“Che cosa è il clown? Il clown sei tu. Quando ti perdi, perdi le staffe, il tuo personaggio, ti perdi dentro di te, cerchi la luna, chiami Godot, sbagli ascensore o vita…Tu, al naturale, senza niente, perso come un clown, piangi e il pubblico ride. Che tragedia, che ridere, che libertà quando ritrovi te stesso, senza rughe né valigie, nudo, vestito di scherzi.” (Emmanuel Lavallée)
Figura eccentrica e grottesca, il clown spazia dalla pantomima al teatro di parola, fondendo tecniche e stili diversi. Ma che cos’è il clown? Come si inserisce all’interno dello spazio teatrale? Si racconta, ma probabilmente è una leggenda, che il primo clown sia stato un ubriaco entrato per caso sulla pista del circo, durante lo spettacolo, e inciampando abbia fatto ridere il pubblico. Da qui il naso rosso, a ricordarci i nasi degli ubriachi e i vestiti stracciati dei clochard. Il clown arriva in teatro dal circo, a conclusione del viaggio teatrale di movimento che inizia con la Maschera Neutra e si conclude appunto con il Naso Rosso, due maschere archetipiche fondamentali per la formazione dell’attore.
Se nel Neutro l’attore cerca uno stato di silenzio e di apertura allo spazio, che gli permetta di far tacere la propria storia personale e prepararsi così a raccontare una storia altra, cercando di sciogliere le “impressioni drammatiche” che ogni corpo porta in sé, col Naso Rosso va invece alla ricerca di tali emozioni amplificandole.
Tutto ciò che nella vita di tutti i giorni si cerca di correggere per essere il più possibile “normali”, i sentimenti che si cerca in tutti i modi di evitare, come la derisione, il fallimento, col clown non solo possono vivere, ma vengono ostentati. Attraverso questa ostentazione dell’imperfezione umana, il clown provoca il riso mediante infinite variazioni sul tema. Un atto di potere vitale formidabile. Il clown segue la poetica del limite, dell’incidente, della caduta; la prospettiva di ogni suo numero è il fallimento. Appare così come un essere poetico unico e personale, che emerge quando l’attore si presenta davanti al pubblico con il naso rosso e accetta completamente la provocazione del presente e del contatto con sé stesso e con il pubblico.
Il clown, infatti, cerca contatto, inventa. Ogni momento è nuovo. Vive la situazione in modo semplice, mai psicologico. Non conosce i sentimenti, li sperimenta. Cerca. Danza. Gioca. Ma non è un gioco per bambini. È una tragedia. La tragedia della vita.
In questo stato di “essere senza fare” l’attore tocca la ricchezza del qui e ora e può prendere coscienza del proprio modo di entrare in contatto con il mondo, nell’abbandono di ogni intenzionalità. La sublimità del clown è la sua inesauribile apertura allo spazio nonostante la sua completa imperfezione. Quello che ci fa ridere non sono solo i suoi difetti, la sua “non neutralità” altamente drammatica, cioè piena di azioni, ma il suo entusiasmo nel continuare a essere ciò che è al centro della scena, cercando incessantemente di riuscire in qualcosa che è destinato necessariamente a fallire.
Il clown, dunque, sono io, siamo tutti noi, che ci alziamo ogni giorno pieni di vita nonostante la consapevolezza che un giorno moriremo, molto probabilmente soffrendo e facendo soffrire. È qui, dunque, che sta il potenziale unico di questo stile teatrale, che permette all’attore di lavorare con l’ingenuità del bambino e il rigore dell’adulto, rivelando così la sublime poetica del ridicolo e la propria idiozia personalissima.
Immagini tratte da:
http://www.progettogiovani.pd.it/corso-il-clown-teatrale/ http://www.dominonetwork.it/news-dettaglio.aspx?id=169 http://www.eptcaserta.it/la-strada-di-un-clown-di-vladimir-olshansky-al-nostos-teatro/
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Febbraio 2023
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