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8/10/2016

Il vergine, il vivace.

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di Lorenzo Vannucci

Il vergine, il vivace, il bell’oggi d’un colpo
d’ala ebbra quest’obliato, duro
lago ci squarcerà, sotto il gelo affollato
dal diafano ghiacciaio dei non fuggiti voli!

Un cigno d’altri tempi si ricorda di sé
che si libra magnifico ma senza speranza
per non avere cantato l’aerea stanza ove vivere
quando splendé la noia dello sterile inverno.

Scuoterà tutto il suo collo quella bianca agonia
dallo spazio all’uccello che lo rinnega inflitta,
non l’orrore del suolo che imprigiona le piume.

Fantasma che a questo luogo dona il suo puro lume
s’immobilizza al gelido sogno di disprezzo
di cui si veste in mezzo all’esilio inutile il Cigno.

 
Un tema ricorrente nella poesia dell’Ottocento è, senza dubbio, quello del Cigno: basti pensare all'Albatro di Baudelaire, simbolo non solo dell'esilio del poeta in mezzo agli uomini, ma del eterno conflitto tra il mondo intellettuale e quello borghese.
Il cigno di Stépane Mallarmè va oltre l'immagine-simbolo dell'albatro re del cielo che con le sue ali tutto avvolge e protegge: quella dimensione ancora romantica in cui l'albatro diviene allegoria del poeta, che grazie alla sua creatività e immaginazione vola con la mente negli angoli più remoti dell'anima elevandolo al di sopra della civiltà borghese ancorata a cose terrene, viene ribaltata con una concezione prettamente “simbolista”.
Le ali  dell'albatro, che gli conferiscono maestosità e potenza rendendolo il signore dei cieli, vulnerabile  quando tocca terra, viene ripreso e sviluppato da Mallarmè come la personificazione di quella sterilità creativa che rimane inespressa. Non più creatività e immaginazione, ma uno spleen che porta all'esaurimento del genio artistico e creativo, ad una paralisi interiore che vede nel tentativo di raggiungere ideali puri e perfetti il fallimento dell'intelletto umano. Il cigno, pertanto, arricchendosi di una nuova simbologia, diviene espressione figurativa di un genio rimasto potenziale, condannato dal suo stesso ideale irraggiungibile di purezza e bellezza.

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Il “platonico” Baudelaire, che vede nel poeta la capacità di elevarsi al di sopra del altri uomini cogliendo un barlume di perfezione, viene ribaltato da una poesia che resta in potenza, che avrebbe la capacità di realizzarsi ma che non riesce mai a determinarsi compiutamente.
I primi quattro versi indicano questa sterilità creativa: il lago ghiacciato, in cui rimane intrappolato il cigno-poeta, sembra quasi essere formato dai lamenti dell'autore, incapace nella sua poesia di raggiungere quegli ideali di perfezione che si era prefissato. Si apre, così, il racconto di una poesia mai nata, di un poeta che, dopo il tentativo estremo e disperato di realizzare il suo volo, si brucia come Icaro. Quel bianco collo che tende al cielo, che per un attimo sembra raggiungere quell'ideale di bellezza e di perfezione tanto sospirato, viene improvvisamente “soffocato” dal ghiaccio che, inesorabilmente, gli consuma le piume rendendolo debole e vulnerabile come l'albatro di Baudelaire.

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Al poeta resta, alla fine, un amaro disinganno: il suo talento creativo, che si sta per librare in volo verso gli infiniti spazi del cielo, come uno splendido cigno bianco, è in realtà imprigionato nel ghiaccio del lago. La seconda strofa segna non solo il passaggio dal poeta colpevole-consapevole di non aver dato prova della sua vena creativa, lamentandosi dell'assenza di colori dell'inverno che renda “bianca e vuota” la sua anima, ma l'accettazione della propria sconfitta.
La «bianca agonia» sancisce la sconfitta del cigno che, imprigionato, non ha nemmeno la forza di scuotete il collo, di battere le ali e di librarsi in volo. Rassegnato, il cigno resta immobile, inerme, accettando nella bianca prigione, con disprezzo, la propria sconfitta.

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Bibliografia:

S.Guglielmino, Guida al novecento
S.Mallarmè, il Vergine il Vivace
L.Frezza, Il Vergine il Vivace, in
S.Guglielmino, Guida al novecento

Immagini tratte da:

- www.settemuse.it

- www.settemuse.it
- www.rodoni.ch



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