Esiste un profondo legame che da sempre unisce dolore e conoscenza. E’ su questo secolare connubio che ruota tutta la storia imbastita da Roberto Recchioni e Gigi Cavengo, nata per festeggiare i primi trent’anni dell’indagatore dell’incubo.
Sequel ideale di Mater Morbi (sempre di Recchioni), storia dai toni molto drammatici sugli aspetti più controversi e seducenti della malattia, Mater Dolorosa è, di contro, incentrata sul Dolore nel senso più trasversale ed esistenziale del termine. Sentimento profondo e muto, il dolore è qui rappresentato come un mal di vivere (presunto o reale) gridato in maniera scomposta e inarticolata. In quanto tale, esso richiede un processo di profonda elaborazione e mutamento interiore al fine di poter essere reso comunicabile, traendo dall’impresa una rinnovata consapevolezza. E’ quello che fa Recchioni (anche se in maniera meno sentita rispetto a quanto fece in Mater Morbi), che attraverso il filtro della narrazioni e i riferimenti autobiografici racconta ed esorcizza i propri demoni; ed è anche quello che fa Dylan Dog durante tutto il corso della storia. L’Old boy dovrà infatti vedersela nuovamente con la madre di tutte le malattie, tra ricordi del passato, incubi, idiosincrasie e apatici sabati sera all’insegna della caccia agli zombie, in un chiaro omaggio al libro Dellamorte Dellamore (ovviamente di Sclavi). Si tratta di una discesa negli inferi dagli effetti devastanti, che rappresenta lo scotto da pagare per raggiungere un più alto livello di consapevolezza e di liberazione dai vincoli che lo stato di disgregazione (interna ed esterna) necessariamente comporta. Anche qui, proprio come in Mater Morbi, è il concetto di accettazione il punto focale dell’intera storia; tuttavia, Mater Dolorosa si distingue per la maggiore dialettica con cui è affrontata la questione. Sono due gli atteggiamenti cui solitamente si ricorre per non soccombere al dolore: mantenere le distanze da esso, oppure accettarne il rischioso coinvolgimento. Morgana, la madre di Dylan Dog, e Mater Morbi, seducente antropoformizzazione della malattia, diventano quindi degli archetipi comportamentali rappresentanti le due diverse filosofie con cui il dolore può essere inteso e affrontato. La prima, figura materna e protettiva, è la dignitaria di una forma mentis che si oppone strenuamente alle potenza estranee e caotiche; la seconda, che è praticamente la Malattia fatta carne e ossa, funge da guida verso un sapere più alto, pretendendo il diretto e personale coinvolgimento del soggetto interessato. Di fronte a queste due alternative, Dylan Dog ne sceglie una terza, più propensa a conciliare il proprio destino di essere umano con la dimensione di fragilità insita in ognuno di noi. Qui ritorna il concetto di accettazione accennato prima: si tratta infatti di assumere il proprio destino, non di vincerlo o rinnegarlo. E’ solo entrando nella fragilità (che di per sé non è né forza, né debolezza, ma rappresenta una contraddittorietà da considerare nell’insieme) da cui scaturisce la sofferenza che è possibili ridimensionare quest’ultima, lasciandola scorrere dentro di noi. Siamo tutti fratelli, uniti nel segno del dolore, e questa debolezza è, per paradosso, anche la nostra forza, perché ci permette di capire che non siamo soli in un universo apparentemente caotico e spietatamente indifferente.
Mater Dolorosa è anche una storia che celebra Dylan Dog, la sua storia, le sue anime, il suo passato, presente e futuro. Non a caso le due “madri” possono viste come simboli metanarrativi delle diverse istante verso cui potrebbe tendere la serie: quella di un possessivo e limitante amore conservatorio verso la tradizione sclaviana; e quello di uno stravolgimento all’insegna del “il fine giustifica i mezzi”, ma che rischia di distruggerne l’identità. Tensioni diverse, ma in egual modo dannose e controproducenti.
Anche in questo caso, quello che Recchioni prova a comunicare è che esiste un altro modo di intendere la serie, di proiettarla verso il futuro senza rinunciare ai punti cardine che ne hanno sancito il successo e conquistato l’affetto dei fan, sottintendendo la forte volontà di rendere nuovamente Dylan Dog l’icona di un certo modo di sentire e interpretare la realtà contemporanea, esattamente come lo era agli inizi. In realtà il paragone con Mater Morbi, qui più volte ribadito, è abbastanza fuorviante. In quel caso si trattava di una storia molto autoriale, con riferimenti biografici fortissimi, pubblicata peraltro in un periodo in cui il livello qualitativo della serie viaggiava su standard piuttosto bassi. Questa invece è la storia del trentennale, scritta con sentita passione dal curatore della serie, rivolta esplicitamente ai fan di lunga data (sebbene tutti i riferimenti siano capibili recuperando giusto una manciata di albi). Si tratta di narrativa seriale in tutto e per tutto, e cioè può essere inteso solo come un pregio. Perché di sole “graphic novel” non si vive.
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Febbraio 2023
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