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30/4/2016

Il rapporto tra il poeta e la luna nei canti leopardiani

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di Lorenzo Vannucci
Leopardi, durante tutto l'arco della sua vita, ha coltivato nei suoi scritti con continuità e tenerezza l’immagine lunare, attribuendole funzioni e significati in conformità al proprio mondo interiore. Attraverso la lettura delle sue opere (Frammento XXXIX, La Sera al dì di festa, Alla Luna, La vita solitaria, Canto Notturno di un pastore errante nell'Asia) è possibile comprendere il rapporto tra il poeta e l'astro, mai statico e sempre in continua evoluzione.
La luna fa capolino nella poetica leopardiana nel Frammento XXXIX, composto tra il novembre e il dicembre del 1816. Nonostante il poeta sembri provare affetto per la luna, definita come «rugiadosa» e «sorella del sole», mostra una vena malinconica «spento il diurno raggio in occidente». Lo spento raggio, come rivela Leopardi in un passo dell'Appressamento della Morte, «in undici giorni tutta senza interruzioni e nel giorno in cui la terminai, cominciai a copiarla che feci in due altri giorni. Tutto nel Novembre e Dicembre del 1816 » non è altro che una metafora del poeta che mostra una certa apprensione nel terminarla per paura della morte incombente.

Nella Sera al dì di festa (1820) subentra, come nel Frammento XXXI, il simbolo della morte. La prima bozza della poesia, che si apre con l'espressione «Oimè, chiara», mette l'accento sul dolore fisico del poeta, messo ulteriormente in risalto dalla virgola. Come scrive il Giordani in una lettera del 6 marzo 1820, questa scelta è figlia della crisi descritta dal poeta recanatese. Solo in una seconda versione il poeta si rivolge in maniera affettuosa alla luna «dolce», sostituendo a un'espressione di dolore un sentimento di angoscia ristretto all'animo del poeta. Nei primi versi il polisindeto «dolce e chiara è la notte» mette in risalto la presenza della luna «notturna lampa», che appare immobile «posa» di fronte al poeta. Al quadro idillico iniziale, in cui la luna risplendeva nel cielo «traluce», fa da contrasto la parte finale del componimento «posa la luna/tutto posa il mondo, tutto è pace/già tace ogni sentiero» in cui subentra un atmosfera di silenzio e di quiete interpretabili, grazie alla prima versione, a un ideale di morte. Sembra quasi che Leopardi, dopo essersi abbandonato alla bellezza della luna, ci voglia dire che tutte le cose umane finiscono nell'oscurità e in silenzio, negando al poeta la speranza della felicità.
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In Alla luna Leopardi sceglie il lessico e il tono della poesia d’amore in un modo quasi petrarchesco. Ricordando tantissimo un passo dell'Ortis «O luna! Amica luna», Leopardi, spendendo parole dolcissime verso la sua interlocutrice (la luna), quasi come se si stesse rivolgendo alla donna amata, instaura un monologo con essa definendola “graziosa” e successivamente sua diletta «mia diletta luna». Ancora una volta a questo idillio subentra la malinconia: il poeta, tornato a distanza di un anno nei “luoghi dell'infinito”, osserva commosso la luna che, muta e silenziosa, metafora della sua vita infelice, suscita nel poeta malinconia e nostalgia dei tempi passati.
Nella Vita solitaria il poeta, rivolgendosi alla luna in tono affettivo «cara», critica la stessa perché sgradita a tutti coloro che vogliono rimanere nascosti per tramare nell'ombra. Il raggio, inizialmente «tranquillo», diventa «vezzoso». La luce emanata, infatti, ostacola le cattive intenzioni del brigante, incapace di assalire l'ignaro viaggiatore, dell'amante, a rischio di essere scoperto, e di tutti gli uomini malvagi. Il sentimento di Leopardi di fronte alla luna è ambivalente: da una parte il chiarore della luna lo espone agli sguardi altrui e esponeva gli altri ai suoi sguardi, dall'altra gli consente di godere anche di notte della bellezza degli “infiniti spazi”. Nonostante tutto, il poeta sarà sempre grato alla luna «loderollo» perché è l'unica a seguire, silenziosamente, il poeta per tutto l'arco della sua esistenza.
Nel Canto Notturno la luna da confidente consolatrice (graziosa e dolce) diviene un astro gelido, indifferente, distaccato e impassibile ai problemi dell'uomo. Con un incipit petrarchesco «Che fai, alma? Che pensi? Avrem mai pace?» il poeta si rivolge alla luna ponendo domande che non presuppongono risposta. Le domande, di carattere esistenzialistico, «Che fai tu, luna in ciel?», riguardano tutti quegli interrogativi che l'uomo, nel corso della storia, non è riuscito a dare una spiegazione universalmente e definitivamente convincente “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Qual è il senso e il significato della vita? Perché siamo sempre insoddisfatti e inquieti?” Nelle prime strofe (vv. 1-20) il pastore (Giacomo Leopardi), contemplando la luna, scopre quanto la propria vita sia simile a quella dell'astro. 

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Il loro percorso è antitetico: quando l'attività del pastore si conclude, dopo essersi alzato di buon ora per portare a pascolare il gregge, inizia quella della luna «posa». Una vita noiosa, ripetitiva, che sfocia nella domanda finale del pastore sul senso della vita dell'uomo e dell'universo: «vagar mio breve/tuo corso immortale». Quest'ultima domanda non casca nel vuoto: il poeta stesso, nelle vesti del pastore «vecchierel bianco», cerca di dare risposta ai quesiti esistenziali posti inizialmente alla luna esponendo, nella seconda e nella terza strofa (vv. 21-60), la drammatica allegoria della vita umana. Il poeta paragona la vita umana al destino di un vecchio infermo che, dopo aver attraversato mille difficoltà, sanguinante e esausto, corre verso l’abisso, simbolo della morte, nel quale precipita e si annulla.
Nelle strofe successive Leopardi, grazie all'uso di un'aggettivazione molto delicata «vergine», «intatta», «giovinetta immortal» umanizza la luna rendendola terrena e mortale. La luna condivide lo stesso destino amaro del «pastore errante» che, come lui, vive in solitudine. «Solinga, «eterna peregrina» imprigionata in «sempiterni calli» ed «eterni giri», vive un destino ancor più amaro del poeta perché costretta a girare in eterno osservando il crudele destino degli uomini.

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Bibliografia
- G.Leopardi, Canti, Bur, Milano, 1998
- G.Barberi, Letteratura, Atlas, Bergamo, 2004, V 3B-4B

Sitografia
- http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t346.pdf


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- lucianadal.blogspot.com

- www.adrianopiacentini.it
- elearning2.uniroma1.it

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1 Commento
Simonetti
22/5/2021 23:13:49

Buonasera sapevo che il poeta Leopard e stato un grande poeta della letteratura di quella epoca per gli appassionati della poesia come me, e stato un vero genio . Grazie per ciò che a narrato nelle scritture molto misterioso il personaggio di alcune poesie.ma molto concreto e poetico . concludo con una sola parola. Un supertalendo.

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