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2/2/2019

Il gatto nero

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Poe: il reale del reale
di Cristiana Ceccarelli

Non tutti sanno che Allan, il cognome che precede quello ereditato dai genitori, Poe, deve la sua antecedenza all’adozione da parte del signor John Allan del piccolo Edgar, dopo la morte prematura della madre e la scomparsa del padre.

Edgar Allan Poe, orfano dall’infanzia, è stato poeta, editore, spietato critico letterario ma soprattutto uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, a cui si deve il primo poliziesco della storia con I delitti della Rue Morgue; nonché primo scrittore di mestiere, per questo sempre (e purtroppo) in difficoltà economiche.
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La vita dello scrittore e poeta statunitense è stata tormentata, segnata da eventi dalla lama affilata che lasciarono ferite mai sanate nel suo animo e ne turbarono la personalità; da queste la sua insofferenza per e nell’esistenza: attraversarla e non poterne fare a meno, vivendola seppur odiandola con l’incessante paura della morte
.
Il peso schiacciante della solitudine, le poche gioie dovute all’amore strappate dalla morte della moglie, la famiglia negata, gli incontri impediti, segnarono profondamente il poeta e in qualche modo ne influenzarono la scrittura, ne diventarono l’ossatura, scheletrica, ne condizionarono il portamento, la direzione.

A questo, come concausa e rimedio, si aggiunse l’alcol, di cui divenne fedele seguace. Si invertì quindi la proporzione delle condizioni quotidiane, che divennero offuscamento intervallato da sporadici momenti di spaventosa lucidità.

Le tesi sono contrastanti, c’è chi parla di alcolismo come condizione degli ultimi anni di vita, chi ne suggerisce l’abuso fin dai tempi universitari, chi insinua anche il consumo di droghe, e chi, infine, trova in questo la causa della sua morte a soli 40 anni; il 7 ottobre del 1849.

Le critiche dopo la morte per il suo stile di vita, unite ai capolavori dalle tematiche ambigue e misteriose, non riuscirono a infangare il suo nome, ma al contrario, contribuirono a creare quello che ancora oggi è il mito del poeta e scrittore maledetto.

Negli abissi della propria condizione però, l’inconscio iniziò a emergere con sempre più prepotenza, inizialmente a confondere il reale per poi invece rivendicarne il primato, rendendo il reale una condizione chiara nelle sue fattezze ma non ben definita nella portata della sua veridicità.

L’irreale, o meglio, ciò che non ci è dato sempre scoprire e sapere, prese il posto della realtà.
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Il sogno diventò quotidianità, tanto da indurre Poe a raccontare un viaggio fatto in Russia, in realtà mai avvenuto, che fece cadere in inganno anche Baudelaire, altro ammirevole poeta, che lo scoprì dopo la morte e per cui subito provò “una certa simpatia”, e che di lui fu biografo e traduttore, al punto da farlo diventare “un grande uomo per la Francia”.
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Poe in realtà conobbe la celebrità in vita, ma non l’apice e non con l’intensità e la comprensione di cui è meritevole, e la raggiunse con la portata innovativa e disarmante dei suoi racconti; racconti del terrore nei quali la presenza dell’occulto, del misterioso, dell’istintuale, del fugace, del malvagio, del profondo e nascosto regna sovrana.
Il gatto nero è proprio uno di questi racconti, forse il più famoso, pubblicato per la prima volta nel 1843 e tratto dalla raccolta dei Racconti del terrore.


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Poe ci confida nelle prime righe l’intento per cui si è cimentato, non lui ma il protagonista del racconto, nella stesura per iscritto della catena degli avvenimenti; eventi stranissimi che gi hanno causato solo orrore, talmente inverosimili che non avrebbe quasi potuto prestare fede ai propri sensi se non fosse stato sicuro di non star semplicemente sognando.

La narrazione in prima persona e la focalizzazione interna ci portano subito al livello del protagonista, ci fanno sentire partecipi, anche se dobbiamo aspettare che sia lui a svelarci le informazioni su se stesso, in un tono che verte quasi sul confidenziale, a volte un sussurro a volte un eccesso di follia concitante.

La presentazione in racconto scritto e non orale potrebbe quasi essere vista come un avvertimento al lettore per cui la trasposizione scritta, rispetto all’immediatezza orale, potrebbe esser stata soggetta a modifiche, volute omissioni, deviazioni per la possibilità del narratore di rileggersi, schermarsi o giustificarsi.

Ma non sembra questo il caso, anzi, sembra quasi che la possibilità non colta della modifica e menzogna vada ad avvalorare ciò che ci viene raccontato, a prendere ciò che è stato fatto per quello che è, per quello che è scritto, con il supporto del non senso di colpa, del non voler spiegar niente.

Ciò che lui vuole tra sogno e realtà, tra simbolismi e fattività è il solo liberarsi l’anima.

A questa storia di un uomo buono che diventa, con l’alcol che interpreta la parte dell’ inseparabile compagno, un contenitore di pura recalcitrante malvagità, che vede vittima prima l’amato gatto e poi la sfortunata moglie, con la comparsa di un secondo gatto nero che sembra voler far decidere le sorti del narratore e della vicenda, possiamo rivolgerci con orrore o con il senso del grottesco, che sorgono come dipendenti variabili dell’individuo che si pone alla lettura.

Ciò che viene descritto è la visione disincantata, seppur offuscata dall’alcol, della realtà. Una realtà popolata da uomini intrinsecamente malvagi, questa la convinzione dello scrittore Poe, che tutti non riescono o non vogliono vedere, accettare come vera.

Abbiamo un’umanità denudata dai suoi più positivi valori, dai simulacri costruiti nel tempo a soppressione della vera natura, abbiamo un disincanto e un’acutezza visionaria a cui pochi hanno la sfortuna di dover necessariamente assistere, senza la liberazione di un cieco rifugio.

Leggere questo racconto è come credere che ciò che di buono sembri esistere, è dovuto agli sforzi dell’essere umano nel relegare il male che gli appartiene in un piccolo scrigno dell’anima, con le mille serrature per le altrettante tentazioni e deviazioni che la vita pone sul cammino; le cui chiavi sono gettate lontano, per la paura del desiderio di volerle prendere per cedervi.

Ma poi accade che il consumo di una qualche sostanza inibisce l’uomo, distrugge i suoi freni, lo spoglia dei trattenimenti autoimposti così faticosamente stratificati; arriva un qualcosa capace di, in pochi momenti, svelarne la vera essenza, l’insospettabile e temuta natura, che si presenta a quel punto in tutta la sua potenza, forte e irritata degli anni da prigioniera.
​
L’alcol permette e nega; permette all’ignobile essenza dell’animo di sgorgare tra la fessure di una costruita razionalità autoimposta e nega il temporaneo ricordo, con la volatile dimenticanza non della malvagità ma dell’attuazione di quest’ultima.

Il simbolico aiuta a mantenere intatta appunto questa costruzione, per non scandalizzare, o smontare del tutto, coloro che si son così ben celati nell’artifizio, chiudendo dentro di sé la paura della verità e costruendo per questo tra loro e quest’ultimo una quotidianità fasulla; riproposta qui nelle figura del gatto e del valore simbolico attribuitigli, che fa da catalizzatore e capro espiatorio delle colpe.

La malvagità se immune dal rimorso e dal sentimentalismo non lo è dalla colpa, che si manifesta, sempre, perentoria nel riscatto di ciò che non è stato represso con dovizia.
E’ il gatto, ricordo e depositario della colpa, a dimostrare quella del protagonista, con un lamento uscito dall’inferno, un luogo a cui il protagonista sa di appartenere.

  Immagini dell'autore:
​

- Immagine  1 Pubblico dominio https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1624160
- Immagine 2 By Aubrey Beardsley (1872 - 1898) - Aubrey Beardsley, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=188016

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