di Lorenzo Vanni La letteratura è un impegno dei più duri: obbliga a confrontarsi con se stessi e il proprio passato e, laddove necessario, scendere a patti con quel che si è. Lo fa su un piano psicologico perché scrivendo si accede a una parte della propria mente che è completamente inconscia e segue una rotta interamente sua; arriva a deviare il corso naturale dei pensieri che, da un certo punto in poi, deragliano e allora devono essere assecondati e costruire dei binari su cui possa procedere il treno dei pensieri.
C’è un confronto anche identitario che consiste nella riformulazione di se stessi a contatto con il mondo della letteratura e la prospettiva di essere letti anche da altre persone. Modificare la lingua può essere un urgenza per permettere al proprio Io espresso su carta di raggiungere meglio i potenziali lettori. Qui si apre spazio per la riflessione: quanto si deve essere disposti a tradire se stessi e modulare la propria voce per rendersi gradevoli a chi leggerà le nostre opere? E in secondo luogo: il tradimento è veramente necessario? È a partire da questo interrogativo che si dipana il memoir di Marcello Fois appena pubblicato da Solferino e intitolato La mia Babele. Il libro dell’autore sardo ha come tematica principale la stratificazione linguistica dove a una lingua dall’identità forte e una tradizione ad essa collegata si contrappone la lingua nazionale anch’essa forte nonché ufficiale, ma diversa rispetto alla propria. Fois presenta se stesso come un intellettuale a metà che fa la sponda tra due mondi, ognuno con il proprio codice linguistico. Nei primi anni della sua infanzia, Fois deve formare la propria identità sapendo di essere un individuo scisso, in parte sardo e in parte italiano; per prima cosa la lingua deve purificarsi parlando un italiano corretto, poi dovrà usare i nomi giusti per tutti i referenti nel mondo. Alla fine di questo percorso non sarà più se stesso. Il punto di partenza di un artista è quello in cui, dopo aver fatto il giro completo e aver osservato tutte le regole grammaticali standard, a un certo punto non si decide di tradirle per tornare alla propria terra e rivendicare la Sardità. La parte più bella del memoir di Fois è senza dubbio quella in cui racconta i rapporti con i traduttori. Ogni scelta traduttiva racconta una storia del modo in cui quella scrittura e quella cultura vengono percepite in giro per il mondo: i francesi sono molto favorevoli agli autori sperimentali, gli inglesi cercano di nobilitare una lingua considerata sciatta, i tedeschi traducono in modo meccanico. La verità è che ogni volta che un traduttore chiede aiuto per termini o incomprensioni linguistiche ci si confronta sempre con se stessi, le proprie intenzioni e quel grande macigno che è la lingua nazionale. Tanto più una lingua è fissata, tanto più vincola le scelte dell’autore al rispetto dei costrutti preesistenti con poco spazio per la metafora, se non quelle già previste in un canone. Il libro di Fois è da leggere perché dà uno spaccato breve, ma consistente, di cosa significhi essere scrittori oggi e ci ricorda ancora perché quello dello scrittore possa essere forse il mestiere più affascinante del mondo. Fonti immagini: solferinolibri.it
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Febbraio 2023
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