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10/11/2021

Emmanuel Carrère al processo del secolo

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di Tommaso Dal Monte
​L’8 settembre 2021 si è aperto il processo per gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, dove morirono 130 persone tra l’attacco al Bataclan e quelli in altre zone della città. La corte sta ascoltando e raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime, che si susseguono a turni di trenta minuti ciascuno. Storie strazianti, ragazzi vivi per pura coincidenza, padri e madri distrutti per aver perso i figli durante un concerto.
È difficile non concentrarsi sui quei racconti, ma la mia attenzione va ad un uomo seduto tra il pubblico. Ha sessantatre anni ma ne dimostra meno, ha i lineamenti duri e slavi ed è il più importante scrittore francese vivente.
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Non è la prima volta che Emmanuel Carrère trascorre lunghi periodi sugli spalti di un tribunale. Nel 2000 raggiunse il successo proprio con un libro che raccontava un fatto di cronaca nera seguito prima sui giornali e poi nelle aule di giustizia. Jean-Claude Romand, dopo aver mentito per anni e anni sulla propria vita (diceva di essere un medico e di lavorare all’OMS, quando invece passava tutte le giornate a camminare per i boschi delle Prealpi francesi), aveva sterminato i genitori, la moglie e i due figli che stavano per scoprire le sue bugie. Carrère aveva seguito il processo, aveva scambiato alcune lettere con Romand e infine aveva pubblicato L’avversario. Anche per Vite che non sono la mia (2011) lo scrittore aveva osservato da vicino la routine di un giudice per poter poi raccontare nel dettaglio la vita di Juliette, giudice a sua volta e prematuramente morta.
La presenza di Carrère a quello che è già stato definito “il processo del secolo” è quindi una tappa coerente del suo percorso di scrittore. Su «Robinson», l’inserto del sabato di «Repubblica», stanno uscendo i primi appunti del processo scritti da Carrère, un mix di cronaca, riflessioni e impressioni personali che confluirà probabilmente in un nuovo libro.
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Il modello della scrittura di Carrère è il Truman Capote di A sangue freddo (1965), l’opera che ha fondato il così detto non fiction novel, il romanzo in cui la cronaca non è seguita fedelmente, ma raccontata attraverso espedienti romanzeschi. La contaminazione tra scritture finzionali e scritture vicine al giornalismo è un fenomeno in ascesa, ma pone in questione l’esistenza di un confine tra queste due forme di comunicazione. Si può individuare un limite? E se sì dove?
A livello tematico il giornalismo e la letteratura non sono distinguibili. Visto che la realtà non deve attenersi al criterio della verosimiglianza, può presentare situazioni incredibili quanto il più rocambolesco dei romanzi. Esclusa la letteratura di fantascienza, non ci sono argomenti che appartengono più all’una che all’altra.
Potremmo pensare che la differenza stia sul piano formale, nello stile e nella retorica. Certamente ci sono delle differenze: un articolo di giornale deve essere quanto più chiaro e comprensibile perché si rivolge a tutti, un romanzo invece può selezionare il proprio pubblico a partire dalla lingua che usa. Ma la lingua letteraria usa forme ed espressioni retoriche allo stesso modo del linguaggio comune. Come hanno mostrato Lakoff e Johnson in Metafora e vita quotidiana (1980), la lingua della comunicazione ordinaria impiega tante figure retoriche quanto la letteratura – anche se con consapevolezza diversa – e quindi anche questo ambito non discrimina le due forme di scrittura.
Credo che la differenza principale riguardi lo scopo di esse. Il giornalismo deve informare, richiede fedeltà ai fatti e un tasso di ambiguità ridotto al minimo. Una stessa notizia può essere riportata in moltissimi modi, perciò è necessario conoscere la visione del mondo del giornalista o della testata per poter esercitare il proprio spirito critico. Il compito della letteratura, invece, non è informare – e sarebbe molto ingenuo chi leggesse Guerra e pace come un trattato sulle guerre napoleoniche. La letteratura richiede una visione ambigua, rifiuta l’assertività e accoglie le parole e le posizioni più abiette senza doverle condannare. Mi verrebbe da dire che se il giornalismo serve alla società, la letteratura serve all’individuo, perché parla ad ognuno in modo diverso e non controllabile dall’autore.
Sia la letteratura che il giornalismo sono fondamentali all’interno di una società, ma mi sembra che la loro commistione non stia portando a esiti molto apprezzabili. Nel contesto della competizione digitale, il giornalismo ha sottratto alla letteratura la concentrazione sulle scene madri, l’enfasi sui titoli e il racconto patetico, l’attenzione sul come di un articolo più che sul cosa. La letteratura, invece, sta progressivamente perdendo il proprio privilegio di parola libera di esplorare e non vincolata a una perfetta referenzialità, perché deve essere utile e possibilmente fare il bene. Faccio un esempio: se da un articolo di cronaca su un femminicidio è giusto aspettarsi un certo tipo di comunicazione (la vittima non deve essere colpevolizzata, è necessario non parlare d’amore anche se c’era stata una relazione, l’assassino non deve ricevere giustificazioni ecc.), a un romanzo chiedo una rappresentazione meno lineare, dove si può dar spazio a sentimenti difficilmente accettabili. Se queste due sfere si influenzano troppo potrebbero esserci problemi.
Finora la bravura di Carrère è sempre stata quella di non lasciar schiacciare la propria voce dalla vita vera che racconta e, in tal modo, non ridurre i suoi romanzi a una mera cronaca. Riuscirà a fare lo stesso mentre tutta la Francia è rivolta alle aule del tribunale di Parigi e al suo taccuino di appunti?

FONTI:
Immagine 1: Il Corriere
Immagine 2: La Repubblica  

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