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21/4/2021

Insofferenze non finzionali. Ovvero la nostalgia del romanzo

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di Tommaso Dl Monte
 Da più o meno un anno, per motivi di interesse e di studio, le mie scelte di lettura sono ricadute quasi esclusivamente su autofiction, biofiction e non-fiction novel. Termini piuttosto abusati in ambito di critica letteraria, ma che meritano qui una spiegazione che non può essere che sintetica.
Nell’autofiction l’autore, il narratore e il protagonista del libro sono la stessa persona, secondo il modello di una normale autobiografia; tuttavia, ad osservare il testo da vicino, si notano senza difficoltà tecniche narrative romanzesche e la presenza di episodi chiaramente finzionali. La biofiction assomiglia molto a quest’ultima, ma oggetto del racconto non è più l’autore, bensì un'altra persona realmente esistente. Limitrofo a questi due generi è il non-fiction novel, una forma narrativa inaugurata da Truman Capote con A sangue freddo, in cui si raccontano fatti di cronaca, solitamente nera, in maniera romanzesca.  
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 Le mie letture hanno esplorato vari autori: le autofiction di Walter Siti (Scuola di nudo, Un dolore normale, Troppi paradisi, Exit strategy), Michele Mari (Leggenda privata) e Tiziano Scarpa (Kamikaze d’Occidente); le biofiction sempre di Siti (La natura è innocente) e Mari (Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, Rosso Floyd) e poi quelle del francese Emmanuel Carrere (Limonov), di Emanuele Trevi (Due vite) e di Paolo Sortino (Elisabeth); infine i non-fiction novel di Carrere (L’avversario), Nicola Lagioia (La città dei vivi) e Truman Capote (A sangue freddo).
Tutte queste opere fondono (e confondo) elementi finzionali e elementi referenziali, tratti di peso dal mondo e trasportati all’interno del testo. Certo, ci sono casi in cui il fattore finzionale è preponderante come in Io venìa pien d’angoscia a rimirarti dove si allude ad una presunta licantropia di Leopardi; altri testi invece, come Due vite o A sangue freddo, sono biografie e cronache piuttosto fedeli ai fatti realmente accaduti. Va anche detto che, dal punto di vista della buona critica, ridurre l’argomento della finzionalità alla presenza nel testo di eventi inventati è quanto meno limitante. È buona norma, infatti, non soffermarsi troppo sul livello tematico, ma approfondire l’analisi delle tecniche narrative utilizzate: la penetrazione psichica dei personaggi, la riproduzione dei dialoghi, la costruzione dell’intreccio con analessi e prolessi per creare suspense, sono tutti indizi di una narrazione finzionale, che prescinde della realtà degli eventi narrati – i quali, tra l’altro, sono in molti casi non verificabili.
Insomma, anche l’autore di testi non finzionali ha ampi margini di invenzione e può agire con una certa libertà, quando non proprio sul versante dei fatti, almeno su quello delle reazioni, impressioni e moventi intimi dei protagonisti. Tuttavia non riesco a tacere un’insofferenza crescente verso questo genere di racconti.  
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 Intanto è innegabile che, nella maggior parte dei casi, l’autore sia costitutivamente limitato nella possibilità di costruire le trame dalla realtà contingente della storia che racconta. Il lettore, di conseguenza, sa di non potersi aspettare eventi stupefacenti o intrecci indirizzati ad un fine precostituito. Limitarsi al racconto della realtà, in qualche modo, appiattisce la possibilità che la letteratura crei storie significative, le quali, pur cedendo sul piano della realtà, potrebbero avvalorarsi su quello della verità. Certo è prerogativa dei grandi artisti sapere scorgere, anche nella realtà circostante, indizi e storie singolari che ci parlano di noi e del nostro tempo, ma il mondo, per quanto vasto, è pur sempre più limitato dell’immaginazione. Inoltre, soprattutto nei casi più scadenti di non-fiction novel, l’apporto autoriale è davvero minimo, e il testo si riduce ad una resa artisticamente elaborata di contenuti giornalistici. Mi capita poi, anche quando non conosco la storia raccontata, come nel caso di Limonov o della Città dei vivi, di percepire un senso di delusione nel realizzare che quella storia che sto per leggere non è nata e non esista grazie al libro che ho in mano, ma è frutto del mondo esterno.
La mia reazione può sembrare superficiale perché, di base, riduce l’opera al suo contenuto, quando invece si sa che la forza della letteratura sta proprio nella forma e nello stile. Ma quel senso di curiosità e di meraviglia che si prova durante la lettura di un romanzo, cioè un’opera nella quale ogni pretesa di referenzialità esterna viene meno, non è un elemento che entra a far parte della mia esperienza di lettura di opere non finzionali. Le grandi costruzioni ottocentesche dei romanzieri francesi e inglesi, gli autori del modernismo con la loro forza inventiva, la loro capacità di padroneggiare un’ampia costruzione proteiforme e il loro saper accompagnare il lettore: ecco che cosa mi manca.
Credo che il potenziale del romanzo sia più alto rispetto a quello di tutti gli altri generi di cui ho parlato, ma che al contempo esponga al rischio di ridurre la letteratura a mero intrattenimento e fuga dalla realtà. Sta dunque allo scrittore, di volta in volta, dosare gli elementi per produrre un artefatto che risponda a più esigenze e possa rappresentare un vettore di senso non riconducibile né succube di altre forme di sapere.


  Immagini tratte da:
- Immagine 1
: Artribune
- Immagine 2: Wikipedia (Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=539444)

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