solo il suo punto di vista,intermittente tra velate, dolci riscoperte e dolori atroci, mal compresi nel loro essersi verificati.
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Una storia di solitudine, a cui si accompagnano eventi, persone, incontri di anime; legate insieme dall’amore e dalla curiosità per la cucina, inteso come luogo caricato di un simbolismo tutto personale, di calore, di svelamento e condivisione di esistenze: luogo da vivere e da far vivere.

Ed è dalla cucina  che Mikage si sceglie la nuova famiglia, con Yūichi, rimedio che spaventa per l’instabilità delle reazioni ma che salva per il sentimento reciproco, e sua madre padre Eriko. Una nuova famiglia, un finale tutt’altro che lieto.

E’ una storia triste, di una tristezza sconvolgente mitigata dall’aura quasi fantastica, inverosimile, sprigionata dai pensieri e da alcuni avvenimenti.
​
E’ una storia da leggere, da scoprire senza anticipazioni di sorta; se non l’importanza del costruire la propria realtà e il proprio modo per andare avanti; la centralità delle emozioni che non lasciano spazio alla realtà, perché sono la realtà, ne rappresentano lo squilibrio, in una sovversione della tradizione che le vuole solo iperbolate, superflue, infime devianti della razionalità umana, associate rispettivamente a femminilità e mascolinità. 

Ma ecco che anche questo si perde nella rielaborazione dello stile dei fumetti manga per ragazze (shōjo manga), in cui il convenzionale si tramuta in stendardo di novità, cambiamento; sublime deposito di ciò che deve essere compreso e sperimentato mantenendolo lontano per non soffrire, ma solo per spiegarsi la vita.

Il romanzo ripercorre le sofferenze cui i protagonisti sono stati amaramente spettatori dal ruolo inerme e passivo, le quali sono fronteggiate con l’indennità come premio finale, con la riconquista di ciò che sembrava perduto davanti alla paura, al timore e alla sofferenza; davanti alla perplessità di non aver fatto niente per poter cambiare le cose, perché nessuno pensa mai che le tragedie possano accadere all’improvviso.

 Lo sappiamo, della loro esistenza, ma pensiamo che passino leggere lontano da noi, facendoci percepire se non la loro eco di notizia; non ci pensiamo, soprattutto nella giovane età. Non ci pensiamo davvero finché non capita. Come a Mikage.

E allora il malessere si ripercuote sull’ordinario delle cose, sulla quotidianità, sulla persona e le sue certezze, in un limbo di aspettative annullate, di speranze ormai disdegnate. 

E’ percepibile nel libro l’influenza del cinema e del manga, la suddivisione in scene, precise, dai risvolti visivi e sensoriali; coniugate però a un registro più letterario; quello dell’impressione, dell’attimo che mai si ripete in egual modo, del momento. Un grappolo di frasi slegate che si rincorrono punto dopo punto, in una velocità metodica che lascia la descrizione ai luoghi, agli oggetti, all’ambiente e ai personaggi stessi. 

Sono i protagonisti che si esplicano; nel loro agire, nel loro reinventarsi, in un mondo fantastico per la mancanza della solitamente preponderante logica, che diventa quella personale delle emozioni. Emozioni non lineari che guidano la narrazione, rendendola appunto disconnessa, cumulativa, sovrapposta; proprio come accade nella vita, dove spesso le emozioni si duplicano, si scontrano, si accavallano, si presentano contemporaneamente e si rivelano nel più disparato modo, anche con il più semplice pretesto.

"Kitchen" è un modo per andare avanti, un luogo a cui aggrapparsi e costruire da zero, un token a cui affibbiare significati e attribuire gioie e dolori, un luogo a cui legarsi in ogni dove, per ritrovare sempre un qualcosa un pò ovunque e per questo non sentirsi mai soli abbastanza.

Il tema della famiglia, intesa anche e soprattutto come scelta, affinità, e il nuovo rapporto uomo donna, sempre meno definiti in rigidi schemi convenzionali di mascolinità o ristrettezza nelle azioni permesse o aspettate nelle donne si mescolano al fantastico e al convenzionale, alla storia; e la rendono nuova, libera di essere e di osare; come le nuove generazioni stanno cercando 

Un libro quindi che si collega a tematiche contemporanee di una certa rilevanza, che stanno sconquassando logore credenze e cambiando la vita di tutti noi, unite alla sofferenza che esiste, in plurime forme, a cui ognuno reagisce costruendo una realtà diversa quante sono le persone che la pensano, che la cercano per sopravvivere, per dare senso, una spiegazione a ciò che è stato, è e sarà.  

E la vita, seppur per poco, può tornare a sembrare speciale, in compagnia di anime giuste, di occhi gentili ed eventi straorinari nella semplicità del benessere che portano, che riescono fugaci a far allontanare, anche di poco, la solitudine. Una solitudine che rifugge dal dolore del ricordo ma che al tempo stesso da quest’ultimo trae sostanza, in un sentimento di dolce nostalgia e straziante lucidità del non ritorno.
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La vita procede grazie a questa costruzione incessante, di regressione quasi all’infanzia, nella ferma gentilezza del vivere e perdonare, soffrire e riprendersi dei bambini.

Costruire una nuova realtà in cui tornare ad abitare, ogni volta, e che sarà sempre diversa, così come ci attende e si aspetta che siamo, cambiati. E poco importa di quale colore siano i mattoni o le pietre che usiamo per ricostruire, l’importante è che continuiamo a farlo per alleggerire il peso schiacciante del dolore, l’oppressione più subdola della scontentezza, la più profonda tristezza.

Un falso disincanto dall’orrore, poiché la vita procede: tentativo dopo tentativo; alla ricerca di un’immaginazione, più potente della realtà, a cui aggrapparsi, sia questa scaturita da un sorriso, un ponte, una borraccia, un pasto, una cucina.

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