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23/3/2019

Come una canzone triste in un giorno di sole

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di Cristiana Ceccarelli
Sono tanti i libri che ci vengono definiti come imperdibili. Ma alcuni libri per me hanno un tempo, non nel senso che smettono di essere fruibili fuori dal contesto o tempo di produzione, ma piuttosto che devono essere letti quando si sente essere arrivato il momento giusto; io devo sentire di averne bisogno così da poterli rendere anche un po’ miei.
Come un sesto senso, mi sveglio la mattina con un’idea precisa, in testa un titolo, vado in libreria e lo compro.
Così mi è successo per Norwegian Wood, un romanzo di Haruki Murakami del 1987, pubblicato in Italia anche con il titolo Tokyo Blues; un titolo che riprende una canzone dei Beatles e con esso la tinta malinconica che lo caratterizza.
Murakami lo ha scritto tra la Sicilia e Roma, ed è ispirato a un suo precedente racconto “La lucciola”, insetto che ritroviamo nel libro in una scena di tacito addio, in un grazie regalato per il tempo trascorso e per ciò che è stato accettato nell’altro.
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Il romanzo è narrato in prima persona, in lungo flashback del protagonista Tōru Watanabe, innescato dall’epifania creata proprio dalla canzone dei Beatles sentita sull’aereo in fase di atterraggio; a quella canzone Watanabe associa un particolare ricordo, che credeva essersi impolverato sotto lo strato degli anni, e da quello ricorda il periodo e le persone che hanno caratterizzato la fine dell’adolescenza e gli anni universitari, in un climax che porta alla scoperta dei personaggi attraverso la loro crescita.
Siamo tra la fine degli anni ’60 e il 1970, tra le proteste studentesche in un Giappone che rivela l’apertura e l’apprezzamento per la cultura occidentale, soprattutto anglofona.
Questa nuova apertura e conseguenti influenze nella caratterizzazione, vengono anche implicate nella descrizione di Kizuki, l’amico del protagonista al tempo dei 16 anni, che assume le sembianze adolescenziali di Dick Diver, personaggio di “Tenera è la notte” romanzo di F.S Fitzgerald, con la sua padronanza delle situazioni, la sua dialettica, l’abilità nello scovare le potenzialità dell’altro, nel rendere tutto appetibile di conversazione e saper dirigere e cadenzare quest’ultima come un arbitro contento di ricoprire quel ruolo.
Un rimando a canzoni e testi stranieri che però non vuole rifiutare o negare le proprie tradizioni, come si nota dalla continua comparsa di cibi, luoghi e usanze chiamate col nome giapponese.
Questo è un romanzo che sembra descrivere un tradimento verso se stessi; un tradimento però necessario che si allontana dal rispetto per avvicinarsi alla scoperta, al procedere per tentativi nell’attesa di prendere finalmente coraggio, qualunque sia l’azione che vogliamo compiere, o nell’attesa di qualcosa o qualcuno di meraviglioso, da incontrare o già conosciuto.
Un tradimento che è riflesso dell’incapacità di capirsi veramente nei desideri e negli interessi, nell’essere costantemente indecisi, riflessivi, e per questo vivere in un mondo interiore che appare all’altro inafferrabile.
Un ermetismo annoiato che cerca di essere contrastato da un’implacabile sincerità e trasparenza dei dialoghi, delle espressioni; quasi come se i protagonisti volessero raccontarsi a se stessi, per comprendersi, o al limite essere accettati per quello che sono, nella speranza che qualcuno ascolti e riconosca i loro bisogni.
Non c’è ombra di menzogna ma solo di contrasto tra le riflessioni, dovuta proprio a questo cambiamento incerto a cui tutti siamo soggetti nel passaggio tra la vita e la morte, e che il libro percorre sul binario della crescita.

In questo possiamo ritrovare l’attitudine e le emozioni de “Il giovane Holden” di J.D Salinger, solo rese in maniere diversa: in Norwegian Wood questa condizione è causa di un dolce assopimento, tenue e a tratti magico, in un’atmosfera che nonostante le agitazioni e gli avvenimenti rimane gentilmente pacata, lenta; mentre Salinger la lascia uscire in tutta la sua angosciante e nervosa portata.
In Norwegian Wood l’indecisione è raccontata dall’abbandono all’evidenza: la vita è un mistero che va scoperto vivendolo o decidendo di abbandonarlo, arrendendosi alla vastità del mondo e delle sfaccettature che lo abitano.

È un libro che racconta dell’adolescenza, delle passioni, dei sentimenti e dell’amore anche nella sfera dell’eros , che lo fa vivere tra le pagine senza vergogna o esitazione nell’essere vissuto nelle declinazioni forti come in quelle delicate, dispiegato nelle relazioni di Watanabe con Naoko e Midori e che attraverso di loro parla della morte, del suicidio e dell’abbandono, che vanno a mescolarsi alle azioni più comuni e quotidiane, per far capire che anche le prime purtroppo lo sono.

È un libro che si affaccia delicato al realismo magico, dove non si questiona sulla veridicità del contesto ma sulle reazioni a volte troppo disincantate dei personaggi, che si traducono in dialoghi e pensieri che sembrano non poter appartenere alla quotidianità come l’abbiamo sperimentata.
Quel modo però che hanno le loro parole di alzarti e farti sospendere, per un secondo, nell’incertezza della probabilità, per poi riportarti giù alla triste realtà non ti lascia il tempo di riflettere su quanto possano essere insieme vere o false, vorresti solo che qualcuno, all’improvviso, ti parlasse così, per quanto strano possa sembrare, nonostante tutta la malinconia che esiste; in un gioco continuo di un presente che sogna o scappa, che risulta vero nonostante quest’aura di magica impossibilità che a volte lo avvolge.
È qui che risiede l’incanto, la magia di una lettura intensa che non ha peso se non sul cuore.

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