Io conosco John Doe. È una faccia da schiaffi specializzata in entropia, che è solo uno modo elegante per dire: ammazzare un sacco di gente, rispettando l’ineluttabile data di morte che le Alte Sfere hanno fissato per loro. In un’epoca in cui tutto è business, anche il Creato decide di darsi all’imprenditoria per massimizzare i profitti; succede quindi che il normale svolgersi della vita viene burocratizzato e seguito passo passo da uno staff di esperti altamente qualificato. Perfino Morte (con la maiuscola, mica come quella di Saramago) ha appeso la falce al chiodo, delegando al suo braccio destro tutta l’organizzazione pratica dei decessi. Una carica di prestigio che, prima di John, era ricoperta nientemeno che da Martin Bormann, il segretario di Adolf Hitler. Ma tutte le cose belle prima o poi finiscono, e il signor Doe dovrà ben presto rinunciare alle donne avvenenti e alle cena eleganti presso il ristorante ai confini dell’universo, costretto a fuggire per l’America nel tentativo di farla letteralmente in barba a Morte (che è un nome proprio di persona, ricordiamolo). Non fatevi ingannare da quell’aria da fighetto, a metà strada tra il Tom Cruise di Vanilla Sky e il Brad Pitt di Ocean’s Eleven, né dagli abiti griffati o dalle macchine superaccessoriate. John, per usare le parole del suo amico Leonida, “è uno dei più grossi figli di puttana sulla piazza”. E, se lo dice uno spietato killer geneticamente modificato, c’è da fidarsi sulla parola. Ma cos’è John Doe?
E’ un interessante esperimento editoriale nato dall’ingegno di Roberto Recchioni e del compianto Lorenzo Bartoli, durato quasi un decennio. Ai tempi della prima pubblicazione (settembre 2002), ciò che colpiva in John Doe era la forte dissonanza tra forma e contenuto: si presentava infatti come il classico bonellide da 98 pagine, 16x21 centrimetri, tutte rigorosamente in bianco e nero. Ma in un mercato come quello del fumetto popolare italiano, dove erano (e sono tutt’ora) i generi, gli eroi inossidabili e le storie all’insegna dell’Avventura più sfrenata a far da padroni, la creatura di Recchioni e Bartoli spiccava per alcune innovazioni in termini di linguaggio narrativo fino ad allora abbastanza insolite per pubblicazioni di questo tipo. Prima di tutto, l’impostazione: John Doe riprende la suddivisione in stagioni tipica delle serie tv che proprio in quel periodo stavano iniziando ad affermarsi, trovando un nuovo modo di fidelizzare un pubblico sempre più vasto ed esigente. Il primo numero di John Doe può essere visto come un pilot, l’episodio pilota che presenta i personaggi principali e l’evento scatenante, l’impalcatura, il setting che caratterizzerà tutti i numeri successivi. Non che fino a quel momento fossero mancate le serie dalla forte continuity interna, e basterebbe citare quel capolavoro di Ken Parker per sfatare questo mito. Tuttavia, per stessa ammissione e volontà degli autori, ogni stagione di John Doe avrebbe dovuto possedere una propria compiutezza, con tanto di inizio, svolgimento e fine, per poi cambiare totalmente le carte in tavola in quella successiva: l’unico modo sicuro, per loro, di non fossilizzare una serie che trovava la propria ragione di essere proprio nel trascendere tutti i limiti del fumetto popolare.
Seconda cosa, il protagonista: in un panorama editoriale dominato dai vari Tex, Zagor e altri integerrimi paladini dell’ordine, John Doe si imponeva come la versione un po’ dandy del John Constantine di Jamie Delano. Da semplice essere umano, armato solo della propria faccia tosta e della propria astuzia, John Doe è infatti costretto ad affrontare minacce ben al di della sua portata: minacce contro cui l’uso della forza bruta è del tutto fuori discussione. Già Dylan Dog (cui comunque il Golden boy della fu casa editrice Eura deve molto, a partire dall’antropomorfizzazione delle entità esistenziali), con il suo successo dirompente, aveva legittimato un genere di antieroe abbastanza atipico per il panorama italiano, destinato a scontrarsi, spesso perdendo, contro l’ineluttabilità di un quotidiano percepito con orrore, nella sua brutale normalità. Se la creatura di Sclavi era insomma caratterizzata da un poetica romantica e per certi versi decadente, in cui è l’uomo a essere il peggior nemico di sé stesso, quello di John Doe è invece un universo fortemente deterministico dove ogni aspetto della vita umana è rigidamente programmato da entità trascendenti. Un’inesorabilità contro cui si oppone un uomo solo, mostrandole il dito medio.
Ultimo appunto: le storie. John Doe possiede una duplice anima che rispecchia molto l’indole artistica dei suoi creatori, con una narrazione post-moderna e citazionista nel caso di Recchioni, più lisergica e poetica per quanto riguarda Bartoli. Si tratta comunque di storie dove è la metatestualità, la ricerca di un linguaggio più simile alla narrazione televisiva e la volontà di non ricadere in uno svolgimento “di genere” a farla da padrone. Ma, in definitiva, di che parla John Doe? Di dei che sembrano uomini e di uomini che li prendono a calci nel culo; di mali sociali moderni filtrati dall’allegoria; dei miti che fanno gli uomini e degli uomini che fanno i miti, rivoltandoli come un calzino; della dialettica tra scrittore e lettore, ma anche tra creatore e personaggio creato; di amorie capaci di piegare il Tempo (notare anche qui la maiuscola) e di fregare la Morte; di uomini piccoli in balia del Tutto, ma che possiedono dentro di loro interi mondi; della vita, la morte, l’universo e tutto quanto. Fidatevi, io conosco John Doe, e i sei volumi della Bao (di cui due già pubblicati), che ristampano tutta la prima stagione, vale sicuramente la pena leggerli.
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