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5/12/2020

La città dei vivi: la Roma assassina di Nicola Lagioia

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di Tommaso Dal Monte
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Sabato 5 marzo 2016 i carabinieri del nucleo operativo di Roma si trovano davanti ad un appartamento della periferia cittadina. Sono accompagnati dall’avvocato Michele Andreano e da Valter Foffo, il padre del proprietario di casa. Manuel Foffo, suo figlio, è seduto nell’auto dei carabinieri posteggiata di fronte al palazzo e ha già le manette ai polsi. Quando il gruppo entra nell’abitazione viene ritrovato, in camera da letto, coperto da un lenzuolo, cadavere, un corpo straziato. Manuel Foffo non conosce l’identità della persona che pur ammette di aver ucciso, perché la vittima era stato invitata in casa dall’amico Marco Prato. Mentre Foffo si è appena accusato di omicidio, Marco Prato occupa una camera dell’hotel San Giusto vicino a Piazza Bologna, dove, sulle note di “Ciao amore ciao” riprodotte ossessivamente dal suo cellulare, sta tentando il suicidio. Prato, denunciato da Foffo, è rintracciato dai carabinieri e si salva.
Le indagini ricostruiranno gli eventi che hanno portato alla morte di Luca Varani, torturato e ucciso nella notte tra il 3 e il 4 marzo da Manuel Foffo e Marco Prato. Tutti e tre, vittima e carnefici, hanno meno di trent’anni. Successivamente Prato, mai dichiaratosi materialmente colpevole dell’omicidio, si suiciderà nel carcere di Velletri, dov’era in attesa di giudizio, il 20 giugno 2017.

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Nicola Lagioia ricostruisce questo fatto di cronaca nera nel suo La città dei vivi (Einaudi, 2020). La narrazione è aderente ai fatti e il mondo extratestuale penetra direttamente nel romanzo in varie forme: i messaggi Whatsapp scambiati tra gli assassini, le deposizioni in tribunale, le frasi pronunciate in televisione o alcuni post condivisi su Facebook sono fedelmente riportati da Lagioia nel libro. Per queste e altre caratteristiche, La città dei vivi appartiene al genere letterario della non-fiction novel. Tradizionalmente inaugurata da Truman Capote con A sangue freddo (1966), nella non-fiction novel vengono raccontati con fedeltà documentaria fatti di cronaca – solitamente cronaca nera ‒ attraverso uno stile romanzesco.  

 Giudicare una non-fiction novel vuol dunque dire giudicare lo stile dell’autore, poiché il tema è interamente e fedelmente ripreso dalla realtà extratestuale. Che cos’è però lo stile? Non è solo il modo di scrivere e la forma, ma riguardano lo stile anche la gestione degli eventi narrati, la capacità di coinvolgere il lettore in una vicenda accaduta ad altri, l’abilità di scorgere nei fatti una verità diversa da quella giudiziaria e del senso comune.
A fronte di questi punti, Lagioia ha più meriti che demeriti.
Il romanzo è costruito in modo da ritardare la descrizione della notte dell’omicidio, l’evento saliente, fino a oltre tre quarti del testo. Così facendo, l’autore ha modo sia di cumulare il patos e la tensione nel lettore, sia di addentrarsi nelle vite dei suoi personaggi. La voce del narratore ci accompagna in questo percorso che si articola in una duplice dimensione: interiore – quella degli assassini e dell’assassinato – ed esteriore – la ricostruzione cronachistica dei mesi e dei giorni antecedenti il delitto. Spesso Lagioia adotta la prima persona per manifestare il forte impatto che l’omicidio ha avuto su di lui, svelandoci successivamente alcuni punti di contatto (a dir la verità, un po’ deboli) tra la propria esperienza biografica e quella dei protagonisti. Attraverso l’introspezione personale, che annulla lo iato tra autore e narratore, Lagioia problematizza la riduzione dei due assassini a “mostri”, suggerendoci che tutti, lui compreso, saremmo potuti diventarlo in certi momenti della nostra vita. Questa riflessione non mira certo a scagionare o a mettere in buona luce Foffo e Prato, ma è un prezioso richiamo al rischio e all’ipocrisia della demonizzazione.
Lagioia sembra invece rinunciare alle possibilità dello scrittore nel tentare di comprendere le ragioni del delitto. L’autore non sembra soddisfatto delle motivazioni sostenute dai giornali per spiegarlo (pulsioni omosessuali represse, abuso di cocaina, conflitti edipici), e anzi rimarca l’assenza di un vero movente, la caoticità e la confusione tanto degli avvenimenti quanto dei resoconti di Foffo e Prato. Se è vero che i due assassini non riescono a fornire una giustificazione del proprio gesto, il romanziere avrebbe la possibilità, per non dire il compito, di scavare con più attenzione (e successo) nella coscienza dei personaggi, ma Lagioia sembra fare un passo indietro per porsi ad un grado di consapevolezza pari al loro. Si ottiene dunque un quadro preciso della psicologia di Foffo, Prato e Varani, ma ben poco sappiamo delle regioni profonde del delitto.
Forse Lagioia suggerisce una risposta, ma in forma alquanto indiretta e disseminata nel romanzo. Se potenzialmente tutti saremmo potuti essere gli assassini, solo Roma sarebbe potuta essere la cornice del delitto. La città è trasfigurata in una sorta di kinghiano Overlook Hotel, un luogo intriso di male e di violenza che coinvolge tanto il mondo vegetale quando quello animale, ma che, allo stesso tempo, esercita un richiamo inesorabile su chi se ne allontana. Anche i brevi capitoli – finzionali questi – sul pedofilo olandese, contribuiscono a caratterizzare Roma come il luogo deputato all’espressione del male che c’è in ognuno di noi. L’omicidio di Luca Varani assurge quindi a estremo spettacolo della violenza di un’intera città, che si impossessa di tanti casuali figuranti per manifestarsi.


  Immagini tratte da:
​
- Immagine 1 - 
MicroMega online su Repubblica.temi
- Immagine 2 - priva di copyright

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